Le democrazie liberali sono in profonda difficoltà, non sembrano più in grado di fornire risposte convincenti ai cittadini, i quali attribuiscono un sostegno sempre più ampio a partiti e movimenti che si contrappongono nettamente ai valori liberali. Questo nonostante il fatto che le democrazie liberali abbiano garantito ai cittadini libertà e opportunità senza precedenti nella storia. Per capire come si è potuti arrivare a questo punto e valutare quali sono le responsabilità da attribuire alle élites liberali Giancarlo Bosetti e Enrico Biale hanno intervistato Mauro Magatti.
I cittadini danno per scontati i benefici garantiti dalle democrazie liberali e per questo non si preoccupano di perderli votando i partiti populisti?
Non penso che si possa ridurre tutto a questo. Per capire cosa sta succedendo dobbiamo comprendere il profondo cambiamento in corso all’interno del sistema capitalistico. Tra il crollo del muro di Berlino e la crisi finanziaria, questo modello è entrato in una fase espansiva basata sullo scambio tra finanza e consumo. La crescita della finanza era in grado di sostenere i consumi alimentando l’indebitamento pubblico e privato nelle diverse forme istituzionali e politiche. Questo scambio non regge più e i cittadini se ne sono resi conto. Non credo, quindi, che sia giusto adottare un atteggiamento moralistico che giudica negativamente le richieste del popolo perché queste segnalano un problema reale. Ad essere insoddisfacenti sono le risposte che vengono fornite a queste legittime domande. Risposte che risultano semplicistiche, come quelle populiste, o assenti come quelle della sinistra.
Parli di comprensibile e motivata sofferenza sociale. Per Steven Pinker, invece, questa sarebbe frutto di un errore di percezione da parte delle persone, le quali non riescono a capire quanto stiano meglio rispetto al passato.
Il malessere e il benessere, come giustamente mostrato da Fred Hirsch nel suo “I limiti sociali allo sviluppo”, non sono mai assoluti ma dipendono dal confronto che facciamo con gli altri e dalle aspettative che abbiamo rispetto al futuro. È sicuramente vero che la generazione dei baby boomers è stata meglio rispetto a quella precedente, ma per capire il malessere di oggi bisogna considerare cosa è avvenuto negli ultimi 30 anni. In questo periodo si è formata una narrazione neoliberista in base alla quale la crescita sarebbe stata infinita e avrebbe migliorato le condizioni di ogni singola persona. Questa narrazione non regge più, le persone se ne sono rese conto, come anche i partiti populisti di destra che la stanno infatti criticando. È invece incomprensibile che i partiti di sinistra continuino a difendere questo tipo di narrazione senza capire che così facendo lasciano carta bianca alla propaganda delle destre estremiste e nazionaliste.
Insisti molto sulla necessità di una «narrazione», un discorso di senso per la democrazia liberale. È su questo che bisogna lavorare?
La narrazione è uno degli ingredienti, ma si basa sulla realtà e deve sempre fare i conti con l’esperienza delle persone. La crisi ha fatto crollare i posti di lavoro, la ripresa non è stata uniforme e per molti il proprio futuro è incerto e problematico. La narrazione neoliberista ha funzionato perché per vent’anni ha intercettato, descritto e orientato l’esperienza di centinaia di milioni di persone. Quello che non capiscono le élites politiche è che sono cambiate le condizioni e quella narrazione non tiene più perché non corrisponde più all’esperienza.
Il populismo di destra sembra aver colto questo passaggio, ma le risposte che fornisce ripropongono promesse proprie del neoliberismo (crescita e miglioramento delle condizioni per tutti senza alcun limite)?
Uscire dalla logica neoliberista sarà un processo lungo e complicato, ma necessario. La risposta dei sovranisti, per cui, attraverso il controllo dei confini, la costruzione di muri e conflitti, il popolo insoddisfatto potrà tornare al benessere, è sbagliata, ma è l’unica presente. Per iniziare ad elaborare una proposta alternativa bisogna capire che, soprattutto per i Paesi avanzati, la produzione della ricchezza non può essere limitata al consumo individuale, ma si deve estendere alla creazione di un valore che è comunitario e che assicuri la formazione di un legame sociale.
Ci sono le idee da cui partire per elaborare una proposta alternativa e gli attori per portarla avanti sono già presenti o mancano sulla scena politica?
