La domanda cruciale ed elementare è: come può il Partito Democratico uscire dal circolo vizioso per cui al congresso o produce un altro segretario esposto all’assedio paralizzante delle correnti oppure si rischiano nuove scissioni. La giriamo a Stefano Ceccanti, costituzionalista, già deputato e senatore, cattolico e tra i protagonisti della stagione dell’Ulivo.
«Un esito innovativo e unitario è indispensabile, avendo noi di fronte un sistema politico che si basa su tre pezzi di destra e centro che si ritengono sempre perfettamente coalizzabili: Fratelli d’Italia, in questo momento la forza maggiore, e le altre due più piccole, Forza Italia e la Lega. Anche se il formato del sistema si è complicato, la dinamica resta bipolare perché in modo automatico in Comuni e Regioni la minoranza più forte diventa maggioranza in seggi, e in modo molto probabile ciò accade anche per le Politiche. Le forze di destra-centro non sono maggioritarie nel Paese, ma sono avvantaggiate dal fatto che le altre tre forze che stanno nel campo dell’opposizione, il Pd, il Movimento 5 Stelle e il cosiddetto Terzo Polo, sono divise. A me non sembra che gli elementi di divisione tra questi ultimi siano maggiori di quelli che separano le tre componenti della destra-centro. Se scomparisse il Partito Democratico e, come preconizzano alcuni, ci fosse una separazione consensuale tra un’anima di sinistra tradizionale che confluisse con il M5S e un altro pezzo che andasse verso Italia Viva e Azione, noi avremmo due pezzi ancora più distanti tra di loro, che farebbero ancora più fatica a coalizzarsi e che quindi garantirebbero, soprattutto per le elezioni politiche a destra e centro, un futuro roseo di continue vittorie. Per cui la tenuta del Pd su una linea chiara ma non di separazione interna è decisiva non solo per se stesso ma per garantire l’essenziale equilibrio fisiologico dell’alternanza».
È necessario, d’accordo, ma è anche possibile? Come si sfugge alla morsa che se c’è una scelta più chiara per un Pd più a sinistra o a più a destra si rischia una scissione e, se una scelta chiara non c’è, nascono segreterie che vincono i Congressi, ma poi non sono in grado di produrre una politica efficace.
«Si deve fare una scelta come avviene in tutti i partiti di centro sinistra europei, perché stiamo parlando di due posizioni politiche di fondo, che si ritrovano anche da loro. Non a caso si è presentato in queste settimane un documento che si richiama al laburismo, una delle esperienze dove questa diversità è sempre convissuta. Coloro che vogliono e fanno scissioni sono dentro una mentalità di tipo proporzionalista che però urta contro la filosofia del sistema, che è invece stabilmente di tipo maggioritario per Comuni e Regioni. E di fatto la logica maggioritaria, bipolare, coinvolge anche il livello nazionale, per cui quella mentalità anomala può solo far danno alla democrazia italiana oltre che al Pd. Credo dunque che ci sia lo spazio per un conflitto interno forte, come si è avuto in altre fasi, ma anche lo spazio per evitare scissioni».
Questa logica è anomala e tuttavia viene praticata. Ai contrasti congressuali è seguita l’uscita di parte del gruppo dirigente.
«L’esito non è stato particolarmente positivo per coloro che hanno fatto scissioni. Molti sono rientrati nel partito dopo un periodo, diciamo, di limbo».
C’è una tesi secondo la quale questo è accaduto perché era impossibile permanere per la minoranza sconfitta dentro il partito a causa dello statuto vigente, che non lascia spazio a chi è finito in minoranza.
«Secondo me non è così. Le scissioni dipendono dalla cultura politica soprattutto di una parte delle componenti che provengono dall’ex partito comunista, una cultura che influisce su questo esito. Mi spiego meglio: nell’evoluzione dal Pci, al Pds, ai Ds, poi al Pd, c’erano due diverse impostazioni, come ha richiamato puntualmente Fabio Martini sull’Huffington Post. Una era quella di Veltroni, secondo la quale il PD rappresentava una tappa superiore e migliore rispetto al partito di provenienza, dove conviveva un’ideologia sbagliata con un movimento storico ampiamente positivo. Una storia analoga c’è stata anche nella evoluzione dell’altra componente più importante, quella della sinistra democristiana. Per alcuni il Pd era meglio della Democrazia Cristiana, perché consentiva di superare l’anomalia della Dc italiana, dove erano costretti a convivere riformisti e conservatori a causa della egemonia comunista sulla sinistra, come ha spiegato perfettamente Pietro Scoppola. Con il Pd si potevano così positivamente unificare soprattutto i riformisti provenienti sia dalla tradizione democristiana sia da quella del Pci».
