La memoria della Shoah non sopravviverà indenne al tramonto dei suoi testimoni: ad oggi si contano ancora 160.000 sopravvissuti dell’Olocausto, in primis divisi tra Israele, Europa occidentale e Stati Uniti. La grande maggioranza di questi è ultranovantenne – ogni giorno, secondo una macabra statistica, ne muoiono circa trenta- e una parte minore può testimoniare di quell’esperienza solo in minima parte, essendo stata nei campi di concentramento nella prima infanzia, un periodo in cui non è possibile maturare una coscienza definita degli eventi a cui si assiste. Shmuel Rozeman, presidente dell’associazione ebraica “La marcia dei vivi”, che organizza annualmente le commemorazioni negli ex campi di concentramento, profetizza che “nei prossimi dieci anni non vi saranno più testimoni diretti della Shoah e che antisemitismo e negazionismo torneranno a riacutizzarsi” (Rhein-Neckar Zeitung, 24/4/2017). Egli sembra dare voce ad un pessimismo infondato in un’epoca in cui la memoria della Shoah non è mai stata così centrale nelle agende politiche di mezza Europa, degli Stati Uniti e di Israele e tuttavia la sua profezia tocca un nervo scoperto: la scomparsa progressiva dei testimoni nella terza decade del XXI secolo è destinata a porre in primo piano la questione non solo di come, ma di quale memoria tramandare alle nuove generazioni.
Infatti, col passare del tempo e con l’instaurarsi di una maggiore distanza tra eventi storici e quell’opinione pubblica che costituisce la diretta beneficiaria della memoria che viene tramandata, si modifica il modo stesso di “fare storia”. Se nella generazione coeva ad un evento ci si affida soprattutto alla dimensione della “vista” – riferendosi ai “testimoni oculari” come massime autorità in materia di racconto, essendo coloro che hanno assistito in presa diretta agli eventi – in quelle successive si cominciano ad affermare necessariamente catene di testimonianze indirette, più o meno affidabili e autorevoli in base alla vicinanza e alla trasparenza che le lega a quella prima generazione di testimoni o ai documenti che essi hanno lasciato. In questo secondo passaggio, che è quello che la memoria e lo studio della Shoah stanno già affrontando, è possibile che si affermino alcune versioni più autorevoli di altre perché maggiormente sostenute dai poteri politici del momento, perché più compatibili con le narrazioni attuali o semplicemente perché più utili al rafforzamento della coesione collettiva di un determinato gruppo sociale o nazionale.
È anche possibile che, nella transizione da testimonianza a memoria, si riscontrino dei pericolosi vuoti: domande a cui nessun testimone ha mai risposto, magari semplicemente perché non gli sono mai state rivolte, o rimaste latenti, perché nessuno ha avuto mai il coraggio di sollevarle in pubblico nel momento in cui quegli stessi testimoni erano ancora vivi e quegli interrogativi potevano approfondire il dolore delle vittime ancora emotivamente coinvolte e infierire sulle loro ferite aperte. È il fenomeno osservato dalla giornalista Erna Paris, che in Long Shadows. Truth, Lies and History parlava del rispetto della “religione dei testimoni”. Il riferimento era a quelle linee rosse invisibili ma infrangibili presenti in un racconto ufficiale che si è costruito nel tempo sulla testimonianza delle vittime, che non possono moralmente sostenere né dar prova della lucidità necessaria ad affrontare domande scomode o questioni controverse. Questioni come, ad esempio, il ruolo dei Consigli ebraici nelle selezioni per Dachau ed Auschwitz, la cui problematica funzione era stata evidenziata da Hannah Arendt in uno dei suoi saggi più celebri (La Banalità del Male, 1961), o la polemica storica sul mancato intervento militare di Stati Uniti e Gran Bretagna a soccorso degli internati nei campi di concentramento, sollevata per la prima volta da David Wyman (The Abandonment of the Jews: Americans and the Holocaust, 1941-45, Random House, New York, 1984). L’attacco più duro all’autorità dei testimoni era, però, stato già portato dal provocatorio interrogativo sollevato dallo storico ebreo-americano Raul Hilberg, che ne contestava il ruolo di preminenza affidato nella ricostruzione della Shoah già nella prima generazione: “La visione ebraica di quanto è accaduto è stata estremamente limitata. Quanto lontano, infatti, si può vedere essendo stipati in un ghetto o in un campo?” (The Destruction of European Jews, Quadrangle Books, New York, 1961).
