La controversia determinatasi in seguito alla catechesi di Francesco su San Paolo e la sua lettera ai Galati ha dei risvolti che possono essere affrontati anche non da specialisti o da teologi? Probabilmente sì, se si convenisse che dietro vi sia, se non soltanto, anche, il peso di un passato lungo e doloroso, quello determinato dalla teologia antigiudaica. Parliamo di una realtà che è stata inoppugnabile per secoli. Il Concilio Vaticano II ha voltato pagina, gli anni sono passati, ma il peso di secoli non sparisce facilmente e per capirlo basta soffermarsi sul linguaggio comune, quello che usiamo tutti. Ma per procedere in questo senso non si può prescindere da una ricostruzione del caso specifico. E per farlo la cosa migliore è partire, il più fedelmente possibile, da quanto detto dal papa.
Era l’11 agosto quando Francesco ha detto tra le altre cose: «L’Apostolo spiega ai Galati che, in realtà, l’Alleanza con Dio e la Legge mosaica non sono legate in maniera indissolubile. Il primo elemento su cui fa leva è che l’Alleanza stabilita da Dio con Abramo era basata sulla fede nel compimento della promessa e non sull’osservanza della Legge, che ancora non c’era. Abramo incominciò a camminare secoli prima della Legge. Scrive l’Apostolo: “Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso [con Abramo], non può dichiararlo nullo una Legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo [con Mosè], annullando così la promessa. Se infatti l’eredità si ottenesse in base alla Legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece ha fatto grazia ad Abramo mediante la promessa” (Gal 3,17-18). La promessa era prima della Legge e la promessa ad Abramo, poi è venuta la legge 430 anni dopo. La parola “promessa” è molto importante: il popolo di Dio, noi cristiani, camminiamo nella vita guardando una promessa; la promessa è proprio ciò che ci attira, ci attira per andare avanti all’incontro con il Signore. Con questo ragionamento, Paolo ha raggiunto un primo obiettivo: la Legge non è alla base dell’Alleanza perché è giunta successivamente, era necessaria e giusta ma prima c’era la promessa, l’Alleanza. Un’argomentazione come questa mette fuori gioco quanti sostengono che la Legge mosaica sia parte costitutiva dell’Alleanza. No, l’Alleanza è prima, è la chiamata ad Abramo. La Torah, la Legge in effetti, non è inclusa nella promessa fatta ad Abramo. Detto questo, non si deve però pensare che san Paolo fosse contrario alla Legge mosaica. No, la osservava. Più volte, nelle sue Lettere, ne difende l’origine divina e sostiene che essa possiede un ruolo ben preciso nella storia della salvezza. La Legge però non dà la vita, non offre il compimento della promessa, perché non è nella condizione di poterla realizzare. La Legge è un cammino che ti porta avanti verso l’incontro. Paolo usa una parola molto importante, la Legge è il “pedagogo” verso Cristo, il pedagogo verso la fede in Cristo, cioè il maestro che ti porta per mano all’incontro. Chi cerca la vita ha bisogno di guardare alla promessa e alla sua realizzazione in Cristo».
Queste parole hanno prodotto una richiesta di chiarimenti allarmata. Ha scritto La Stampa: «La missiva è firmata dal Rabbino Rasson Arousi, presidente della Commissione del Gran Rabbinato d’Israele per il Dialogo con la medesima Commissione della Santa Sede. Nella lettera si parla di “preoccupazione” per le parole di Bergoglio, che peraltro ha sempre avuto ottimi rapporti con gli ebrei, anche da arcivescovo di Buenos Aires. Viene sottolineato che il Papa non solo avrebbe presentato la fede cristiana come un superamento della Torah, ma sosterrebbe che quest’ultima “non dà più vita, e ciò implica che la pratica religiosa ebraica nell’era attuale è obsoleta”. Arousi aggiunge che tutto questo sarebbe “parte integrante” di un “insegnamento sprezzante verso gli ebrei e verso l’ebraismo, cose che pensavamo fossero state completamente ripudiate dalla Chiesa”».
Un’autorevole spiegazione di cosa abbia detto o voluto dire Francesco si è avuta da parte dell’arcivescovo Victor Manuel Fernandez, che sull’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, ha scritto nella buona sostanza che se c’era una critica riguardava il formalismo religioso: «Quando san Paolo parla della giustificazione per la fede, in realtà sta riprendendo profonde convinzioni di alcune tradizioni ebraiche. Perché se si affermasse che la propria giustificazione si ottiene attraverso il compimento della Legge con le proprie forze, senza l’aiuto divino, si starebbe cadendo nella peggiore delle idolatrie, che consiste nell’adorare se stessi, le proprie forze e le proprie opere, invece di adorare l’unico Dio. È imprescindibile ricordare che alcuni testi dell’Antico Testamento e molti testi ebraici extrabiblici mostravano già una religiosità della fiducia nell’amore di Dio e invitavano a un compimento della legge attivato nel profondo del cuore dall’azione divina (cfr. Ger 31, 3.33-34; Ez 11, 19-20; 36, 25-27; Os 11, 1-9, etc.) (1). La “emunà”, atteggiamento di profonda fiducia in Yahweh, che attiva l’autentico compimento della Legge, “è al centro stesso dell’esigenza di tutta la Torah”». Questo stesso articolo si conclude così: «D’altro canto, ricordiamo che secondo la profondissima interpretazione di sant’Agostino e di san Tommaso sulla teologia paolina della legge nuova, la sterilità di una legge esterna senza l’aiuto divino non è solo una caratteristica della Legge ebraica, ma pure dei precetti che lo stesso Gesù ci ha lasciato: anche la lettera del Vangelo ucciderebbe se non avesse la grazia interiore della fede, che guarisce».
