“Il welfare non basta più”. È netto il giudizio di Chiara Saraceno, tra le più autorevoli sociologhe europee, di fronte alle crescenti disuguaglianze, “insopportabili e ingiustificabili”, che rendono povere e vulnerabili porzioni di società sempre più ampie. È “giusto e necessario adeguare il welfare ai cambiamenti avvenuti nell’ambito del lavoro, della famiglia, della composizione sociale”, ma oggi servono soprattutto “politiche pre-distributive: ridurre le disuguaglianze di reddito tra un amministratore delegato e gli operai, reintrodurre le tasse sull’eredità e sul patrimonio, regolare la mobilità dei capitali finanziari”. In questa intervista per Reset Chiara Saraceno ripercorre le principali trasformazioni dei regimi di welfare, i meccanismi istituzionali che proteggono i cittadini dalle conseguenze della vulnerabilità sociale. E suggerisce che, per favorire “una società di uguali”, i meccanismi di riparazione e compensazione vadano accompagnati a rigorose politiche pre-distributive.
I regimi di welfare sono dinamici, flessibili, frutto di continue negoziazioni. E riguardano ambiti differenti. Eppure, come ricorda nel libro Il welfare, negli studi prevale “una certa sovrapposizione tra i diritti del lavoro/dei lavoratori e i diritti sociali tout court”, una sovrapposizione che restringe i parametri dell’analisi, dimentica le politiche di sostegno al reddito dei poveri, settori importanti come scuola, sanità, famiglia, casa. Servirebbe un’interpretazione più ampia?
Tra gli studiosi in effetti prevale l’attenzione per i grandi istituti del welfare del lavoro. Ciò è avvenuto, e continua ad avvenire, perché sono gli ambiti in cui si trovano più dati e sono dunque più facilmente comparabili, per quanto i sistemi pensionistici siano diversi. Qualche studioso si sforza di aggiungere anche il settore della sanità, sebbene non sia sempre regolata in modo pubblico, e molto più raramente la scuola. Questo approccio deriva anche dal fatto che la spesa sociale è largamente usata per questi istituti, mentre gli altri ambiti ne rappresentano una parte sempre più ridotta. Gli altri servizi, poi, possono essere locali, difficili da individuare e studiare in chiave comparativa.
Inoltre, il welfare lavoristico è sempre stato l’aspetto centrale delle politiche pubbliche in termini di spesa e di peso specifico, anche nei welfare più universalizzanti: nel modello originario si riteneva che tutti i diritti potessero essere “attaccati” al lavoratore, e poi trasferiti alla famiglia, anche se già negli anni 50 alcuni studiosi sostenevano che si potesse propriamente parlare di welfare quando ad avere diritti era il cittadino, non soltanto il lavoratore. Inoltre, se è vero che il welfare è sempre oggetto di negoziazioni tra attori diversi, a parte la scuola e la sanità negli altri ambiti delle politiche della famiglia gli attori non sono così facilmente identificabili e autoidentificati, e per questo sono più deboli. Il cittadino, come utente diretto, in un certo senso scompare. In più, anche se sulle politiche del lavoro ci sono stati conflitti e idee diverse, nelle altre sfere, sanità e scuola a parte, ci sono fortissimi conflitti ideologici. Prendiamo le politiche per la famiglia: cosa è la famiglia? È giusto fare i servizi pubblici o preferiamo che se ne occupino le famiglie? Ancor più che nel lavoro, negli altri ambiti sono in gioco visioni del mondo, idee diverse su cosa sia normale e cosa no, su cosa aspettarsi dal pubblico e dal privato, su quali siano i confini tra i due ambiti, sui limiti di intervento dello Stato.
Il welfare a lungo è stato considerato funzionale alle economie di mercato, tanto che i neomarxisti lo criticavano perché legittimava il capitalismo, mentre per Dahrendorf depotenziava la conflittualità. Ora le cose sono molto cambiate: già prima della crisi del 2007/8 si è affermata l’idea che il welfare, anziché un alleato, sia diventato un ostacolo al buon funzionamento del mercato. Dipende soltanto dall’affermazione del neoliberismo o c’è altro?
Il neoliberismo si è potuto affermare a causa della crisi petrolifera degli anni Settanta. Quella crisi ha archiviato la pretesa di egemonia europea, la convinzione che l’Europa potesse controllare anche i mercati internazionali, aumentando così la concorrenza globale e mostrando tutti i limiti della promessa keynesiana del pieno impiego (maschile, va da sé). È allora che si è potuto affermare il neoliberismo e l’idea che per vincere la competizione internazionale occorresse abbassare il costo del lavoro e rendere più flessibile il welfare, ritenuto ormai incapace di agire come stabilizzatore del capitalismo e della classe operaia; l’idea che il capitalismo per sopravvivere dovesse rafforzare la propria competitività, grazie all’innovazione, allo sviluppo tecnologico e a un maggiore controllo sulla manodopera, sulla forza-lavoro. Questa convinzione che occorresse allentare i freni si è tradotta non solo nella riduzione di diritti, ma anche in una fortissima liberalizzazione del capitale.
