L’ascensore sociale del condominio-Italia bloccato? Un’immagine evocativa, ma che non cattura il vero dilemma della crisi di sistema del Paese. La mobilità sociale non si è arrestata: si è rovesciata, e spinge in modo inquietante verso il basso. Lo sostiene Antonio Schizzerotto, docente emerito di sociologia all’Università di Trento e autore di innumerevoli pubblicazioni internazionali sulla materia. Che in questa chiacchierata con Reset attorno all’ultimo dei “nodi” del Trend Illiberale – quello della vulnerabilità sociale – riflette sulle radici profonde della crisi, sui punti dolenti del caso italiano e sui tentativi di risposta del governo Lega-M5S.
Prof. Schizzerotto, dall’Italia agli Stati Uniti sembra di respirare un clima di vera e propria “reazione” contro l’ancien régime, mentre a Parigi i gilet gialli riempiono le strade e chiedono la testa del Presidente. Stiamo davvero assistendo alla rivolta del popolo contro le élites come sostiene, tra gli altri, Alessandro Baricco?
Non so se si possa parlare di rivolta di popolo contro l’élite, per il semplice fatto che bisognerebbe prima intendersi su cosa configura una “élite” da un lato e cosa il “popolo” dall’altro: non per acribia terminologica, ma per evitare di cadere in osservazioni generiche. In linea generale una élite è lo strato superiore della classe dirigente: tutti coloro che occupano posizioni sovraordinate complesse, nella Pubblica Amministrazione centrale così in quella periferica, nelle imprese etc. Ora secondo me la crisi del nostro Paese è una crisi generale di classe dirigente: non esiste più una classe dirigente come esisteva fino a vent’anni fa.
Vale per tutti gli ambiti?
Sì, certo: il fenomeno è indubbiamente più percepibile nella sfera politica per via del contatto diretto con la cittadinanza, ma vale per tutti gli ambiti. L’Italia è in decrescita non da adesso ma dai primi anni ’90. È in quegli anni che si sfaldano contemporaneamente tre dei pilastri che – comunque li si giudichi – avevano sorretto il rilancio del Paese dal dopoguerra. Scompaiono componenti cospicue della grande industria italiana, a partecipazione statale e non – si pensi solo ad esempio al comparto della chimica – dando i natali allo sciagurato slogan “piccolo è bello”. Implode la Prima Repubblica, e con essa i suoi partiti, con i loro riti e le loro scuole di formazione; e va in crisi la stessa istituzione ecclesiale. I tre principali meccanismi di selezione della classe dirigente insomma alla metà degli anni ’90 sono scomparsi. Se esiste una rivolta del popolo, dunque, è perfino tardiva…
Eppure la crisi e la “rivolta” sembrano estendersi a macchia d’olio, ben oltre l’Italia.
Non c’è dubbio, ma il nostro Paese paga in maniera particolarmente acuta una serie di debolezze strutturali. Ancora nel 1995 il Pil pro capite era al di sopra della media europea: poi da quel momento non ha fatto che scendere progressivamente di anno in anno. E parallelamente alla scomparsa della classe dirigente di cui detto sono aumentate sempre più le diseguaglianze, portando a un impoverimento generale per quanto riguarda tanto i redditi quanto i patrimoni. È così che si è determinato l’allargamento della distanza tra “vertice” e “base” della società, ma anche l’allontanamento della classe media impiegatizia dal vertice: non perché la classe media si sia, come qualcuno dice, “proletarizzata”, ma perché gli altri (i privilegiati) sono andati sempre più distanziandosi. E questa, in un quadro del genere, non è più una classe media. Si capisce del tutto in questa chiave il voto massiccio a due forze come Lega e M5S: sono lo strumento con cui impoverimento, percezione di crescita delle diseguaglianze e risentimento sociale hanno modo pieno di manifestarsi.
Secondo l’ultimo rapporto del Censis quasi un italiano su due non ha più speranza per il futuro del Paese e oltre il 63% è convinto che sia più conveniente, dato il contesto, “fare da sé” per difendere i propri interessi. Come si fa a recuperare un minimo di senso di coesione in una società così sfilacciata?
Nessuno naturalmente ha la bacchetta magica. Ma premesso che anche queste pulsioni individualiste vengono da lontano – iniziano già negli anni ‘80 e ‘90 e vengono poi definitivamente sdoganate dal berlusconismo – credo che il primo strumento di soluzione resti il recupero della situazione economica, e dei livelli occupazionali. Se guardiamo alla fotografia d’insieme, la ricerca dell’impiego è sempre più lunga; il numero di episodi lavorativi è sempre più alto; mentre la loro durata diminuisce progressivamente. E a differenza di altri Paesi, come detto, non abbiamo più macro-imprese, che possono garantire capacità di assorbimento che le micro-imprese famigliari non hanno.
