Ma la politica, al fondo, ha a che fare con la gestione dei processi storici, o con la loro guida?
La questione, tutt’altro che scolastica, si è riaffacciata con forza in queste ultime settimane di sviluppi e colpi di scena multipli sul fronte europeo e internazionale. E porta al pettine, una volta ancora, il ruolo dei leader (o manager? Appunto, ci arriviamo) tedeschi quando si trovano a far fronte a patate bollenti politiche di portata storica. Che fare?
Andiamo con ordine. Angela Merkel, la “regina” della politica tedesca ed europea per oltre tre lustri è uscita di scena. Fuori dai giochi, anche mediaticamente parlando. Mai più una parola, né un’intervista, da quando ha lasciato la Cancelleria, lo scorso 8 dicembre. Si gode il meritato riposo, tanto da aver persino rifiutato (per ora) un prestigioso incarico Onu offertele dal Segretario Generale Antonio Guterres.
Ma la sua luce riflessa continua a spandersi sugli affari tedeschi ed europei. I due dirigenti tedeschi oggi al centro della scena, in fondo, sono entrambi suoi eredi politici, anche se in modi diversi e non lineari. Ursula Von der Leyen, la sorridente presidente della Commissione europea, venne “scovata” dal presidente francese Emmanuel Macron dentro la squadra di governo di Mrs. Merkel, di cui era una fidata ministra dai destini politici incerti, prima di giungere alla ribalta. Pura scuola CDU, anche se con un pedigree più spiccatamente europeo, anche per ragioni biografiche. Quanto a Olaf Scholz, il successore, viene (verrebbe) in teoria dal partito storicamente opposto, l’SPD; ma la sua stessa vittoria elettorale – secondo la maggior parte degli osservatori – è stata agevolata, oltre che dall’inconsistenza del candidato conservatore, dalla “fortuna” di essere stato il vice-cancelliere e ministro delle Finanze di Merkel per oltre tre anni: un viatico per la continuità e la stabilità su cui Scholz stesso ha intelligentemente insistito, intuendo che era questo, sopra tutto, che i tedeschi cercavano.
Perché è utile ricordare oggi tutto questo? Perché Scholz e Von der Leyen, oggi, sono i due dirigenti politici la cui voce pesa di più in Europa – per lo meno in potenza – ed è essenziale capire come la stanno usando, nelle partite che riguardano il futuro di tutto il continente.
Risposta telegrafica, per Scholz: poco e male, per il momento. Alzi la mano chi ha capito di che pasta è fatto il nuovo cancelliere social-democratico. Non che la sua nomina prefiguri alcunché di male, a priori: è certamente uomo di sani princìpi, dirigente equilibrato, europeo sensibile. Il silenzio però, alla lunga, ha il sapore della titubanza – un vizio che non ci si può permettere di fronte a falchi e autocrati. Sulla riforma del Patto di Stabilità, la vera partita da cui dipende la sostenibilità della crescita europea ancora agli albori dopo la pandemia, non è tuttora dato sapere il parere del nuovo Cancelliere. Sul conflitto latente tra Russia e Ucraina, poi, Scholz ha tenuto una linea tanto ambigua da rischiare a più riprese l’incidente diplomatico: prima con gli Usa, per la “resistenza” a mettere sul tavolo anche l’opzione del blocco del gasdotto Nord Stream 2 in caso di aggressione russa, quindi con i Paesi baltici, per il rifiuto di fatto di far arrivare all’Ucraina armi spedite dall’Estonia in segno di solidarietà e sostegno. Avvertito dei rischi di boomerang diplomatico, Scholz ha poi provato a metterci una pezza, volando a Washington da Joe Biden prima, e a Kiev da Volodymyr Zelensky poi. Ma in entrambe le visite a tutti è sembrato confermare in realtà una dose di equilibrismo geopolitico da far impallidire quello della sua predecessora. Pragmatismo smart o ambiguità imperdonabile per proteggere i solidissimi interessi commerciali tedeschi?
La stessa domanda, ahinoi, torna periodicamente alla ribalta ogni volta che si ripropone il tema annoso di come trattare gli “intrattabili” cugini polacchi e ungheresi (i loro governanti, s’intende) che beneficiano comodamente dell’appartenenza all’Ue facendo al contempo strame di diritti e valori fondamentali. L’indiziata numero 1 di accondiscendenza, qui, era ieri la stessa Merkel; oggi – di nuovo, in perfetta continuità – Von der Leyen. Guardiana dei Trattati, dunque dei princìpi fondanti dell’Unione, la Commissione europea avrebbe a disposizione un’ampia gamma di strumenti, tanto sul piano politico, quanto su quello giudiziario, e ancora su quello finanziario, per mettere finalmente i governi di Budapest e Varsavia di fronte all’unica domanda sensata dopo un decennio di riforme liberticide: volete voi restare dentro l’Ue, beneficiando dei suoi aiuti e del suo mercato, ma rimettendo a nuovo le fondamenta democratiche essenziali per farne parte, o preferite rinunciare per sempre a entrambi?