Ed è proprio questo il problema: oggi in genere riteniamo che il welfare non sia più adeguato perché sono cambiate le condizioni del lavoro, ma il vero problema è che la redistribuzione da sola non può più funzionare come contrasto alle disuguaglianze.
Non bastano più i meccanismi di riparazione, di compensazione, perché le disuguaglianze sono divenute eccessive.
I regimi di welfare, con tutti i loro limiti, hanno impedito che una parte della popolazione europea finisse direttamente nella povertà, a causa della crisi del neoliberismo iniziata nel 2008. Eppure godono di una sempre minore legittimazione politico-culturale e nel discorso pubblico, anche in Italia, ha preso piede l’idea che la causa della crisi sia stato un welfare troppo generoso. È proprio così?
È un discorso insensato, soprattutto in Italia, dove non abbiamo mai avuto un welfare generoso. Non è stato certamente un eccesso di generosità nel welfare a ostacolare la competitività. In Italia non c’è stato alcun eccesso di assistenzialismo, salvo quello alle imprese, privo di verifica, spesso a fondo perduto. Quanto al welfare e alla povertà, già Tony Blair coltivava l’idea del welfare to work, l’idea cioè che un particolare welfare, non tutto, fosse passivizzante: quello per i poveri. Da questo punto di vista è interessante il dibattito sulle due misure principi del governo italiano, Quota 100 e Reddito di cittadinanza. La maggioranza della popolazione è contraria a quest’ultimo perché lo percepisce come assistenziale, come se si trattasse di una brutta parola. Diverso il caso di “Quota 100”, che andrà soprattutto al nord, agli uomini che hanno già una buona pensione, ma che non è ritenuto tale. Quando si parla di “troppo welfare” si operano sempre delle scelte. A essere condannato è il welfare dei poveri e in parte quello per le donne.
Come nota nel libro già citato, anche prima del welfare state le politiche pubbliche per i poveri distinguevano tra meritevoli e non meritevoli e presupponevano che i poveri, per dirla con termini attuali, si attivassero. Alla base c’era l’idea che avessero una fibra morale più debole. Questa idea oggi si ripropone in forme nuove, con il passaggio dal welfare classico al welfare inteso “prioritariamente come offerta di lavoro”, come welfare state di investimento sociale, che punta alla formazione del capitale umano…
Anche a causa dell’invecchiamento della popolazione, perfino in epoca neoliberista la spesa sociale è rimasta più o meno la stessa. A cambiare è il linguaggio usato, i criteri di accesso, divenuti sempre più restrittivi, la narrazione complessiva su cosa sia il welfare e su chi possa beneficiarne. Nell’idea del welfare to work ci sono anche aspetti positivi. L’idea che se do un sostengo al reddito devo dare anche altro, abilitare le persone, rimanda al miglior welfare keynesiano, a Thomas Marshall, all’idea del welfare come meccanismo per abilitare altri diritti.
Non c’è nulla di male nell’idea che nei limiti del possibile il welfare debba condurre al lavoro, per chi può e per la parte che può. Diventa un’idea terribile quando è un lavoro purchessia, o quando si trasforma in un do ut des vincolante, oppure nell’idea che i poveri vadano sempre accompagnati perché hanno una fibra morale più debole dei ricchi.
Se pensata come una forma di compensazione a una presunta debolezza morale, diventa una diminuzione di cittadinanza, non un’abilitazione. Ti do se ti riconosci come meno capace, se ti sottoponi a controlli e così via. Da questo punto di vista la traiettoria dei 5 stelle e del loro reddito di cittadinanza è sconvolgente.
Fin qui abbiamo cercato di ripercorrere origini e mutamenti del welfare a partire dalla matrice lavorista che, come lei ha ricordato, presupponeva che “tutti i diritti potessero essere attaccati al lavoratore”. I principali teorici del reddito di base, penso a Philippe Van Parijs e Guy Standing, sostengono che è arrivato il tempo di rompere questo legame tra reddito e lavoro, assicurando una sicurezza economica indipendente dal lavoro. Cosa ne pensa?
Il basic income non risolverebbe del tutto la questione del reddito per i poveri, ma garantirebbe uno zoccolo su cui innestare altro. Sono abbastanza d’accordo con l’idea di fondo, perché nella vita esistono tante altre cose socialmente e individualmente importanti e utili oltre al lavoro: la partecipazione politica, il volontariato, il lavoro di cura, la cultura, etc. Se assumiamo solo gli ambiti della famiglia e del lavoro rischiamo di desolidarizzare la società. Il basic income tiene conto di questa pluralità e fornisce la sicurezza economica di base per essere liberi di non accettare un lavoro purchessia, liberandoci così dal ricatto del bisogno.