Ma non tutti erano d’accordo con questa prospettiva.
«C’erano quelli che hanno vissuto la nascita del Pd come un obbligo, ma hanno continuato a pensare che fosse meglio la situazione precedente. Situazione che è durata fino alla prova della verità dei numeri delle elezioni europee del 1999, dopo la rottura tra Ppi e Asinello. Persone che ragionano così quando finiscono in minoranza pensano di fare una scissione perché pensano alla continuità col partito precedente. Questo è l’elemento di cultura politica che molti si sono trascinati dietro e che ha prodotto scissioni. Non c’entra lo statuto. Per alcuni il Pd è stata una triste necessità, non una scelta e quindi alla prima curva utile, in cui sono finiti in minoranza, se ne sono andati per poi magari rientrare. La stessa cosa non si può dire per l’elettorato, che negli anni dell’Ulivo dava più voti alla coalizione che non ai singoli partiti. Fu rivelatrice la battuta di D’Alema a Orvieto che diceva che in sostanza il nuovo partito sarebbe stato basato sulla stabile gestione di una fusoliera centrale, le dirigenze del Pds e del Ppi, che avevano accettato per necessità il Pd, mentre altre forze sarebbero finite marginalmente alle ali. Quindi D’Alema è uscito non perché il Pd sia stato un amalgama non riuscito, ma esattamente per il contrario, perché, pur con tutti i suoi limiti, ha funzionato, perché è diventato un soggetto contendibile. La fusoliera centrale e immobile non ha retto. E qui lo statuto c’entra, soprattutto con le primarie aperte».
Ma anche Renzi non ha digerito bene il Pd, una volta in minoranza.
«La scissione di Renzi avviene perché che si è concentrato sull’azione di governo, non modificando il partito e poi, una volta caduto ha disperato di poterlo davvero cambiare e in preda a una sorta di ipercinetismo compulsivo ha preferito la scissione al rischio di finire in minoranza».
In questa versione aggiornata del Partito Democratico, qual è il ruolo delle minoranze? Come può essere disegnato in uno statuto nuovo, se è necessario uno statuto nuovo.
«Tutto si può sempre modificare. Però i perni dello statuto costituiscono elementi che sono collegati all’identità del Pd. Quali sono questi perni? Sono il fatto che, come in tutti i partiti europei, non ci sono due persone diverse, una che governa all’interno del partito e una che viene proposta per il governo del Paese. Ma c’è un’unione personale di queste due figure. In Italia, a causa della democrazia bloccata, i comunisti avevano una leadership politica che non pretendeva di guidare il governo. La Democrazia Cristiana, che era condannata a stare al governo, ritrovava un certo pluralismo, nella distinzione tra il segretario da una parte e il presidente del Consiglio dall’altra e i vari capicorrente si alternavano con frequenza praticamente annuale alla guida del governo e alla segreteria del partito. Per produrre l’esito fisiologico di tipo europeo, cioè la unione personale di queste due figure, era necessario renderla statutaria e poi procedere con la scelta delle primarie aperte agli elettori, non solo agli iscritti. Questi secondo me sono i perni e di per sé non confliggono con la sopravvivenza di una minoranza interna, perché in nessun paese europeo i partiti di sinistra, ma anche quelli di centro destra, dividono la figura del segretario da quella del candidato premier. E nessuno si sente a disagio se qualcuno cumula in sé queste cariche. Qualche cosa si potrà certo cambiare ma questi sono i pilastri della forma partito propria del Pd e sono coerenti con la sua natura e la sua funzione. Peraltro, e qui è un punto importante, Zingaretti, che nella campagna da segretario aveva evocato riforme dello statuto, promosse poi effettivamente una riforma, affidando la Commissione istruttoria a Maurizio Martina, quello che era arrivato secondo e giungendo a un esito pressoché unanime. Ora invece alcuni vorrebbero cambiare radicalmente e in modo non consensuale il Manifesto del Pd, la sua super-Costituzione, immaginando di poterlo fare col voto di un’assemblea eletta senza nessun mandato su questo punto. Ora un conto è fare qualche innovazione al testo, e sempre in modo consensuale come fece Zingaretti sullo Statuto, un altro è riscrivere per intero e in modo conflittuale. L’assemblea uscente si può anche autodenominare costituente ma è a fine mandato ed è quindi un potere costituito. Non è legittimata a riscrivere da zero il manifesto, al momento della sua elezione nessuno evocò il tema.
