Sicuramente si tratta soltanto di una coincidenza visto che dal punto di vista teologico e culturale Jorge Mario Bergoglio e Hans Küng sono stati molto diversi. Ma in queste ore emerge un fatto: la scomparsa del grande teologo svizzero coincide con l’apertura di una nuova pagina nel rinnovamento del discorso cristiano, non solo cattolico, da parte del vescovo di Roma. Hans Küng è stato un grande intellettuale nord-europeo, Bergoglio è un grande intellettuale latino-americano: la teologia del primo e quella del secondo però hanno nelle loro evidenti differenze un punto d’incontro: l’importanza dello spirito evangelico piuttosto che di quello del Medio Evo.
La nuova fase bergogliana, apertasi nel nome della fratellanza già nel giorno della sua elezione, quando disse nel suo primo discorso pubblico quale vescovo di Roma “Preghiamo sempre per noi, l’uno per l’altro, preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza”, è culminata nel Documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 e poi nell’enciclica “Fratelli tutti” dell’anno successivo. Ora, sotto la pressione della pandemia, giunge alla riscoperta di quella che potremmo definire “visione comunitaria monoteista”.
Allora ricostruiamo brevemente questo cammino di Bergoglio partendo dal Documento sulla fratellanza. Firmato addirittura insieme alla massima autorità teologica dell’Islam sunnita, e oggi chiaramente condiviso dalla suprema autorità sciita, il Documento sulla fratellanza firmato ad Abu Dhabi afferma: “La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano”. Siamo dunque nel solco della più grande novità del Concilio Vaticano II, quella che chiuse l’epoca del gelo con ebraismo e islam riconoscendo in tutte le grandi tradizioni religiose semi di verità. Nell’enciclica questa certezza è per tutti, quando vi si afferma che “siamo tutti della stessa carne”.
Dunque il discorso globalista e ideologicamente para-illuminista di un mondo massificato, uniformato, senza rispetto per differenze tra popoli, culture e religioni, viene respinto nel nome della fratellanza tra diversi, voluti così dal sapiente disegno divino. Per Bergoglio “il tutto è superiore alla parte”. E siccome il mondo è fatto da polarità in tensione “anche tra la globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante, passeggeri mimetizzati del vagone di coda, che ammirano i fuochi artificiali del mondo, che è di altri, con la bocca aperta e applausi programmati; l’altro, che diventino un museo folkloristico di “eremiti” localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini”.
Questa grande visione della fratellanza ora arriva al nodo della visione comunitaria sotto la pressione di questa terribile congiuntura pandemica. E Francesco appare determinato a togliere ai marxisti l’egemonia sul “comunismo”. È questa sfida, il recupero della visione comunitaria al pensiero religioso, che ci porterà ad Hans Küng.
La visione comunitaria appartiene al pensiero religioso da tempi lontanissimi e se guardiamo alla stessa celebrazione cristiana non possiamo non chiederci perché la comunione si chiami così. Si legge alla voce “comunione” sul sito della Treccani: “È’ il Sacramento centrale del cristianesimo, definito come prolungamento dell’incarnazione del Verbo, in quanto da un lato commemora e rinnova il sacrificio di Gesù Cristo, e, dall’altro, attua la comunione dei fedeli con il Redentore per cui è chiamato comunione”. Mai nella storia di questi duemila anni di storia il sacramento centrale del cristianesimo è stato chiamato “individualizzazione” o “privatizzazione” del rapporto con il Redentore.
Il dato comunitario o se si vuole comunista è centrale anche nell’ebraismo. Un esempio: nel libro dell’Ecclesiaste (4,1) il saggio Salomone afferma: “mi sono poi messo a considerare tutte le oppressioni che si commettono sotto il sole” e in Isaia (5,8) i termini sono più fermi: “guai a quelli che aggiungono casa a casa, che uniscono campo a campo, finché non rimanga più spazio, e voi restiate soli ad abitare in mezzo al paese”. Voci singole? Sempre nell’Enciclopedia Treccani al riguardo dell’ebraismo e del famoso giubileo che nell’ebraismo origina il giubileo viene spiegato così: “Presso gli Ebrei antichi, festività che ricorreva ogni cinquantesimo anno, santificata con il riposo della terra (per cui erano vietati semina e raccolto), con la restituzione della terra al primitivo proprietario, quando un ricco se ne fosse impossessato, e con la liberazione degli schiavi”.
