L’intervista a Joseph Ratzinger per l’Archivio delle memorie di Raisat Extra. La versione integrale nel cartaceo di Reset maggio-giugno 2005. Con un’introduzione di Pasquale Chessa.
Il latino di Ratzinger di Pasquale Chessa
Era stato Francesco Cossiga a mettermi in contatto con monsignor Georg Gänswein. La trattativa per un’intervista al cardinale Joseph Ratzinger non fu difficile. Non si trattava di una intervista qualsiasi… Con lo storico Francesco Villari, mi occupavo di una trasmissione per Raisat intitolata “Archivio delle Memorie”. Purtroppo sembra che tutto sia andato perduto. L’ambizione era quella di intervistare la Storia! Un piccolo documentario di quasi un’ora su un evento epocale reinterpretato in prima persona da uno dei protagonisti.
Così come Carlo Caracciolo (editore dell’Espresso e di Repubblica) raccontava per la prima volta la sua partecipazione alla Resistenza, Marcella Ferrara (la madre di Giuliano) la sua esperienza con Togliatti di cui era stata segretaria, Tullia Zevi (storico presidente della Comunità ebraica di Roma) la Shoà italiana, il magistrato Gherardo Colombo la nascita di Tangentopoli, al cardinale Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, evoluzione contemporanea del Sant’Uffizio, si chiedeva di raccontare il Concilio Vaticano II nel quale aveva potuto dispiegare tutte le sue qualità di giovane teologo. Sebbene schierato fra le fila dei conservatori, era stato proprio Giovanni XXIII a chiedergli di far parte del gruppo di filosofi e teologi chiamati a riformare la Chiesa cattolica.
Quando arrivammo al Sant’Uffizio entrando in Vaticano dalla porta Carlo Magno, accolti da austere suore in grigio elefante, non nego che rimasi colpito dal magnetismo del segretario particolare di Ratzinger. Georg Gänswein, distaccato e al contempo affabile, mi confermò l’accordo sullo schema dell’intervista con cordialità professionale. Si cominciava con una domanda sull’uso del latino come lingua della liturgia. Mi aspettavo che avrebbe assistito, vigile e attento. E invece proprio nel momento in cui Ratzinger si metteva di fronte alla macchina da presa, Gänswein si eclissò così come era comparso. Alta diplomazia.
Apprezzai la scelta. Ma sentii tutto il peso della responsabilità di poter disporre per un paio d’ore delle parole di un cardinale che sarebbe potuto diventare papa. Se non ricordo male mancavano tre o forse quattro mesi al conclave che l’avrebbe portato sulla cattedra di San Pietro. Come previsto cominciò proprio dal latino. Si rammaricava di averne fatto un tema identitario del tradizionalismo liturgico. Nello scontro fra riformisti e conservatori la lingua storica della Chiesa era diventata il simbolo dell’integralismo. Perché il latino è stata una lingua universale, disse pressappoco: “Ricordo che i soldati tedeschi durante la guerra in Italia per parlare con gli italiani cercavano di farsi capire con il latino”. La frase mi sembro infelice. In un lampo associai quelle parole alle stragi naziste, da Marzabotto a Stazzema. Decisi di interrompere il cardinale. Mi guardò sorpreso. Allontanai la troupe e gli spiegai. Ricominciammo. E andammo filati fino alla fine. Ricomparve monsignor Georg. Capii che tutto era andato per il meglio.
E infatti: ero appena uscito da porta Carlo Magno che Cossiga mi chiamò: “Che è successo?”, mi chiese più divertito che preoccupato. “Mi ha telefonato Ratzinger… Sai come parla no! Riesce a far diventare armonioso anche il suo accento tedesco. Ah, cosa mi ha detto? ‘Il suo amico molto attento… anzi, come si dice… perspicace. Soprattutto molto gentile con me'”.
