Boussois: “I sauditi contro Trump, ma normalizzazione con Israele è certa”

“Tutti i giorni c’è qualcosa di nuovo, l’agenda politica di Donald Trump è totalmente imprevedibile: oggi è la Striscia di Gaza, domani sarà l’Ucraina!” Sebastien Boussois, direttore dell’Istituto geopolitico europeo (IGE) e collaboratore scientifico dello CNAM di Parigi (Team sicurezza e difesa), è una delle voci più autorevoli, nel mondo francofono, sul tema delle relazioni tra Occidente e Paesi del Golfo. Ha di recente pubblicato Donald Trump: Retour vers le futur (“Donald Trump: ritorno al futuro”, Mareuil Éditions, 2025) and Pays du Golfe: Les dessous d’une crise mondiale (“Paesi del Golfo: i retroscena di una crisi mondiale”, Armand Colin, 2019). All’indomani della levata di scudi di Riyad alla proposta americana di svuotare Gaza per ricostruirla, il suo primo commento è lapidario: “Tutto uno spettacolo, una messinscena totale! Penso che l’Arabia Saudita, attraverso la voce del ministro degli Esteri, sia tenuta a respingere il proposito di annessione di Trump. Ma anche che nella regione non ci sia un accordo durevole e solido quanto quello tra Stati Uniti e sauditi: ricordiamo che è datato 1945, dopo la fine della Seconda guerra mondiale”.

 

Come d’altronde lo è quello con Israele. Inossidabile e di lunga durata…
E infatti è inevitabile che Washington prima o poi porti i suoi due maggiori alleati a riconciliarsi. C’è chi si ostina a dire che Riyad abbia ormai congelato l’ipotesi di aderire agli Accordi di Abramo, ma è sufficiente pensare ad alcune dichiarazioni di Mohammed Bin Salman (principe ereditario del regno saudita e attuale primo ministro, Ndr) a Tony Blinken (Segretario di Stato nell’amministrazione Biden dal 2021 al 2025) e anche ora con la nuova Casa Bianca per comprendere che non è realistico. La verità è che dei palestinesi, ai sauditi e a tutti gli altri arabi, non è mai importato niente: dire il contrario è solo ipocrisia storica. Certo, il regno saudita è guardiano dei luoghi santi e ha un magnifico piano di pace che data 2002, chiuso in un cassetto, ma si lavora alla normalizzazione da troppo tempo e a svariati livelli.

 

La Casa Bianca tiene il punto e ribadisce l’intenzione di un accordo, in linea con quello di Abramo, entro la fine del 2025. In queste condizioni, secondo lei è un obiettivo raggiungibile?

Per Trump e Israele – teniamo presente questo – blindare l’Iran, metterlo in un angolo rendendolo inoffensivo è un’ossessione. Detto questo, sì.

 

Nel 2023, Iran e Arabia Saudita firmarono un accordo di de-escalation a mediazione cinese. Che cosa ne è rimasto oggi?

Ci sono riconciliazioni di facciata e altre di sostanza. Parliamo dell’embargo del 2017 nei confronti del Qatar. Era il 2017. Su ispirazione proprio di Donald Trump, sauditi, Bahrain, Emirati, Egitto tentarono di isolare politicamente ed economicamente Doha. Ebbene, nel 2022 ci fu una riconciliazione (ufficialmente mediata dal Kuwait e proprio dagli Stati Uniti) evidentemente solo di facciata, visto che i due portano avanti tuttora una battaglia senza quartiere, solo delocalizzata rispetto ai loro territori, per imporsi.

 

All’Iran, oggi, conviene l’apertura di un dialogo con i Saud? É davvero così in difficoltà come il mainstream occidentale narra?

