Come si racconta l’Italia nel gorgo della crisi che, a dispetto delle rassicurazioni sulla sua presunta fine ravvicinata, continua a funestare la vita e le tasche di tutti noi?
La funzione lenitiva e “consolatoria” dei cinepanettoni (i quali si sono indiscutibilmente “ripuliti” e “rifiniti” sotto il profilo dell’ostentazione delle sconcezze e dell’iterazione delle volgarità che costituivano un filamento del loro dna) tiene ancora. Ma, alla fine dello scorso anno, al botteghino – nelle cifre veritas… – ha sbancato un prodotto cinematografico di tipologia (e anche antropologia) un po’ differente, quel Sole a catinelle, diretto da Gennaro Nunziante (il quale, non molto tempo fa, ha dichiarato a Tuttolibri il suo amore per Roland Barthes e Gilles Deleuze) e interpretato da Checco Zalone (alias Luca Medici), il cui titolo rappresenta, non a caso, un manifesto dell’“ottimismo programmatico” da impugnare e sventolare di fronte all’“Italia in bolletta” che mette in scena.
Non tanto una nazione con le pezze al culo (ci sia consentita l’espressione poco aulica) – espressione che rimanda piuttosto all’immaginario dei “poveri, ma belli” e del celebre capitolo cinematografico del neorealismo all’italiana – quanto il Paese delle disillusioni dilaganti e del cinismo come arma di mera sopravvivenza e puro galleggiamento dei “neo-poveracci” (dopo essere stato il catalizzatore delle classi dirigenti rampanti). Atteggiamenti conditi, nel film, dalla sulfurea trinità composta da cattivismo, populismo-qualunquismo (trattasi, infatti, nel caso di Zalone, come l’ha definito Mariarosa Mancuso, di esempio di debordante successo di «qualunquista intelligente»), ma pure, dulcis in fundo, ottimismo “anti-nichilista”.
Ora, non la vogliamo buttare in politica (evenienza che, verosimilmente, farebbe scattare, nel soggetto in questione, il riflesso di “gettarla in vacca”…), ma ci piace l’idea di provare a metterla in sociologia. E, dunque, assai più che l’antipolitica filmica (di cui altre, con caratteristiche differenti, sono le rappresentazioni, dai film di Antonio Albanese a certe commedie più banali), vogliamo evocare, nel caso specifico, la raffigurazione cinematografica della crisi del ceto medio, che si può fare per via liberal e documentaristica (come in Inequality for All, con l’ex segretario clintoniano del Lavoro, Robert Reich, a fare da guida e commentatore) oppure impressionistica e umoristica.
Precisando, a scanso di equivoci, che non si tratta neppure di “comicità politica”: niente Coluche (che piaceva all’ultragauche di Pierre Bourdieu) e zero grillismi; nella fattispecie, Zalone è una versione postmoderna di una maschera della commedia dell’arte nazionale (e, in primo luogo, del nostro Mezzogiorno) – e il concetto di maschera lo utilizziamo qui strictu sensu, perché la comicità zaloniana è molto facciale e fisiognomica (quasi da protagonista di cartone animato). Decisamente alla larga dalla politica, dunque, chiamata in causa solo per venire sberleffata, l’attore pugliese si presenta, al pari dell’altro recordmen e specchio dell’Italia di oggidì Fabio Volo (di loro, sul quotidiano La Stampa, qualche tempo fa, tentammo una fenomenologia incrociata), come un arcitaliano postpolitico (e, nel caso di Zalone, politicamente scorrettissimo).
Infatti, siamo nell’età della «ragione populista» (per saccheggiare il titolo di un libro del filosofo Ernesto Laclau, edito in italiano da Laterza), che alla ragione parla a fatica e con una certa difficoltà, e a questo connotato dello spirito dei tempi il comico che venne da Telenorba occhieggia senza remore, per esempio quando satireggia alcuni tic e riflessi pavloviani dei cosiddetti radical chic (espressione peraltro meritevole di ridefinizione nei nostri tempi privi di Black Panthers, e infarciti semmai di panterone cafonal.