Nell’islam poi abbiamo una scelta molto chiara: la comunità dei credenti sostituisce il vecchio ordine tribale creando una vera e proprio mega tribù che tutte le elimina, con un unico capo, il successore del Profeta Maometto, e un consiglio degli anziani. L’islam inoltre introduce nei suoi cinque pilastri la zakat, impropriamente detta “elemosina”, ma letteralmente “purificazione dall’avidità”.
Ecco dunque che eucarestia, giubileo e zakat indicano un “comunismo” che tante altre citazioni di padri della Chiesa, di profeti biblici e brani coranici potrebbero spiegare più compiutamente.
Questo ci porta a una visione comunitaria non marxista, che Ernest Nolte ha chiamato con altri il pensiero dell’eterna sinistra. Sembra proprio quello che ha detto Francesco nella giorno della festa della Divina Misericordia: “Dopo la sua risurrezione, Gesù opera la risurrezione dei discepoli che, misericordiati, sono diventati misericordiosi. Lo vediamo nella prima Lettura. Gli Atti degli Apostoli raccontano che ‘nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune’. Non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro. Ed è tanto più sorprendente se pensiamo che quegli stessi discepoli poco prima avevano litigato su premi e onori, su chi fosse il più grande tra di loro. Ora condividono tutto, hanno un cuore solo e un’anima sola”.
Certo, il Regno di Dio è oggi, mentre vivo, mentre mi comporto così e non cosà, ma il Regno di Dio non sarà compiutamente realizzato da noi. Ma, ripete Bergoglio, i cristiani sono chiamati a operare nella storia e questo modello di vita, di comunanza, di solidarietà, esiste: è il cristianesimo. Quanto detto da Francesco nel suo recente messaggio a Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale ci conferma questo elemento oggettivo, come l’enciclica Centesimus annus ci dice che questa visione era la visione di Giovanni Paolo II e un grande storico del cristianesimo, il professor Massimo Borghesi, ha detto che puntava a “una teologia della liberazione senza marxismo”. Proprio come Francesco, che non essendo polacco ma latino-americano potè capire, sebbene non condividere, gli anni di una teologia che non condivise soprattutto perché, come spiega benissimo un suo inedito recentemente pubblicato da La Civiltà Cattolica, nessuna interpretazione della realtà può essere definitiva, a cominciare da quella marxista. Scriveva Bergoglio negli anni Ottanta cercando di spiegarsi ai cristiani marxisti: “Ogni realtà ha, in sé, il suo modo di svelarsi, che nasce dalle potenzialità stesse che le sono insite. Si svela in consonanza con ciò che è”.
È stato dunque il comunismo marxista, con il materialismo storico, a pretendere un’interpretazione scientifica della realtà che ha diviso i due pensieri, quasi che i marxisti avessero imposto uno scisma come a dire che i veri sacerdoti erano loro. Questo scisma ha spinto il cristianesimo “ufficiale” a presentarsi o pensarsi “borghese”. Ora questo non è più possibile. Il cristianesimo è religione universale, non continentale, non è solo per l’Occidente. Ecco perché Francesco ha scritto a Fmi e Banca mondiale che “la nozione di ripresa non può accontentarsi di un ritorno a un modello diseguale e insostenibile di vita economica e sociale, dove una minuscola minoranza della popolazione mondiale possiede la metà della sua ricchezza”. Ecco perché nella stessa lettera ha parlato di un debito di cui non si parla mai, il debito ecologico, contratto dai ricchi estrattori nei confronti dei Paesi di estrazione selvaggia.
Dunque la pandemia ci obbliga a scegliere, ora: vogliamo uscire dalla crisi pandemica migliori o peggiori? Se vogliamo uscirne migliori per Francesco “occorre escogitare forme nuove e creative di partecipazione sociale, politica ed economica, sensibili alla voce dei poveri e impegnate a includerli nella costruzione del nostro futuro comune”.
La sfida di Francesco è dunque quella di parlare alla cultura originaria e originante i grandi monoteismi (credo anche i pensieri religiosi orientali ma non ho elementi di conoscenza sufficienti per argomentarlo) per farci uscire dal doppio secolo delle ideologie, Ottocento e Novecento, che hanno visto sfaldarsi il pensiero dell’ “eterna sinistra”: un pensiero che non era mai stato violento, lo è diventato solo in Babeuf, vero padre di una lotta di classe violenta, incompatibile con il principio bergogliano “il tutto è superiore alla parte”. E Hans Küng?