Le parole di Joseph Ratzinger raccolte da Chessa e Villari
Al momento del Concilio, ero un giovane professore all’Università di Bonn, vicino Colonia: l’arcivescovo competente per questa università era il cardinale Frings. Avevo tenuto una conferenza sulla teologia del Concilio alla quale assisteva il cardinale, che la apprezzò e mi invitò ad accompagnarlo al Concilio. In precedenza Frings, mi aveva già chiesto di preparargli un discorso da tenere, su invito del cardinale Siri, a Genova sui problemi da trattare nel Concilio. Questa conferenza, che poteva apparire forse rivoluzionaria no, ma certo un po’ audace, piacque moltissimo a papa Giovanni XXIII, che abbracciando Frings, gli disse: “Proprio queste erano le mie intenzioni nell’indire il Concilio”. Vedere la Chiesa viva, tremila vescovi presenti, è un avvenimento eccezionale: raramente nella storia la si può vedere così, toccarla nella sua universalità e in un momento di grande realizzazione della sua stessa missione.
La vita romana
Abitavo col cardinale nel Collegio dell’Anima, in via della Pace: era un’istituzione austriaca dall’atmosfera simpatica. Il cardinale aveva riunito tutti i vescovi di lingua tedesca nella sala del Collegio e io ero incaricato di tenere loro una conferenza e di introdurre tutto l’episcopato di lingua tedesca al lavoro del Concilio. Per un giovanissimo professore – avevo trentadue anni e avevo appena cominciato ad insegnare all’università – si trattava di una cosa veramente impressionante, in un certo senso anche pesante: la responsabilità di tracciare la pista che i vescovi tedeschi avrebbero preso era sensibilmente sulle mie spalle. Da una parte c’era quindi grande gioia nel partecipare realmente ai lavori del Concilio, dall’altra sentivo una grande responsabilità davanti a Dio e davanti alla storia. Il Concilio era per me, anche personalmente, un avvenimento storico: mi trovavo insieme con tante persone conosciute solo attraverso i libri. Per un giovane professore che aveva vissuto fino ad allora nel suo mondo accademico, anche partecipare alla vita romana era una realtà del tutto nuova. Nel Collegio dell’Anima si vedeva il mondo, si sentivano soprattutto i rumori della vecchia Roma. Andare al caffè con altri e conoscere la vita romana, talmente diversa dalla mia vita universitaria, suscitò in me un’impressione grandissima che ha marcato la mia vita.
La morte di Giovanni XXIII
Durante il Concilio morì papa Giovanni: mi ricordo della grande tristezza che ci fu in Germania. La Germania è di solito un paese non vicino ai papi, eppure tutti soffrirono per il papa morente, che era amato moltissimo. Fu incredibile vedere come questa persona avesse unito tutti in un amore straordinario, avvicinandoli al papato. E poi, naturalmente, c’era la questione del successore. Essendo solo un professore, non partecipai al conclave e, in quel momento, neppure parlai col cardinale Frings. Noi pensavamo che l’arcivescovo di Milano avrebbe dovuto essere il successore: era conosciuto già quando era sostituto della Segreteria di Stato qui a Roma, così che già nel ’58, quando morì papa Pio XII, avevamo detto: “Peccato che questo Montini non sia cardinale, dovrebbe essere il papa futuro”. Non fu quindi una sorpresa quando venimmo a sapere che l’arcivescovo Montini era stato eletto papa. Era per noi il garante della continuità del Concilio, nello spirito di papa Giovanni. E papa Giovanni stesso aveva fatto capire che desiderava l’arcivescovo di Milano come suo successore. Fu accolto senza difficoltà, anzi come un portatore di speranza.