La forza e i limiti della testimonianza
Accuratezza storiografica a parte, i testimoni erano lì per trasmettere un messaggio etico e morale e consegnarlo alle nuove generazioni e non certo per fornire una ricostruzione dettagliata delle singole fasi che avevano condotto all’assassinio di sei milioni di ebrei in Europa. La differenza tra commemorazione e storia è ben presente nella mente degli addetti ai lavori, anche se forse non altrettanto in quella dei cittadini dei Paesi in cui la rievocazione della Shoah è assurta a commemorazione pubblica. Dei circa 39 Paesi che hanno calendarizzato una giornata commemorativa della Shoah a livello nazionale, la netta maggioranza considera la data del 27 gennaio come la più esemplificativa, ritenendo l’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata rossa come la fine del genocidio degli ebrei in Europa. Una minoranza, come l’Austria, la Lettonia, la Romania, l’Ungheria, la Bulgaria e la Slovacchia, ne nazionalizza la data: il 5 maggio, ad esempio, marca per Vienna l’apertura dei cancelli del campo di concentramento locale di Mathausen. Israele, infine, fa coincidere le commemorazioni dell’Olocausto con la commemorazione dell’eroica sollevazione del ghetto di Varsavia, che cade in una data tra l’aprile e il maggio del calendario lunare ebraico, per celebrare più l’orgoglio della resistenza ebraica all’oppressione che l’abbandono inerme della maggioranza delle vittime nelle mani dei loro carnefici.
L’istituzione di una giornata apposita per la memoria della Shoah è stata introdotta dalle Nazioni Unite nel 2005 (Risoluzione dell’Assemblea Generale ONU 60/7), ovvero 60 anni dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, e voluta in forte continuità con la Convenzione per la prevenzione e la punizione dei crimini di genocidio (1951). Questo è certamente il risultato ottenuto dallo sforzo incessante di una codificazione specifica dei crimini eccezionali perpetrati contro il popolo ebraico durante la guerra, fortemente perseguita da un ebreo polacco, Raphael Lemkin, allora consulente del Procuratore capo del Tribunale di Norimberga. La Convenzione contro il genocidio, oggi siglata o ratificata da 152 Stati, è alla base dell’operato della Corte penale internazionale dell’Aia (1998). Si può dire che la Shoah è servita ad avviare la stagione dei diritti umani e che il contenuto etico universale del messaggio tramandato dai suoi testimoni – che si può condensare nel rigetto di ogni forma di discriminazione ai danni delle minoranze, della propaganda di odio etnico, nazionale o razziale che possa condurre a nuovi genocidi, del rifiuto degli ordini ingiusti, anche qualora imposti dalle autorità – oggi rappresenti il nucleo fondamentale del contratto sociale di ogni democrazia liberale. Il suo monito “mai più”, scandito incessantemente ogni anno durante le cerimonie commemorative, ha esortato ormai tre generazioni di europei nel ‘900 a non cedere alle barbarie, a vigilare contro le forze politiche estremiste che potrebbero risorgere e tornare ad ottenere il potere gradualmente e democraticamente (la cosiddetta “tentazione totalitaria”) e ha fornito un valido sostrato etico alle democrazie occidentali contemporanee proprio nel comune rigetto dell’estremismo etnico, religioso, razziale o di qualsiasi altro contenuto politico.
Il suo messaggio etico fondamentale è a larga maggioranza filtrato e ha raggiunto il suo scopo, quello di diffondere una diffusa “consapevolezza emotiva”, se non fattuale, dell’obbligo morale di compiere ogni sforzo possibile affinché episodi storici di violenza e ingiustizia collettiva simili non si ripetano più. Tuttavia, se tale messaggio ha centrato il suo obiettivo per quanto riguarda la memoria dei crimini perpetrati contro gli ebrei dalla Germania nazista e, in minor misura, da parte degli altri Paesi europei collaborazionisti, esso non ha dimostrato pari efficacia rispetto all’obiettivo più universale di trasmettere alla comunità internazionale il compito di vigilare contro le sempre possibili esplosioni di odio e persecuzione nei confronti di minoranze o gruppi non allineati alle politiche ufficiali. Ricorrendo ad un’estrema semplificazione, il riconoscimento internazionale tributato alla Shoah non ha impedito che crimini altrettanto efferati e a carattere genocidario si ripetessero in Rwanda (1994) e Bosnia-Erzegovina (1995), né ha accelerato e diffuso la consapevolezza su analoghi crimini perpetrati prima di esso, come il genocidio namibiano (genocidio degli Herero e dei Nama, 1904-1908), quello armeno (1915) o quello libico (1923), per citare solo quelli più vicini o a noi “familiari”, in quanto perpetrati da Stati europei.