Veniamo al punto di sostanza della scelta, che sembra presentarsi tra una linea più aperta a sinistra o più moderata, linea che sembra identificarsi con l’uno o l’altro dei possibili alleati, con il centro oppure con i 5Stelle. Oppure pro o contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Come si esce da questa morsa?
«In tutti i partiti europei di centro sinistra ci sono queste due anime che io, in maniera forse un po’ partigiana vedo così: un’anima più di sinistra che tende a fare proposte non tanto più radicali quanto più datate, già sperimentate in precedenza con espansioni incontrollate della spesa pubblica, difficilmente gestibili e poco credibili come proposte di governo con una sorta di massimalismo conservatore; e anime più moderate anche loro bisognose di aggiornamento rispetto ai tempi della Terza Via, anche se non dimentichiamo che quello fu un periodo di successi elettorali. Ora il dato storico è che in tutto questo ultimo periodo nessuno dei partiti dove ha prevalso la corrente di sinistra ha vinto le elezioni. E questo è un rilievo fondamentale in termini di capacità del partito di vincere con sistemi maggioritari. Il partito laburista ha favorito con la leadership Corbyn la riconferma dei conservatori nonostante tutti i loro errori e cambi di premiership. La prova determinante anche in Italia è quella al livello nazionale, mentre sul piano locale e regionale, e soprattutto comunale, ci sono stati candidati vincenti dell’area più a sinistra. Sul piano nazionale le correnti di sinistra nei partiti di centro sinistra soffrono di più di quelle moderate dell’incapacità di trovare soluzioni nuove che non siano la pura e semplice espansione della spesa pubblica».
Non si è esagerato con una narrativa secondo la quale i partiti socialdemocratici, socialisti e il Pd con loro sono sconfitti perché hanno praticato una politica neoliberale, quando in realtà hanno cercato di contenere di danni di una fase neoliberale che non avevano certo determinato loro. Ora questo contenimento si impone in maniera più forte.
«Politiche di riforma come il Jobs Act e come varie altre adottate dal New Labour o dalla socialdemocrazia tedesca corrispondevano all’esigenza di sostenere una economia in forte evoluzione, che non può più tutelare il lavoro tenendo incollate le persone al posto di lavoro in cui sono. Si tratta spesso di aiutarle a cambiarlo accompagnandole in questo processo. Questo è un fatto irreversibile, non è né di destra né di sinistra, è una necessità ed è una questione di aggiornamento delle dinamiche produttive. Poi le soluzioni concrete adottate si possono anche riesaminare e correggere, ma se dalla Seconda Via siamo andati alla Terza, ora dovremo possibilmente passare alla Quarta. Ma non serve continuare a criticare la Terza nel nome della Seconda che non ci porta da nessuna parte, come l’esempio inglese dimostra con estrema chiarezza. Lo dico anche in relazione al dibattito sul Manifesto del Pd: alcune proposte di modifica in materia economica sembrano ricopiate dalla celebre Clausola 4 dello Statuto del Labour risalente al 1918 e cancellata nel 1995 sul controllo dello Stato sui mezzi di produzione. Non è che superiamo le idee degli anni ’90 con quelle di 80 anni prima».
Come pensa che i candidati nella corsa per la segreteria del Pd siano in grado di sfuggire a questa tenaglia?
«Bonaccini ha espresso già alcuni concetti minimali, soprattutto all’insegna di un riformismo pragmatico che è quello su cui si basa tradizionalmente la cultura di governo emiliana. A me sembra che le prime battute siano ragionevoli e promettenti. Vediamo anche cosa proporranno gli altri candidati».
Molto interessante. Da ponderare attentamente