Roncalli e Montini, simili e diversi
Il Concilio fu un’esperienza fondamentale anche per il passaggio tra i due papi, realmente consoni nelle loro intenzioni fondamentali, ma con personalità del tutto diverse. Era interessante vedere papa Giovanni, totalmente carismatico, che viveva dell’ispirazione del momento e della vicinanza al popolo e, dall’altra parte, trovarsi papa Paolo VI, un intellettuale che rifletteva su tutto con una serietà incredibile. A proposito di Montini ricordo, per esempio, che su un punto difficile della “Costituzione sulla Rivelazione” c’era resistenza a dare lo spazio dovuto alla tradizione: si trattava di un punto importante. Il papa, con grande delicatezza e rispetto per i vescovi e per i teologi, da una parte, ma anche con la sua responsabilità da garante della tradizione, ci trasmise, mi sembra, diciotto versioni. Diciotto modi diversi su come si poteva inserire il tema in questione, lasciando il massimo di libertà e al tempo stesso garantendo un punto dottrinale importante. Questa delicatezza era per me un ritratto di quella persona: di come considerava gli altri nel rispetto della libertà e della collegialità ma, nello stesso tempo, nella responsabilità per la continuità della vita della Chiesa. Il tutto unito da un lavoro puntiglioso. Durante il Concilio non ho mai visto l’arcivescovo di Cracovia: a quel tempo non avevo ancora conosciuto il cardinale Wojtyla.
L’incontro con gli “esperti”
Ero seduto nella tribuna dove gli esperti avevano il loro posto, così potevo seguire i lavori conciliari. Nei primi due mesi, tuttavia, non ero ancora un perito ufficiale, solo un perito privato del cardinale. Soltanto a novembre il papa mi nominò anche perito ufficiale, e da quel momento ho partecipato ufficialmente a tutte le sedute. All’inizio, potevo partecipare ai lavori, ma non regolarmente a tutte le sedute: in queste circostanze era un grande avvenimento vedere tutti gli esperti, grandi personalità che avevo conosciuto attraverso lo studio: Henri De Lubac, Jean Danielou (1905-1974), Yves Congar (1904-1995), Marie-Dominique Chenu (1895-1990) e altri grandi nomi. Fu straordinario incontrare questi personaggi venerati perché erano persone che ammiravo. Era un avvenimento grande anche vedere i rappresentanti delle altre chiese e confessioni cristiane; e poi, naturalmente, il papa stesso. Avevo visto il papa a Pasqua, un’udienza a San Pietro. In quell’udienza, trattò dei problemi “che cos’è meditazione”, “che cos’è la preghiera”, e li sviluppò con citazioni patristiche che mostravano che era un uomo di una profonda cultura teologica, ma nello stesso momento un uomo che parla anche per i semplici e si fa capire da questi. Nella posizione ufficiale in cui mi trovavo, era un avvenimento ancora più grande essere testimone di un momento storico; e poi rimane indimenticabile quella famosa sera con la fiaccolata e con la luna, quando il Santo Padre disse alle mamme presenti: “Date un bacio ai bambini, dite che viene dal papa”. Tutto questo era per me un’esperienza anche doppiamente nuova, perché non conoscevo la vita romana.
Salvezza per tutti?
Non solo il dialogo interreligioso, ancora non molto in vista, ma anche il problema della salvezza dei non cristiani era profondamente sentito, perché non solo in Asia o in Africa erano presenti i non cristiani, ma soprattutto nella nostra società cominciava ad avvertirsi il peso dei non credenti, dei non cristiani. Se c’era salvezza anche fuori dalla Chiesa, quale era allora la funzione della Chiesa per l’universo? Un altro settore era per noi quello dell’esegesi e della lettura della Sacra Scrittura. Si voleva un cristianesimo che fosse di nuovo immediatamente nutrito dalla Scrittura, ma anche una maggiore libertà per l’interpretazione scientifica della Sacra Scrittura. Capire meglio che cos’è la rivelazione, che cos’è la Scrittura e la tradizione: si trattava di temi al centro del colloquio con i protestanti. In Germania, il problema generale era quello di uscire da una certa chiusura del mondo cattolico, aprendosi alla comunione con tutti: allora era piuttosto un tema francese, mentre per gli americani il tema della libertà religiosa era dominante.