Lui credeva in un ravvicinamento teologico che potesse favorire quell’Etica mondiale alla quale ha dedicato anni di vita. Per questo fine, difficilissimo, ha subito offese, insulti, attacchi terribili. Ma la sua idea merita di essere ricordata perché aiuta a capire un metodo, una visione: quella dell’esclusivismo definizionista. Proprio come i marxisti hanno creduto di poter definire il comunismo come una loro “teoria scientifica”, definita e realizzabile in terra da loro e solo da loro, definendo eretico o traditore chiunque avesse l’ardire di pensare a qualche variante, così i custodi di ogni ortodossia non hanno potuto sopportare Hans Küng, il cattolico “universale”.
Per Hans Küng non si capisce fuori dal linguaggio e dalla cultura semita l’idea che Gesù fosse “il Figlio di Dio”. Questa verità per lui indiscutibile va inserita però in quella lingua, in quella cultura. Se non si vuole diventare padroni della verità si dovrà riconoscere, afferma Hans Küng, che “a prescindere dai concetti ellenistici con cui i concili ellenistici hanno definito la questione, nel Nuovo Testamento si intende senza dubbio non una discendenza, ma l’insediamento in una posizione di diritto e di potere in senso ebraico veterotestamentario. Non una filiazione divina di carattere fisico, come nei miti ellenistici e ancor oggi viene spesso inteso e respinto a ragione da ebrei e musulmani, ma una elezione e un conferimento di potere a Gesù da parte di Dio, interamente nel senso della Bibbia ebraica, nella quale alle volte anche tutto il popolo di Israele può essere chiamato “Figlio di Dio”. Se anche oggi la filiazione divina venisse affermata nella sua accezione originaria, sarebbero meno fondamentali le obiezioni che le si possono muovere dal punto di vista del monoteismo ebraico e islamico. Per gli ebrei, i musulmani, ma anche per i cristiani, l’espressione “Dio fatto uomo” è fuorviante. Per essere corretti si dovrebbe parlare con Paolo dell’“invio del Figlio di Dio” o con Giovanni di “incarnazione” del “Verbo di Dio”. Gesù è la “Parola”, la “Volontà”, “Immagine”, il “Figlio” di Dio in forma umana.” Se si pensa che il Corano definisce Gesù ora verbo ora parola di Dio, se si pensa che i cristiani semiti dei primi secoli erano quasi tutti monofisiti, cioè credevano Gesù Figlio di Dio nel senso che indica Hans Küng, si capirà che la sua tesi può non essere condivisa ma non può essere irrisa.
Hans Küng sapeva benissimo che i monofisiti, cioè coloro che non credevano nella duplice natura di Gesù, sono stati perseguitati dai cristiani bizantini emersi dai grandi Concili ellenistici. Ma a noi il suo coraggio può risultare fondamentale non per stabilire che abbia ragione lui, ma per riabilitare la libertà di ricerca e di altre ricerche. Come il marxismo non ha l’esclusiva del comunismo, così le religioni possono essere meno dogmatiche e riconoscere il valore positivo di tutto ciò che con loro cerca di affratellarci. Il cammino verso l’incontro auspicato da Hans Küng è più arduo rispetto alla fratellanza dei diversi di Francesco, ma certo il suo sforzo ha aiutato a creare le condizioni perché tanti capissero l’importanza del capirsi “fratelli”. È evidente però che arrivare alla pace tra le religioni oggi è importante per tutti gli uomini, e che nella pulsione comunitaria, o comunista, dei monoteisti, c’è la liberazione di un anelito, di un sentimento, di una natura, cioè di una tendenzialità senza di cui sarà difficile uscire migliori dalla crisi pandemica e ambientale.
Foto: MARCELLO PATERNOSTRO / AFP
Sono rimasto estasiato da questo articolo. Richiamare i punti di contatto tra papa Francesco e il grande Hans Kung e’ oltremodo attuale e necessario per la ricerca di quei valori “universali” condividibili da credenti e non credenti per la costruzione della Pace Mondiale.
Articolo molto interessante che invita a riflettere ed approfondire le tematiche religiose e sociali.