Anche qui non conta dire se quanto affermato sia giusto o no, il punto è un altro: l’articolo citato ci dice che per gli ambienti più vicini a Francesco la polemica è con il formalismo, e probabilmente in via prioritaria cristiano. Detto in altri termini: Francesco non usa gli ebrei per criticare il formalismo cristiano, ma usa il Vangelo e San Paolo per respingere il formalismo religioso, che nel cattolicesimo (come ovunque) resiste. Il paradosso dunque sarebbe che mentre Francesco critica chi prosegue in una teologia che rimane anche antigiudaica, quella preconciliare, fa un discorso che è apparso antigiudaico. E questo è il punto che va capito. La teologia antigiudaica non solo è esistita, ma ha prodotto guasti molto profondi e alcuni di questi si ripercuotono, come accennato, nello stesso linguaggio popolare. Basti pensare al termine “farisei”: quante volte viene usato impropriamente, dicendo ad esempio “sei un fariseo”… E qui entrano in gioco gli stessi Vangeli, che non possono essere utilizzati come uniche fonti per valutare il fariseismo.
Diviene allora non solo interessante ma importante rileggere quanto si trova in un articolo apparso nel 2019 sul prestigioso periodico dei gesuiti, La Civiltà Cattolica: «Il giudizio che il cristianesimo, lungo i secoli, ha formulato sui farisei – con la connotazione negativa che il fariseismo ha assunto nel pensiero teologico e nella catechesi ecclesiale – è figliastro di una teologia antigiudaica. Una certa teologia cristiana, come quella della “sostituzione” (sostituzione dell’Alleanza, della Legge, del popolo di Dio ecc.) e quella del compimento, inteso come “perfezionamento” di ciò che era prima imperfetto (perfezionamento dell’immagine di Dio dell’Antico Testamento, perfezionamento dei precetti della Torah ecc.) ha portato a un fraintendimento sostanziale del movimento farisaico e della successiva teologia rabbinica. I farisei sono divenuti i nemici di Gesù, i rappresentanti della Legge che si oppone alla Grazia, del vecchio che si oppone al nuovo».
Già queste parole aiutano un lettore medio a capire meglio il timore espresso dal rabbinato. Ma questo è solo l’inizio, perché quello che segue riguarda espressamente le fonti evangeliche: «[…] Se dunque sappiamo così poco dei farisei al tempo di Gesù, come mai essi hanno assunto tanta importanza nella tradizione cristiana? Ciò è dovuto senz’altro al Nuovo Testamento, che menziona i farisei per ben 97 volte, con il “fronte antifarisaico”, rappresentato soprattutto da Matteo e da Giovanni e da alcune pagine che hanno l’impronta di uno stereotipo massificante e ingiusto. Fondarsi su una solida base storico-critica significherà allora non solo riconoscere le diversificazioni esistenti in materia di fede e di vissuto al tempo di Gesù, ma anche distinguere tra i vari atteggiamenti all’interno di un sistema variegato e complesso come quello che ci è stato tramandato come retaggio dei farisei». Sugli evangelisti e i farisei vengono indicati elementi davvero sorprendenti per chi, soprattutto tra i cattolici, non ha familiarità con lo studio della materia. Prosegue l’articolo firmato da padre Pino Di Luccio e da Massimo Grilli: «Storicamente lo stereotipo negativo di Matteo non sta in piedi, come del resto non sta in piedi mettere sulla bocca di Gesù le parole: “Fate e osservate tutto quello che essi [gli scribi e i farisei] vi dicono; poiché essi parlano [solamente] e non fanno” (Mt 23,3). Prima si ordina di osservare in toto l’insegnamento dei farisei, e poi di rifiutare in toto il loro comportamento? È un po’ come quando si dice che Gesù guarì “tutti” i malati, o che percorreva “tutte” le città e i villaggi della Galilea e della Giudea (cfr Mt 9,35): si tratta di iperboli, che hanno un intento pragmatico e che non vanno lette nella loro accezione locutoria, ma nella loro forza illocutoria, con l’intento cioè di produrre un qualche effetto sui lettori». Avviandosi verso le conclusioni gli autori non cambiano registro e le loro raccomandazioni ci aiutano a capire altro. «In futuro sarà dunque necessario distinguere quello che poggia su basi storiche e quelle espressioni che invece sono diventate dei topoi argomentativi classici, modelli precostituiti o schemi letterari per il raggiungimento dei propri scopi». La sorpresa di certi cattolici può aumentare e diventare consapevolezza leggendo verso la fine dell’articolo: «La fiducia in Dio, il giudizio, la fede nella risurrezione, l’attesa del compimento futuro e così via appartengono sia alle basi del giudaismo rabbinico sia a quelle del cristianesimo. Leggendo alcune pagine evangeliche, si potrebbe persino ipotizzare che Gesù fosse un fariseo».
È solo un esempio di quanto rilevante sia il lascito del passato e quindi della possibilità che la tesi dell’equivoco abbia fondatezza. Anche perché la critica del formalismo è un caposaldo del pontificato di Francesco, e probabilmente è la causa della campagna scatenata contro di lui da alcuni ambienti ecclesiali che non accettano o non hanno mai accettato il Concilio. Ma ciò che qui conta non è chiarire, questo sta ai protagonisti, piuttosto evidenziare la crescita che la cultura del dialogo e del pluralismo può determinare in ciascuno.
Foto: Papa Francesco insieme al Rabbino del Muro del Pianto di Gerusalemme Shmuel Rabinovitch – 26 maggio 2014 (Andrew Medichini / Pool / AFP).