I massacri di Gaza: un suicidio
per Israele?

Due libri, due autori ebrei, Ginzberg e Foa, riflettono sul dramma in Medio Oriente. Entrambi saranno a Roma, al Teatro Manzoni, il 6 dicembre alle ore 18, per l’evento Guerre e Vendette, insieme a Furio Colombo.

 

“L’assedio. La fame. I bambini innocenti prime vittime della guerra. […] Perché Dio consente che venga fatto del male ai bambini? […] Fa il paio con l’altra domanda insolvibile: come ha potuto Dio permettere l’Olocausto? Erano i bambini i primi a finire nelle camere a gas. La sola cosa che dovrebbe essere chiara a tutti è che un bambino palestinese vale esattamente quanto un bambino ebreo”. Dalle stragi bibliche di innocenti alla guerra a Gaza. Esordisce così Macellerie – Guerre atroci e paci ambigue (Feltrinelli, 2024) di Siegmund Ginzberg, un libro che traccia i profili di un’umanità violenta attraverso conflitti e atrocità della storia, dalla Cina degli Stati combattenti alle guerre di oggi.

Ginzberg, giornalista e saggista nato in Turchia da una famiglia ebrea, non è il solo ad aver preso posizione nell’ultimo mese. È dallo “stesso dolore per gli uni e per gli altri” – le vittime del 7 ottobre, gli ostaggi israeliani e i civili morti a Gaza – che nasce Il suicidio di Israele (Laterza, 2024) della storica Anna Foa, “un’ebrea della diaspora”. Un pamphlet di 91 pagine che riflette sul processo di costruzione nazionale israeliano e chiede un cambio di rotta: “Quando e se le armi smetteranno infine di sparare, dovremo rivedere molti dei nostri schemi interpretativi, ripensare il nostro rapporto con la nostra storia – riporta la premessa – Rileggere i percorsi di una memoria che ci ha accompagnato per ottant’anni ma che non è bastata a mettere in salvo né i civili ebrei né i civili palestinesi nei mesi di guerra”.

Pur con approcci diversi – puramente storico quello di Foa, ricco di analogie quello di Ginzberg – entrambi scelgono di esporsi. “Una volta mi è stato chiesto in cosa consiste il mio essere ebreo. Ho risposto: far parte di un popolo discriminato, affamato, perseguitato. L’essenza del mio ebraismo è identificarmi con chi ha subito l’Olocausto. Non mi piace far parte di un popolo di persecutori”, sottolinea Ginzberg. Nel suo libro intreccia episodi caratterizzati dalla “stessa reiterazione di dettagli truculenti, orripilanti, di macelleria”, come egli stesso specifica, i cui protagonisti sono spesso ebrei. Assedi, come quello di Gerusalemme; massacri e deportazioni, attraverso cui via via si è perpetrata la diaspora. “Il libro è diretto a chi incita Israele alla vendetta,” spiega Ginzberg a Reset, “non credo però che convincerà i lettori ebrei che ritengono che chi sostiene che quello che fa Israele non va bene sia un traditore dell’ebraismo”.

Nella stessa comunità ebraica italiana sono ancora isolate le voci che si sono espresse pubblicamente sugli ormai 44mila morti palestinesi – tra queste la senatrice a vita Liliana Segre e Mai Indifferenti – Voci ebraiche per la pace.

“È il trauma del 7 ottobre, una mattanza fatta da Hamas proprio per suscitare la reazione militare di Tel Aviv e spingerla agli estremi sconvolgendo il quadro di tanti anni di riflessioni intorno a una soluzione di pace”, dice Foa a Reset. E in molti “nelle comunità ebraiche” sostengono “che Israele è a rischio di un altro pogrom”, prosegue, cosa che porta a “una difesa a oltranza del suo operato, che arriva a impedire qualunque dialogo”. Per alcuni ciò si traduce in un’incapacità di provare “empatia”, come la definisce Foa, una reazione già individuata da Gideon Levy anche nella sinistra israeliana verso i morti a Gaza.

Mentre le critiche al governo di Benjamin Netanyahu vengono bollate come antisemitismo. “Non è che a forza di estendere a dismisura questa nozione finiremo per perderne la natura e specificità?” si interroga Foa, che esprime dubbi nel suo libro sull’equivalenza tra gli attacchi alla politica israeliana (antisionismo) e l’antisemitismo a partire da due definizioni “ufficiali”: quella dell’International Holocaust Remembrance Allianceadottata anche dall’Italia – che li associa, e quella più recente di Gerusalemme, “più prudente”. “Netanyahu accusa ogni opposizione di essere antisemita, all’interno come all’esterno”, esplicita.

Parlare di genocidio intanto “resta un tabù”. “Molte voci da Israele dicono che se non si tratta di un genocidio, ci si sta avvicinando. Questo è un punto su cui devono decidere le Corti internazionali, ma bisogna comunque discuterne”, rimarca Foa. “La parola ‘genocidio’ ha un’eco emotiva, politica, propagandistica. Non mi sembra questo però il modo in cui ne parlano il Papa, le opposizioni in Israele, quelle interne al mondo ebraico o certe esterne, in Europa e negli Stati Uniti”. Intanto, “il 70 per cento delle vittime confermate sono civili, questo è un dato di fatto”, continua Foa, “siamo comunque di fronte a crimini contro l’umanità, crimini di guerra”.