Non sono un fan della ‘collassologia’, mi passi il termine. Negli anni, si è detto più volte che la Repubblica islamica stava per collassare. E poi, in dieci giorni è crollata la Siria di Bashar El-Assad e nessuno se lo aspettava. Però è chiaro che il momento è complesso per Teheran: Hamas e Hezbollah indeboliti, i proxy sgretolati. Per Trump, interventi mirati sui siti nucleari diventano un’opzione fattibile, anche perché per lui e la sua amministrazione si può negoziare con tutti e su tutto, persino con la Cina mi risulta che sarebbe disponibile ad abbandonare Taiwan in cambio di un buon accordo economico con Pechino – ma sul dossier iraniano è no a ogni forma di dialogo.

 

Tornando agli Accordi di Abramo del 13 agosto 2020, di cui i sauditi non fanno parte sebbene li abbiano in qualche modo orchestrati e favoriti, i Paesi membri dell’intesa in che modo si sono posizionati durante la guerra a Gaza?

Né gli Emirati né il Bahrein hanno fatto sentire la propria voce contro i bombardamenti israeliani. E anche il re del Marocco, che pure è il presidente della Commissione al-Qods (organizzazione intergovernativa che quest’anno compie 50 anni), in ragione dell’importanza della comunità ebraica nel Paese non ha protestato in modo particolarmente incisivo. Dunque, secondo me l’isolamento dei palestinesi e pure dell’Iran è chiaro e netto.

 

Chi sostiene ancora le ragioni palestinesi? Quale ruolo potrebbe avere la Turchia, che sappiamo aver supportato Hamas materialmente e politicamente a lungo?

Bisognerebbe innanzitutto capire che cosa vuole Recep Tayyip Erdogan da Israele. Fino al 2010 le relazioni erano ottime. Poi c’è stata la vicenda della nave Mavi Marmara. Poi un’altra riconciliazione. E ancora, con il 7 ottobre è cambiato tutto. Tradizionalmente, nel quadrante regionale Erdogan ha sostenuto i Fratelli musulmani e le loro formazioni affiliate. A tale proposito, siamo tutti felici che il regime di Damasco sia crollato, ma Ahmed al-Sharaa (presidente di transizione nella Siria post-Assad, noto ai più con il nome di battaglia al-Jolani, già leader del Fronte salafita al-Nusra nella guerra civile siriana) io faccio fatica a dimenticare che cos’era prima. E il suo principale sostegno è sempre stato la Turchia. Detto questo, nella questione israelo-palestinese io non credo che Ankara possa oggi dare un contributo diplomatico o di altro genere. La carta Hamas ormai è andata, Mahmoud Abbas è molto isolato alla Muqata.

 

Dalle sue parole si deduce una visione d’insieme piuttosto pessimista per la regione. É così?

Non vedo nessuna speranza. E non credo ci sia più margine per la formazione di uno Stato palestinese. Israele non lo vuole e, dopo il 7 ottobre, men che meno: sarebbe come fare un regalo ad Hamas. Come sarebbe possibile spostare 450mila coloni che vivono ormai in Cisgiordania? Trump evoca l’annessione della Cisgiordania, il dislocamento di tutti i gazawi. I sostenitori del diritto internazionale, dei diritti umani, del multilateralismo sono in preda a un’ondata di disperazione.

 

…che va oltre quello specifico dossier regionale, possiamo immaginare.

Oggi si pone una questione che va oltre le singole crisi, sì: che cosa dobbiamo fare a questo punto del diritto internazionale, del multilateralismo, delle Nazioni unite? Che cosa accadrebbe se tornassimo alla giungla delle relazioni internazionali? Se ci fossero solo rapporti bilaterali e niente più? Questo riguarda anche noi europei: contro il progetto comunitario – un magnifico sogno che in questo momento, per come è stato concepito, trova dei limiti ed è vero va ripensato – si levano populismi che cercano di ‘disfare la maglia’ dei valori difesi da Bruxelles.

 

 

Immagine di copertina: un uomo cammina di fronte alle bandiere dei Paesi parte del Consiglio per la Cooperazione del Golfo. (Foto di Giuseppe Cacace / AFP)

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