L’internazionale illiberale avanza. Il pericolo è imminente. La democrazia è sotto attacco e va difesa. L’appello lanciato dallo studioso Yascha Mounk è stato accolto con preoccupato interesse ovunque sia stato tradotto il suo libro Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale (Feltrinelli, 2018). È un appello che tocca corde sensibili, in Europa e non solo. Arriva in un periodo in cui il deconsolidamento delle democrazie liberali e l’affermazione di leader populisti con tendenze autoritarie è così evidente da aver oltrepassato i confini dell’accademia, finendo sulle prime pagine dei giornali e traducendosi in opzioni politiche che riguardano milioni di persone, dalla Turchia all’Ungheria, dagli Stati Uniti all’Europa.
La denuncia del populismo è divenuta pratica ricorrente, a volte retorica e rituale. Con Popolo vs Democrazia Yascha Mounk tenta di attribuirle consistenza concettuale ed empirica, con una chiarezza espositiva e una ricchezza di esempi e dati statistici insoliti nella pubblicistica. Mounk non si limita a descrivere la transizione dall’era dell’ascesa del liberalismo politico a quella della sua crisi, ma ne rintraccia le cause, le matrici economiche, culturali e sociali, i fattori politici che l’hanno alimentata. Lo fa a partire dalla decostruzione dei due poli che compongono la democrazia liberale. Che vanno tenuti distinti, sostiene l’autore di Popolo vs Democrazia.
La democrazia, scrive Mounk, ha a che fare con la capacità di un sistema politico di tradurre in atti e politiche effettive la volontà della popolazione, attraverso istituzioni elettorali vincolanti. Il liberalismo ha a che fare invece con la capacità di realizzare lo stato di diritto e proteggere i singoli individui dalle scelte maggioritarie, attraverso i diritti che vengono loro riconosciuti. La tesi principale è che i due poli della democrazia liberale abbiano convissuto a lungo, in maniera certo instabile ma efficace, prima di cominciare a procedere seguendo traiettorie divergenti. Oggi i diritti individuali vengono spesso negati dalla volontà popolare, mentre le elite liberali non sono più espressione della volontà popolare. Da qui, l’emergere di due regimi politici: da una parte la democrazia illiberale, il populismo autoritario, dall’altra il liberalismo non democratico, la tecnocrazia oligarchica.
La preliminare distinzione concettuale tra democrazia e liberalismo consente a Mounk di dimostrare al livello empirico, con un ampio ricorso ai dati raccolti nel World Values Survey e già analizzati con Roberto Stefan Foa, che in alcuni paesi si dà democrazia senza diritti, in altri diritti senza democrazia. “Una grande idea, perfetta per un editoriale, per la copertina di un libro o per un discorso in ascensore, ma maldestramente incapace di giustificare la massa di fenomeni che Mounk intende associare all’affermazione del populismo”, ha sostenuto sulla Los Angeles Review of Books Jonny Thakkar, per il quale “la democrazia liberale può benissimo essere sotto minaccia, ma le categorie della democrazia illiberale e del liberalismo non democratico servono a oscurare”, più che a illuminare le ragioni dell’affermazione del populismo.
Per Mounk, le matrici principali del divorzio tra democrazia e liberalismo sono tre: la stagnazione dell’economia e degli standard di vita, con la relativa perdita di ottimismo per il futuro; la rivoluzione dei social-media, che ha ridotto la distanza tra outsider e insider, facilitando la contestazione delle elite, gli insider, da parte degli outsider, una volta condannati alla marginalità; infine la lenta trasformazione delle società, da monoculturali, monoetniche e monoreligiose a multiculturali, multietniche, multireligiose, che avrebbe provocato una “ribellione contro il pluralismo”.
Se la diagnosi di Mounk è stata perlopiù giudicata con favore, i rimedi da lui proposti alla crisi della democrazia liberale sono stati criticati. “Le prescrizioni con cui salvare la democrazia sono molto più deboli che le spiegazioni del perché è in pericolo”, ha sintetizzato l’Economist. Per l’autore di Popolo vs Democrazia, il processo decisionale deve essere democratizzato, reso più inclusivo, trasparente e accessibile. Occorre inoltre puntare all’educazione civica, alla difesa delle virtù della democrazia liberale. E sulla resistenza: i cittadini devono essere vigili, “svelare la violazione delle norme e delle leggi democratiche”, manifestare per le strade, “con coraggio e determinazione”. Anche se “alla fine l’unico vero argine contro i populisti è impedire che prendano il potere”. In poche parole, per fermare i populisti “occorre batterli alle urne”. Per evitare che la democrazia liberale si sgretoli, occorre rafforzarla, “così che soddisfi nuovamente le aspettative dei cittadini”. Soluzioni troppo vaghe, se non tautologiche.