Nei due volumi, la guerra a Gaza rappresenta una svolta esistenziale per Tel Aviv. “Israele non può permettersi standard morali simili, speculari a quelli di Hamas. […] Né per vendetta, né per scoraggiare i malintenzionati, né per dimostrare che non è debole. Ne va, temo, della sua stessa sopravvivenza futura”, scrive Ginzberg in uno dei rari passaggi di riflessione diretta. “La trasformazione di Israele in un Paese autoritario avanza, la polizia attacca ogni manifestazione di dissenso, le prigioni sono piene di cittadini arabo-israeliani e dei Territori detenuti senza processo, le dichiarazioni razziste dei ministri si moltiplicano, non senza conseguenze per la società tutta”, elabora invece Foa. Che si spinge a chiamarlo “suicidio”.

Non sono convinta che si fermi un suicidio”, afferma la storica, “perché viene dall’interno. Un suicidio non lo si ferma con le armi o con i muri e i fili spinati. Lo si ferma guardandosi dentro”. Per Foa è necessario un ripensamento sul piano etico e morale: “Forse si prova orrore di fronte all’arresto dei soccorsi, all’assenza di latte per i bambini, di acqua per i civili. Però la distruzione viene in qualche modo giustificata. Gli israeliani dovrebbero reagire a questa secchezza introdotta nella loro anima dalle violenze esterne. Pensare che quello che sta succedendo non è solo rivolto contro i palestinesi, ma riguarda anche gli ebrei israeliani”.

Una messa in discussione anche sociale e politica. “Non è ormai giunto il momento di guardare a costruire una società civile democratica, di cittadini liberi e uguali nelle loro diversità? – scrive, ricalcando le posizioni della storiografia post-sionista – E come può uno Stato ebraico, necessariamente fondato sulla supremazia degli ebrei sugli altri cittadini garantirla? È questa una contraddizione di fondo tra Stato ebraico e Stato democratico, che si perpetua dall’inizio e che è ora necessario sciogliere se si vuole uscire da questa situazione di guerra, ma anche dallo stallo che l’ha preceduta”.

“Sono allibito per come si sia gettato alle ortiche il capitale di solidarietà a Israele per l’aggressione subita il 7 ottobre”, dice con amarezza Ginzberg. “Come pensa Israele di vivere in pace circondato da Paesi o anche solo popolazioni ostili, soprattutto se si mette contro la Turchia, l’Egitto, l’Iran, ma anche le Nazioni Unite, il Papa, l’Europa?” Tra le principali minacce per il Paese, per il giornalista c’è l’isolamento. “Israele sta distruggendo un prestigio indiscusso: essere l’unica democrazia del Medio Oriente”, sottolinea Ginzberg, che aggiunge, “per restare al potere Netanyahu ha imbarcato nel suo governo l’estrema destra di chi ha incoraggiato e difeso gli assassini di Rabin”. “Guai a chi si isola, perde consensi per fanatismo”, ammonisce in Macellerie.

L’israeliana e la palestinese: due memorie, due identità contrapposte, ma molto simili. “Identità nazionali in cui la dimensione della catastrofe e del trauma svolgono un ruolo centrale e dove la narrazione nazionale ruota in gran parte attorno a motivi legati all’essere vittime e alla perdita subita”, scrive Foa. “È possibile conciliare la memoria con la giustizia nel momento in cui una delle due vittime è anche vittima dell’altra?”.

 

 

Immagine di copertina: alcuni palestinesi sfollati fuggono da Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza il 17 novembre, 2024. (Foto di Abood Abusalama / Middle East Images / Middle East Images via AFP).

  1. La reazione “terrorizzante” e indicibile del governo israeliano giustifica il fatto che si parli di genocidio, a prescindere che lo sia formalmente e lo si possa sentenziare giuridicamente. Una tremenda “pagina” di storia difficile da archiviare che ostruisce il già difficile sentiero della pace, incompatibile con le “ragioni” della froza e della prepotenza

  2. Grazie di aver messo in evidenza voci ebraiche critiche del governo di Israele e della guerra a Gaza. Occorre uscire dal tunnel nel quale le critiche alla politica israeliana contro i palestinesi vengono equiparate a antisemitismo, anche perché in questo modo mi pare che si incentivi l’antisemitismo. Se la percezione è di un paese e di comunità ebraiche che respingono ogni critica come antisemita, a quel punto si induce l’idea che effettivamente tutti gli ebrei e israeliani sono i nemici della pace e della convivenza. In più come Foa rimarca c’è una contraddizione fra democrazia e una stato degli ebrei. Ma aggiungerei che anche se il massacro di Hamas è stato orrendo e deprecabile, questo non dà diritto a replicare con un massacro peggiore. Perché se Israele tiene a essere definito come democrazia, occorre ricordare che gli oneri politici e morali delle democrazie sono diversi e più onerosi che non rendere pan per focaccia. Per fare un paragone un po’azzardato, sarebbe come se nell’ambito della lotta alla mafia negli anni ’90, a seguito delle morti di tanti magistrati e forze dell’ordine, lo stato italiano avesse messo a ferro e fuoco Palermo e dintorni. Una organizzazione terroristica non è uno stato. E per quanto scioccante sia stato il 7 ottobre, e ciò è comprensibile, una diversa risposta che non la distruzione di tutta una popolazione, una risposta basata su intelligence, tribunali internazionali, negoziazioni avrebbe posto Israele su un piano di moralità adeguata allo standard democratico e apprezzabile universalmente anziché disperdere il capitale di solidarietà con la macelleria a cui abbiamo assistito impotenti. E su un piano più strategico invece, come lo stato israeliano pensa di raggiungere la sicurezza, facendosi odiare da tutti i suoi vicini?

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