Ma la pellicola campione d’incassi di tutti i tempi in Italia appare soprattutto come uno specchio ridanciano della nazione in bolletta, per l’appunto. D’altronde, la tentazione di farne un’anamorfosi dell’epoca che stiamo vivendo è troppo forte e irresistibile (sì, il dibattito, sì…). E, proprio per questo, Sole a catinelle (con biglietti di ingresso come se piovessero) permette di fare un po’ di sociologia del Paese nell’età della crisi – e dei “forconi”, dei “compra-oro”, del low cost, delle slot e del gioco d’azzardo neoproletatizzato e Lumpen, della contrazione dei consumi e delle strategie di adattamento (alcune delle quali pericolosissime per chi vi si sottopone…). E della nazione dalla classe media spappolata (seppure, forse, un poco meno che altrove, grazie alla permanenza del monte di risparmi, ora aggredito e fortemente a rischio, accumulato nel corso dei decenni passati dalle famiglie) che, tra vendite multilevel di aspirapolveri (come nel film) e di altri beni di consumo, e finanza rapace e “cheap” generatrice di illusioni, si era fatta ammaliare dall’ipnosi di uno pseudoreaganismo all’amatriciana, iperedonistico e sorretto per giunta da piedi di argilla. Esploso il quale, a ritrovarsi infragiliti (tanto sotto il profilo materiale che sotto quello spirituale e morale) sono la società intera e i suoi tessuti connettivi, già messi a dura prova in varie altre occasioni.
Birbantello simpatico e “briccone divino” (come da psicanalisi junghiana e storia delle religioni kerenyiana che lo hanno indagato, trasfigurazione del coyote, in un ciclo di miti degli indiani Winnebago), il personaggio zaloniano è, al tempo stesso, slancio vitale ed elefante nel negozio di cristalleria dell’etichetta e dell’ordinamento sociale. Ed è anche un’incarnazione, come ha rimarcato Oscar Iarussi, del principio bergsoniano dell’inadeguatezza e del trovarsi fuori posto, che sta alla base del comico, con Zalone che non lesina, in aggiunta, il ricorso al registro “basso” (garanzia di risate da parte del vasto pubblico) e ripropone format e posture della comicità di tipo televisivo (dove ha cominciato a incontrare la notorietà di massa).
Riproduzione, tuttavia, e non certo sovversione degli schemi della società – perché, come facilmente comprensibile, per tanti versi siamo ancora dalle parti della “grande mutazione” (quasi) antropologica di questi ultimi decenni e, sotto svariati aspetti, rimaniamo nei dintorni dell’egemonia sottoculturale indotta dal Berlusconi che è rimasto fuori di noi, ma è anche entrato (gaberianamente) dentro di noi. Alcune delle figure messe in scena dal comico pugliese, infatti, di quel sogno (per alcuni incubo, e comunque autoproclamatosi, e mai realizzatosi) chiamato “miracolo italiano” rappresentano, in molti casi, gli emuli o i succedanei, e risultano fan più o meno sfegatati. Mentre l’ex Belpaese stenta parecchio a riaversi dalla sbornia della finanziarizzazione per tutti (sempre, e molto, meglio vivere di rendita che lavorare, avrebbe potuto commentare il compianto Massimo Catalano), “fai da te” e prêt-à-porter (il luogocomunismo finanziario, verrebbe da dire).
Alla fine, l’Italia impoverita e squattrinata degli anni della Grande recessione che non finisce mai è fatta di neoliberismo alle cime di rapa (il “multi-level marketing” degli aspirapolvere è il ritinteggio postmodern della premoderna – ma sempiterna – catena di Sant’Antonio in cui viene risucchiato lo sterminato parentame del nostro, ed è parente stretta delle piramidi finanziarie) e, specialmente, di eterno ritorno dell’uguale (che, nel frattempo, è passato a farsi un po’ di maquillage). E, dunque, non è certo tempo di film alla Capra, e pure quello dei cinepanettoni pare essersi consumato, ma forte, ancora di più che nel passato, e per ovvie ragioni, rimane il desiderio di farsi due risate (anzi, se possibile, anche quattro).