Vede un senso, in questo contesto, nel provvedimento a lungo annunciato e ora pur faticosamente lanciato dal M5S – il reddito di cittadinanza – o solo uno strumento di consenso?
I due interventi cardine del governo (reddito e riforma delle pensioni con “quota 100”, ndr) credo andranno incontro al fallimento. Da un lato per ragioni di sostenibilità macroeconomica; dall’altro per ragioni di disfunzionalità strutturali, specie per quanto riguarda il reddito di cittadinanza. I centri per l’impiego non li abbiamo; e mischiare politiche attive del lavoro insieme con strumenti di sostegno al reddito è di per sé una strada problematica, che finisce per porre seri dilemmi pratici: una persona di sessant’anni che rientra nello schema la rimettiamo al lavoro? E a un giovane brillante laureato che non trova un impiego adeguato che cosa proponiamo, di fare il tornitore? E se poi il lavoro non lo trova perché non c’è o non riesce a spostarsi? L’impressione, francamente, è quella di un pasticcio. In generale in tutto il mondo c’è una di misura di sostegno al reddito, e poi si attuano politiche attive del lavoro. Ma mescolare queste due carte mi pare una pessima idea.
In due recenti saggi il filosofo Anthony Appiah e il settimanale The Economist hanno puntato il dito, da angoli diversi, contro il tradimento delle promesse di mobilità sociale del modello meritocratico. Tempo di sostituirlo tout court con un altro sistema di valori, o “solo” di tornare al suo ideale originario?
Che nella dinamica di allocazione degli individui nelle varie posizioni occupazionali e dunque sociali i criteri della competenza non siano mai stati nel nostro Paese adeguatamente tutelati è fuori discussione. Ma mi sembrano necessari due chiarimenti.
1) Non è vero che in Italia ci sia poca mobilità sociale. Mediamente i due terzi degli italiani si trovano oggi in una posizione diversa da quella dei genitori: il che indica che un certo grado di fluidità c’è. Il problema è che per le giovani generazioni la proporzione di soggetti che sperimentano mobilità discendente è decisamente superiore di quelli che la sperimentano in senso ascendente. Certo è normale che il processo vada nei due sensi. Ma così il risultato è che le dimensioni delle classi alte e medio-alte si sono assottigliate. Detto altrimenti, l’Italia ha vissuto nell’insieme un occupational downgrading: esportiamo medici, ingegneri, statistici, demografi, e importiamo badanti, raccoglitori di frutta etc. I fenomeni migratori nel complesso per noi hanno significato sostanzialmente questo.
2) È stato diffuso un concetto di meritocrazia basato esclusivamente sull’istruzione, dimenticando un piccolo problema: che le chances di istruzione sono fortemente diseguali nel nostro Paese. E se l’educazione è distribuita in modo diseguale indipendentemente dalle capacità dell’individuo, è evidente che il meccanismo meritocratico è viziato all’origine. Per di più da noi la struttura del sistema scolastico presenta lacune cospicue, la principale essendo che abbiamo istruzione terziaria di tipo solamente accademico, mentre manca completamente quell’esperienza delle grandi scuole d’istruzione terziaria non-accademica tanto forte ad esempio in Germania. L’Università è di per sé un’istituzione per l’istruzione (superiore) generale, non per l’avviamento al lavoro: ha in mente la trasmissione del sapere, non degli skills concreti richiesti dal mercato. Per tutti gli sforzi recentemente intentati non ce la fa, non è il suo mestiere.
Nel clima generale di “rifiuto dell’autorità” descritto proprio la sfera del sapere sembra essere anch’essa minacciata. Come può rispondere in questo contesto l’istituzione Università?
Credo che l’Università conservi un ruolo centrale. Quanto osservato sopra vale come una sorta di auspicio che essa si occupi meno degli esiti strettamente professionali dei ruoli intermedi: si pensi ad esempio a figure come tecnici di laboratorio, infermieri, etc. che intasano letteralmente le facoltà di medicina, quando abbiamo poi pochi medici. D’altra parte, per contribuire a sviluppare i livelli di competenza di cui abbiamo bisogno servono politiche sensate di diritto allo studio universitario, che oggi mancano. Detto ciò è chiaro che il ruolo dell’Università in un contesto del genere rischia di essere ulteriormente compresso e compromesso. Ma non credo che gli Atenei abbiano grandi responsabilità nell’attuale svilimento del sapere: mi pare se mai un portato strutturale di questo risentimento sociale generalizzato. È a quello che va trovata risposta.