La storicizzazione della memoria
La memoria della Shoah, negli oltre settant’anni che sono intervenuti dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, si è storicizzata, attraversando quattro fasi, che sommariamente possono essere ricondotte a un periodo di negazione e occultamento dei fatti nella percezione collettiva (1945-61); una fase di dolorosa emersione del fenomeno, costellata da una serie di inchieste politiche, giornalistiche e giudiziarie (1961-1985), tra cui spicca il processo contro Adolf Eichmann (1961) a Gerusalemme –primo processo a un criminale nazista da Norimberga intentato dallo Stato di Israele quale erede delle sei milioni di vittime ebraiche -; un periodo di ufficializzazione della memoria (1985 ad oggi), comunemente riconosciuto come avviatosi con il celebre discorso pronunciato dal Presidente tedesco della Repubblica federale Richard von Weizsaecker l’8 maggio del 1985: la più alta personalità politica tedesca a lanciare per la prima volta il monito dell’obbligo del ricordo imperituro della Shoah per tutti i popoli europei, ed in particolare per la Germania; ed, infine, un periodo di istituzionalizzazione della memoria, avviatosi con la prima Risoluzione del Parlamento europeo sulla giornata della memoria (1995) e proseguita con l’analoga Risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite (2005) fino ai nostri giorni.
L’ufficializzazione e l’istituzionalizzazione della Shoah, le due ultime fasi, si sono appuntate sull’articolazione di quattro elementi-cardine attraverso cui strutturare la memoria: due elementi materiali, la costruzione di musei e monumenti commemorativi, e due immateriali, come l’introduzione di cerimonie commemorative quali il 27 gennaio o in una significativa data nazionale a scelta, e lo sforzo continuo di monitorare la ricorrenza dell’antisemitismo ed educare le giovani generazioni.
Il primo museo della Shoah in assoluto è il celebre Yad Vashem, costruito a Gerusalemme nel 1953, per raccogliere tutta la documentazione, i resti materiali e le notizie biografiche sulle sei milioni di vittime ebree del genocidio nazista. Tuttavia, la smaccata tendenza alla costruzione dei musei nel resto del mondo occidentale parte quarant’anni dopo dagli Stati Uniti, per altro potenza non toccata dal genocidio degli ebrei, con l’edificazione del primo museo a Washington nel 1993 (United States Holocaust Memorial Museum) fortemente voluto dal testimone Elie Wiesel, per successivamente diffondersi in tutta l’Europa occidentale e centrale (Jüdisches Museum, Berlino 2001; Holokauszt Emlékközpont, Budapest 2004 e Mémorial de la Shoah, Parigi 2005), fino forse in futuro a toccare anche Roma, con la probabile apertura nel 2023 del suo primo museo a tema a Villa Torlonia, simbolicamente non lontana dalla residenza del dittatore fascista Benito Mussolini. Nelle parole di Luca Zevi, l’ideatore del Museo romano, la cui edificazione tarda solo per motivi burocratici contingenti e non per titubanze politiche, “la struttura apparirà come una scatola nera sospesa sulle teste (dei visitatori), su cui saranno scritti i nomi dei deportati” (La Stampa, 4/12/2019). In modo analogo agli altri musei della Shoah, tali opere aspirano a destare sincero sgomento e al contempo sdegno morale nel pubblico per il modo in cui la dignità umana è stata calpestata e, per di più, nel cuore dell’Europa, invitando tutte le persone comuni ad una costante vigilanza sul corretto funzionamento della democrazia.