L’Economist ritiene “troppo banali” le ricette suggerite da Mounk per rendere più efficace ed equo il sistema economico che oggi produce disuguaglianza, esclusione e risentimento. Altri gli hanno imputato un’attenzione eccessiva alla forma della politica, e una scarsa considerazione verso la sostanza della politica: i rapporti di potere. Per il saggista indiano Pankhaj Mishra, per esempio, l’elezione di Trump è un fattore meno preoccupante delle tendenze sistemiche verso la disuguaglianza caratteristiche dell’attuale economia politica. Per Mishra i liberali-centristi come Mounk, “audaci surfisti dell’onda benpensante”, dovrebbero preoccuparsi di rendere effettivo e dirimente il principio di uguaglianza non solo in relazione all’ordine politico, al livello della democrazia formale, ma anche in relazione all’ordine economico, nella democrazia sostanziale. L’argine al populismo passerebbe per la redistribuzione economica, prima ancora che il bilanciamento tra diritti individuali e autodeterminazione collettiva.
Mounk non nega che le disuguaglianze create dal sistema economico abbiano creato risentimento e disaffezione verso la politica e la democrazia liberale, aprendo un vacuum capitalizzato da leader autoritari. Ma sembra derubricare come secondario il legame tra l’indebolimento delle democrazie liberali e quello del patto sociale tra democrazia e capitalismo caratteristico dei “trent’anni gloriosi” successivi alla seconda guerra mondiale.
Quel patto sociale ha conferito legittimità alla democrazia liberale, perché ha assicurato un crescente benessere per fasce di popolazione sempre più ampie (perlomeno in alcune aree del pianeta). Con la controrivoluzione neoliberista, che ha sostituito il processo di inclusione con un opposto processo di esclusione, quel patto è venuto meno. E con esso la legittimità dell’ordine democratico liberale.
Mounk nega la corrispondenza diretta. Considera il neoliberismo soltanto una tra le cause del populismo. Enfatizza le trasformazioni tecnologiche, la diffusione dei social media e soprattutto le nuove tendenze migratorie con la crescente differenziazione culturale delle società occidentali. Secondo Mounk, “se non terranno conto delle paure sull’inefficacia dei controlli ai confini o la rabbia per gli attuali livelli di immigrazione, i difensori della democrazia liberale alimenteranno le fiamme del populismo”. Da qui, l’accusa alla sinistra di aver “rigettato radicalmente la nazione e tutti i suoi orpelli” e l’invito ad affidarsi a una forma di “patriottismo pragmatico” per arginare il risentimento verso gli immigrati.
Le critiche più severe mosse a Popolo vs Democrazia riguardano proprio l’idea di adottare una forma di nazionalismo inclusivo da opporre a quel “nazionalismo esclusivista” che, coniugato con l’attacco illiberale alle istituzioni vigenti, rappresenta per Mounk la cifra dei nostri tempi. Tra i critici più severi c’è ancora una volta Pankaj Mishra, autore di una lunga recensione sulla London Review of Books, per il quale le rivolte contro l’establishment, “derise come minacce ‘populiste’ alla democrazia liberale”, non possono essere sconfitte “con la ricostruzione di un ordine liberale alla-Macron, con nazionalismo inclusivo, patriottismo pragmatico” o ogni altra forma di centrismo.
Per Mishra, Mounk non può suggerire soluzioni innovative, se non un ritorno allo status quo ante, perché sarebbe espressione “dell’ancien regime” che cerca di sopravvivere con vecchi metodi. L’enfasi sul nemico – ora il populismo, in passato il comunismo e l’islamo-fascismo – non sarebbe che un pretesto adottato dai liberali per evitare di riconoscere i limiti costitutivi del regime politico a cui sono così attaccati, ritenuto a torto esclusivo.
La critica di Mishra può apparire ingenerosa. Ma rimanda a una questione centrale. Secondo Mounk, stiamo vivendo “tempi straordinari, durante i quali vengono rinegoziati gli elementi fondamentali della politica e della società”. I tempi straordinari richiedono reazioni straordinarie. Ma i rimedi proposti da Mounk appaiono piuttosto ordinari. Mounk ripudia certo ogni teleologismo. Nel suo libro ricorda anzi la natura provvisoria, contingente delle formazioni sociali che gli esseri umani come animali politici si sono dati nel corso della storia. Ma la sua analisi si basa sull’idea che la democrazia liberale sia l’espressione più compiuta di un progressivo affrancamento dallo stato di natura inaugurato con l’Illuminismo. In tempi straordinari, ci si aspetterebbe maggiore immaginazione politica e sociologica, come quella dimostrata dal sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santose dai politologi Pierre Rosanvallon e Yves Sintomer. Autori con impostazioni e metodi diversi, accomunati dall’urgenza di pensare la «demo-diversità», nella difficile ricerca di forme di deliberazione, partecipazione e discussione oltre il campo della democrazia rappresentativa, una delle forme possibili di governo.