Sulle orme della linea di Merkel, dunque dell’establishment tedesco, Von der Leyen preferisce alternare il bastone e la carota: richiami sì, lettere di messa in mora certo, ma anche lunghi, lunghissimi negoziati per tenere insieme “buoni e cattivi”, e non spezzare l’equilibrio Est-Ovest. Questa settimana, come spiega Fabio Turco, la Corte di Giustizia europea ha infine tolto un grande ostacolo dalla strada del redde rationem finale, confermando che la Commissione ha tutto il diritto (appunto) di difendere lo stato di diritto in tutta Europa, anche bloccando i rubinetti dei fondi comunitari. Sulla cui generosità tanto il Fidesz di Orbán quanto il PiS di Kaczyński e Morawiecki hanno costruito buona parte del loro sistema di potere, consolidando clientele e clientelismi.
La reazione di Von der Leyen? Calma e gesso. La Commissione – ha fatto sapere a caldo – “analizzerà con attenzione le motivazioni alla base della sentenza e il loro possibile impatto e (…) adotterà nelle prossime settimane linee guida che rendano più chiaro come possiamo applicare nella pratica il meccanismo”, quest’ultimo essendo il mordente giuridico che dà all’esecutivo Ue la possibilità, appunto, di bloccare i fondi a chi non rispetta i fondamenti dello stato di diritto. Chi ha tempo, aspetti tempo, insomma. Fumo negli occhi, per quei membri del Parlamento europeo (la maggioranza) che da anni ormai chiedono sanzioni severe per fermare la deriva democratica all’opera in Ungheria e Polonia – con altri Paesi dell’Europa centro-orientale a prendere appunti. Sotto il fuoco incrociato delle critiche, nel dubbio, Von der Leyen ha pensato bene di non farsi vedere al dibattito seguito poche ore dopo nella plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo.
Può darsi che le dinamiche cambieranno, naturalmente, tanto per Scholz quanto per Von der Leyen. Così come può darsi – lo dirà la Storia – che il lento lavorio diplomatico, l’approccio iper-pragmatico e “non divisivo” alla fine si riveleranno vincenti tanto nel tenere insieme l’Unione quanto per difenderla dalle minacce esterne. Ma oggi, è difficile non pensare che ancora una volta, anzi più di prima, i dirigenti politici tedeschi chiamati alla “prova di maturità” politica europea siano frenati da un blocco psico-politico ancestrale – un mix inestricabile di timidezza politica, self-restraint dettato dalle terribili lezioni del secolo scorso, paura di sbagliare, e esigenza di soddisfare l’agenda commerciale interna. In una parola, anzi due, quella sindrome oscura sempre latente dell’egemonia vulnerabile, evocata da Gian Enrico Rusconi qui meno di due anni fa.
Con gli eredi politici di Merkel, Germania ed Europa hanno trovato sin qui ottimi manager per gestire dossier politici delicati; per l’esame da leader – mettersi alla guida e indicare la strada – si prega di riprovare più tardi.
Foto: Dursun Aydemir / Anadolu Agency via AFP.
D’accordo. Tuttavia, penso che Angela Merkel avesse doti di leadership( anche se non sempre adeguatamente espresse), che i suoi “successori”davvero non sembrano possedere. E se il dubbio può sopravvivere con riguardo al nuovo Cancelliere, la certezza mi sembra acquisita per quel che riguarda le capacità della Presidente della Commissione
La tesi sostenuta nell’articolo apre la prospettiva di una guerra. E questa nessuno la vuole, neanche Mosca perché non le conviene: c’è tutta la fornitura di gas all’Occidente in ballo. Bisogna approfittare di questo, andando incontro alle tesi di Putin. Al quale basterebbe che sia sventato il “pericolo” di un’adesione dell’Ucraina alla Nato. Una rinuncia in tal senso (si chiama “finlandizzazione”) sottoscritta da tutti, USA compresi, servirebbe la pace. Penso che questo sia (anche se non lo dice) il parere di Macron. Aggiungo due righe da svizzero: Polonia e Ungheria hanno un’idea diversa d’Europa, meritevole non di sanzioni ma di comprensione e persuasione. Come la Svizzera, del resto, la quale va convinta che a Bruxelles non sono necessariamente tutti orchi disposti a divorare i piccoli Paesi.