Mi convincono anche le proposte di Günther Schmid, teorico dei transitional labour markets e promotore dell’idea che occorra sostenere e agevolare le transizioni dentro e fuori dal mercato dal lavoro, con una sorta di indennità di disoccupazione allargata a molte transizioni, con investimenti nella formazione, nella cura della famiglia, etc. Günther Schmid parla di un’assicurazione di corso della vita, una forma di protezione che è ancora di tipo lavoristico, è vero, ma che accompagna il lavoratore e la lavoratrice per tutto il corso della vita.
Più in generale, però, tengo di nuovo a sottolineare che il welfare non basta più. È giusto e necessario adeguare il welfare ai cambiamenti avvenuti nell’ambito del lavoro, della famiglia, della composizione sociale, ma bisogna contrastare le disuguaglianze con strumenti che non siano soltanto welfaristici.
Oggi servono politiche pre-distributive: ridurre le disuguaglianze di reddito tra un amministratore delegato e gli operai, reintrodurre le tasse sull’eredità e sul patrimonio, regolare la mobilità dei capitali finanziari, archiviare il neoliberismo.
Le disuguaglianze si sono ampliate in modo insopportabile, ingiustificabile, tanto che i regimi di welfare non funzionano più neanche in posti come la Svezia.
E forse non basta neanche più ragionare dentro la cornice nazionale. La filosofa Nancy Fraser sostiene che, venuta meno la cornice westfaliana, oggi ci si debba interrogare anche sulle cornici da adottare nelle questioni di giustizia. Visto che quando si parla di welfare, di benessere o povertà, non si parla altro che di giustizia, dovremmo abituarci anche qui a una cornice transnazionale, europea?
Nel corso degli ultimi anni c’è stato un re-scaling: il welfare è diventato più locale, ma anche più europeo. In Europa, con molto ritardo i socialdemocratici hanno proposto un documento complessivo, che prevede alcune misure predistributive e altre classicamente welfaristiche, come il salario minimo decente, non solo di base. Occorrerebbe un reddito minimo per i poveri a livello europeo, forme di regolazione e di redistribuzione continentali.
Ma quando si ragiona di povertà ci si tiene ancora strettamente dentro i confini nazionali. Le differenze sono enormi, i criteri di misura diversi. C’è una differenza di 8 volte tra il rischio di povertà, in termini di consumi reali, tra la Romania e il Lussemburgo. Tenendo conto del costo della vita, questo vuol dire che un povero in Romania ha 8 volte meno possibilità di consumare, di avere una vita decente, rispetto a un povero lussemburghese. Ha senso, all’interno dello stesso spazio politico e regolatorio?
Sembra piuttosto insensato, in effetti. Ma da quanto ha detto prima, non sarebbe neanche sufficiente a eliminare le disuguaglianze…
Per questo insisto sull’importanza delle misure predistributive: bisogna attaccare l’origine della formazione delle disuguaglianze, non solo realizzare misure ex-post. In questo ha ragione la scuola dell’investimento sociale, per cui occorre investire all’inizio, a monte, non solo compensare alla fine, a valle. Il limite di quell’approccio è che si ferma alle persone, senza analizzare le condizioni che creano le disuguaglianza. Va bene investire in formazione, ma se il mercato del lavoro rimane come è, se i benefici delle nuove tecnologie vengono distribuiti asimmetricamente, se il capitale è sempre più estrattivo, finisce che chi non fa dei gruppi vincenti continua a non essere incluso, o diventa frustrato.
L’investimento sociale è tutto centrato sull’offerta, in funzione di una domanda più formata, più tecnologicamente avveduta, ma non dice nulla su ciò che è oggi più importante e più urgente affrontare: le disuguaglianze, che sembrano date per scontate e considerate utili, strumentali. Quando ci dicono che tutto sommato creare servizi di conciliazione non è tanto costoso perché chi lavora nei servizi costa meno del beneficio prodotto, si dà per scontata una società disuguale, in cui qualcuno produce e poi ci sono gli zucconi, coloro vengono pagati meno, che non hanno voluto studiare, che fanno i lavori sporchi. È la società di Amazon e di Google, dei tecnici ben pagati e delle donne delle pulizie mal pagate. L’approccio dell’investimento sociale presuppone o finisce per produrre un mondo basato sull’idea che ci sia e ci debba essere un’asimmetria nei costi e nelle ricompense. Al contrario, io continuo a desiderare una società di uguali.