Qualche idea sparsa c’è, non è ancora abbastanza consolidata, matura, per diventare un punto di riferimento. Inoltre, dato che la sinistra liberale, da Clinton e Blair, di fatto, è stata, molto più che la destra neoliberista classica, coinvolta nella gestione della fase precedente, molti dei suoi componenti non vogliono credere che il mondo sia cambiato e che sia necessario sviluppare una proposta alternativa rispetto a quella che hanno portato avanti in questi anni.
Se dovessi elencare alcune di queste idee sparse da cui partire quali sarebbero?
Il tema di fondo è il legame sociale e come questo viene proposto. I sovranisti lo declinano in forma specialmente regressiva contro l’Europa, le banche, la finanza, i migranti. La loro idea di scambio sociale è quella di efficienza per sicurezza ed è un’idea sbagliata perché semplifica temi complessi e può portare a politiche molto pericolose. Per sviluppare un’alternativa bisogna lavorare sull’idea di sostenibilità e di contribuzione. Riprendendo quanto sostiene Bernard Stiegler, noi siamo prima di tutto contributori: non perché paghiamo le tasse, ma perché abbiamo capacità, intelligenza e voglia di fare a livello lavorativo e anche civico. Il nostro futuro, il futuro economico delle democrazie, passa dalla capacità di riconoscere e valorizzare il contributo di tutti. Solo questo mix tra sostenibilità e contribuzione può generare un nuovo scambio sociale.
Un altro fattore di rottura tra gran parte della popolazione e le élite democratiche è sicuramente l’immigrazione. Questo fenomeno viene vissuto con paura da parte di milioni di persone, mentre le classi dirigenti trattano con superiorità e disprezzo questi timori. Secondo te, sono paure fondate e se è così come è possibile mettere in atto un correttivo?
Lo straniero è un’opportunità ma anche una dose di rischio in qualunque comunità. Il racconto fatto da élites più o meno cosmopolite per cui la piena accoglienza e l’iper-mobilità avrebbe migliorato la condizione di tutti era di una superficialità impressionante. La speculazione politica fatta sulle paure delle persone non è nemmeno commentabile, ma il sentimento dell’assedio – che è legato non tanto a quello che vedi, ma a quello che temi avverrà in futuro – deve essere compreso e governato con molta attenzione. Questo non è stato fatto e le conseguenze le abbiamo chiaramente davanti agli occhi.
Il tema è serissimo e per risolverlo bisogna trovare un equilibrio sempre difficile tra il dovere dell’accoglienza, che è il fondamento delle nostre stesse democrazie, e un senso del limite e della realtà, che è egualmente fondamentale. Questo equilibrio non è rigido, è un equilibrio che passa davvero dalla saggezza del governante, che è in grado di valutare fino a che punto si può arrivare e dove è necessario porre un punto fermo oltre il quale non si può andare.
Oltre al controllo dei flussi migratori il buon governante dovrebbe attuare anche politiche di integrazione?
Al punto in cui siamo, avendo fatto una serie di errori, in questo momento è prioritario far sbollire un po’ la rabbia. Le politiche d’integrazione sono sicuramente fondamentali ma dobbiamo anche riconoscere, come ci insegnano Paesi che sono da più tempo multiculturali come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, che il processo di integrazione è complesso, lento e delicato. La direzione da intraprendere è quella, ma senza affrettare i tempi e provare a realizzare politiche irrealistiche perché questo sarebbe controproducente.
Vorremmo chiudere sulla parte sostantiva della tua proposta, che è quella di un’idea di libertà più ricca e meno esposta a un’interpretazione puramente consumistica. Come può questo discorso prendere una forma efficace ed entrare nella scena politica?
Sono fermamente convinto che solo l’evoluzione culturale spinge avanti i processi politico-economici e proprio per questo, se non si ritorna a quell’origine profonda che è il pensiero della libertà, sarà difficile affrontare le sfide che ci troviamo davanti. Allo stesso tempo, penso che ci siano una serie di elementi culturali in cui le persone si riconoscono e che le spingono ad agire anche politicamente. La questione ambientale, che pure è in tensione con la cultura consumistica, è sentita soprattutto dai giovani. L’idea, colta in qualche modo dai Cinque Stelle, che la Rete fosse un modo per coinvolgere i cittadini dimostra che il desiderio di partecipazione e coinvolgimento è diffuso, anche se non soprattutto tra i giovani.
Una serie di indicatori, appunto molto frammentati, mi portano a dire che c’è un pulviscolo di sensibilità culturali che aspetta di essere messo in forma. Questa naturalmente è un’ipotesi, forse un auspicio, però a me sembra che non siamo all’anno zero e che uno scambio tra sostenibilità e contribuzione potrebbe interpretare alcune latenze della nostra società.