Riscoprire il peso del “mondo” nella teologia
Al tempo del Concilio ero un tipico universitario tedesco. Facevamo teologia, e al tempo stesso prendevamo anche atto del mondo politico e dei problemi del mondo: Kennedy, Krusciov etc. Tuttavia, per noi si trattava di due mondi diversi: non volevamo mischiare i problemi politici con il nostro lavoro scientifico, “alla tedesca”. Solo durante il Concilio abbiamo imparato che tutti i problemi di questo mondo entrano anche nel lavoro della Teologia: che il dialogo con le grandi visioni del mondo, anche anticristiane, come il comunismo, è tuttavia costitutivo per un vero lavoro teologico; che si deve non solo difendere la possibilità di essere cristiani, ma anche mostrare che questa è la scelta migliore e quindi, entrare in una vera discussione con gli argomenti degli altri; e integrare i problemi di una nuova visione del mondo, in chiave non cristiana ma anticristiana, nel nostro lavoro teologico. Questa per me, era una lezione da imparare.
Il rapporto con l’ebraismo…
Come ho detto, il problema delle altre religioni, al momento del Concilio non era in Germania ancora molto presente: per noi si trattava piuttosto del problema della salvezza di tutti. Invece, dovevamo dialogare anche con gli ebrei, chiarire con loro la nostra relazione, soprattutto dopo gli avvenimenti del nazismo e nonostante la resistenza cristiana, che ancora esisteva. Ristabilire una relazione con il mondo ebraico era per noi realmente una priorità, fin dall’inizio. Era già cominciata una nuova lettura dell’Antico Testamento: condividevamo con gli ebrei la maggior parte della nostra Bibbia, quindi i fondamenti della nostra fede, perché anche il Nuovo Testamento si riferisce sempre all’altro e non è leggibile senza di esso. Ed erano anche già iniziati dialoghi amichevoli con ebrei di diverse correnti. La priorità era ristabilire, quindi, una nuova relazione col popolo ebreo: da una parte, volevamo esprimere la nostra amicizia, ma anche il nostro pentimento per i fatti negativi di duemila anni di storia, e dall’altra parte, senza offendere gli ebrei, anche esprimere la nostra identità.
…e quello con l’Islam
I vescovi arabi non erano in linea di massima contrari a un documento sugli ebrei ma dissero: “Se voi volete parlare di una rinnovata relazione col popolo ebreo fatelo, ma in quel caso dovete anche parlare col mondo islamico”. “Questo equilibrio”, dicevano, “è per noi fondamentale”. Così, si è aggiunta al dialogo con gli ebrei una seconda parte, sull’Islam. A quel punto dicemmo a noi stessi: “Se già parliamo dell’Islam, dobbiamo anche parlare delle altre religioni”. Bisognava considerare il problema più a fondo: che cosa sono le religioni del mondo; quali tipologie esistono; qual è la loro portata teologica e umana; quali le nostre relazioni con queste religioni. Così, il documento “Nostra Aetate” è cresciuto in aula mano a mano che ci trovavamo di fronte alle situazioni concrete del dialogo. Così oggi: ma a quel tempo il documento era considerato un po’ secondario, mentre oggi capiamo che è uno dei documenti fondamentali del Concilio, che ha aperto la porta per un nuovo studio delle relazioni tra fede cristiana e religioni del mondo. Un grande problema per noi in Germania, e anche in Francia, era la riforma liturgica: il movimento liturgico era molto forte fin dagli anni venti e sempre più determinante per la vita della Chiesa, e il desiderio di restituire la forma organica della liturgia era grande.
Foto di copertina: Un ritratto di papa Benedetto XVI del 25 settembre 2011 (foto di Alberto Pizzoli/AFP).