I musei sembrano dare corpo alla concreta possibilità di trasmissione della memoria in eterno, ben oltre l’esistenza dei testimoni oculari, ma pongono anche nuove sfide e problemi: è difficile condensare la complessità di un fenomeno sfaccettato in una dimensione visuale tridimensionale che predilige la trasmissione di un’esperienza emotiva senza presupporre alcuna conoscenza preliminare. Un museo può semplificare e modellare la storia per renderla sufficientemente lineare da rientrare in un percorso educativo guidato fatto di alcuni pannelli esplicativi, di testimonianze visive e sonore più o meno collegate tra loro, creando artificialmente un itinerario tematico e cronologico nient’affatto neutrale, ma impregnato di un’enfasi morale su un “senso della storia” del tutto estraneo agli eventi rievocati. È indubbio, però, che esso riesca a coniugare perfettamente due obiettivi: la preservazione dei documenti e dei reperti storici materiali e quella, soprattutto grazie ai nuovi mezzi di comunicazione digitali, dei volti e dell’incredibile patrimonio di testimonianze oculari raccolte in questi settant’anni.
Haim Gartner, direttore del museo israeliano Yad Vashem dal 2008, si è mostrato cautamente ottimista rispetto alla sfida posta da questo tornante epocale che coincide con la lenta ma progressiva sparizione di tutti i testimoni: il suo museo ha recentemente raccolto oltre 300.000 fotografie personali di sopravvissuti e delle loro famiglie grazie ad una chiamata a raccolta lanciata a tutte le famiglie israeliane per la donazione di effetti personali, diari e ricordi dei sopravvissuti della Shoah. Ha anche annunciato di aver raccolto oltre 127.500 testimonianze audiovisive in oltre 41 lingue, oltre 290 milioni di documenti e 10.000 opere artistiche, e di voler lanciare presto un’app del museo attraverso la quale tutti i materiali collezionati saranno visibili comodamente da casa al grande pubblico, insieme alle testimonianze video dei sopravvissuti, che, grazie ad un notevole sforzo di comunicazione alle nuove generazioni del personale del museo, sono state condensate dalle tre ore delle testimonianze originarie in video di pochi minuti fruibili da un più ampio pubblico (Arutz Sheva, 17/2/2016). Tuttavia, alcuni limiti dell’iniziativa appaiono a Gartner al contempo evidenti: “La digitalizzazione è di grande aiuto per la trasmissione delle testimonianze oculari, ma tutto quello che si trova sul web è fortemente manipolabile ed è per questa ragione che la sorveglianza e il filtro di storici di professione è quanto più necessario” (Berliner Morgen Post, 20/1/2020).
Funzione simile, anche se in maniera meno sofisticata, assumono le Stolpersteinen – le pietre d’inciampo – incastonate nelle piazze e nelle strade di mezza Europa, così come i numerosi monumenti e targhe affissi sulle case dei deportati o sui luoghi in cui sono avvenute ronde e persecuzioni collettive. Tuttavia, mentre le pietre non si prestano ad alcuna strumentalizzazione postuma, la proliferazione di musei nazionali della Shoah lascia pensare che si assista a una corsa a rivendicare un ruolo per ogni Paese in una memoria collettiva dell’Europa e degli ebrei d’Europa che viene ora parcellizzata in tante microstorie nazionali in profonda discontinuità con quella terribile catastrofe – la Shoah – ed esperienza dell’annientamento che li riunì, invece, tutti, in una “babele indistinguibile di lingue”, per citare Primo Levi. L’Europa non avrebbe forse dato un esempio migliore costruendo un solo grande ed unico museo che esemplificasse la colpa congiunta e collettiva di un continente – o di larga parte di esso – e il crollo morale dell’intera civiltà europea?
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Foto: JANEK SKARZYNSKI / AFP
Ottimo spunto di riflessione in primo luogo il problema della progressiva scomparsa di testimoni diretti, e di come il tempo abbia in qualche misura modificato la qualità della loro testimonianza. Anche per quanto riguarda il ruolo del museo della memoria, sembra di poter dire che deve avere una funzione di stimolo ad approfondire, a studiare fenomeni e periodi storici, non potendo essere esaustivi quanto a elementi “scientifici” sull’argomento. Particolare interessante la breve riflessione sui “consigli ebraici” che ebbero un ruolo ambiguo e infine controproducente, come emerge anche dai “Diari” di Etty Hillesum.
Eccellente…memoria e amnesia…il tempo le scambia