La strettoia di un governo obbligato dalle circostanze, con una maggioranza «contro natura» che deve tenere insieme quel che «naturalmente» non si terrebbe mai, rende più difficile, tra le altre cose, ragionare serenamente sul futuro della sinistra italiana e del suo maggiore partito.
La strada è stretta e da un momento all’altro gli equilibri potrebbero saltare. E anche gli incidenti di percorso rivelano non solo drammatiche cadute di stile e di responsabilità istituzionale – l’annunciato sciopero di protesta anti-giudici dei parlamentari Pdl, l’espulsione di Alma Shalabayeva, moglie dell’oppositore kazako Ablyazov, gli insulti animaleschi di un vicepresidente del Senato al Ministro Kyenge – ma anche distanze incolmabili tra le forze politiche italiane e tra le idee che lasciano immaginare circa il nostro futuro.
È obiettivamente un quadro confuso e disperante. Che Calderoli ecciti il suo uditorio di Treviglio intorno alla fisionomia di una donna nera, nata in Congo, e che lo faccia nel 2013, in un paese, come il nostro, che ospita cinque milioni di immigrati che rimpiazzano i vuoti nei ranghi della popolazione locale, ci dice quante grossolane bugie riempiano il nostro discorso pubblico, e di che cosa siano fatte la cultura e la retorica di politici di prima fila in questi decenni.
Ci vorrebbe sì un partito capace di una potente «mobilitazione cognitiva», come quello nelle ambizioni di Fabrizio Barca, un partito che fosse capace di restituire almeno a una parte della opinione italiana una misura della realtà un po’ più alta ed esigente di quella che circola nella discussione ordinaria. Come mai il Pd non riesce ad elevarsi sopra tanta retorica e irresponsabilità? Come mai non riesce a far suonare più forti parole che dovrebbero essere nelle sue corde? Perché, al contrario, ha perso le elezioni in circostanze favorevoli? Perché è arrivato ad appuntamenti così importanti negli ultimi mesi senza una leadership forte e determinata? E senza una linea politica ben definita?
Cominciamo qui una discussione che intanto è necessario prenda atto di questa verità: il Pd ambisce ad essere il soggetto che si propone di sostituire le miserie politiche del presente, ma non viene accolto dagli elettori come tale. Viene guardato, al di là di una cerchia sempre più ristretta di votanti (cerchia sempre rispettabile per dimensione ma inesorabilmente calante), come una entità sospetta, non meno sospetta di altri, (Pdl, Lega, centristi) di aver partecipato alla spartizione del potere. E non gode del credito di grande forza riformatrice che era nei desideri di vari segretari del ciclo Pd. Al contrario è percepito come pienamente partecipe dei giochi inconcludenti di tutta la politica italiana.
Il successo del Movimento di Grillo è scaturito anche da questa convinzione di molti ex elettori Pd. Che poi anche M5S sia rapidamente passato dalla parte degli eroi senza macchia a quella di arredo della consueta e deludente scena politica non cambia l’impatto scioccante che ha avuto sul Pd.
Ogni ragionamento realistico sulla ricostruzione della forza e della presa sugli elettori di una sinistra italiana deve cominciare dalla piena presa d’atto di questa sconfitta, dalla solenne smentita di quella che voleva essere una promessa rigenerante. Non lo è stata per niente; non lo è stata nell’azione della segreteria di Bersani e non lo è stata neanche nel contorno di gruppi e correnti che caratterizzano la vita del partito. Senza necessariamente erogare giudizi spregiativi verso l’uno e verso gli altri va semplicemente preso atto che il Pd è stato finora un contenitore di forze che si neutralizzano a vicenda, di scelte non fatte, di alternative diverse cucite attraverso formule verbali, di resistenze e contrasti paralizzanti rispetto a qualunque decisione che non fosse la continuazione di una modesta e non ambiziosa gestione, in perdita, dei consensi ereditati.
Delle varie componenti del quadro Pd nessuna ha prospettato la piena conquista del campo, il trionfo sugli avversari, il rinnovamento del paese attraverso il governo. Nessuna tranne Matteo Renzi, che si è infatti affermato attraverso la contrapposizione al vecchio Pd e che ha fatto di questa contrapposizione il suo punto di forza, la ragione che lo accredita di un potenziale elettorale enormemente più forte di tutti i competitori.
Una domanda importante che ora si pone riguarda proprio il «guscio» del Pd. Sarà capace di diventare il congegno del rinnovamento che il sindaco di Firenze gli propone? Le discussioni sulla formula delle primarie per la elezione del segretario toccano il tema della apertura verso l’esterno, della possibilità di partecipare per chi lo desideri non facendo già parte del vecchio corpo elettorale degli iscritti e dei militanti. Il «guscio» si è dimostrato troppo piccolo e troppo controllato dai vecchi abitanti, gelosi della loro storia e dei loro poteri.
La rigenerazione che ne propone Fabrizio Barca, attraverso il suo manifesto per un nuovo Pd è intellettualmente molto attrezzata, ed efficace nei suoi assunti, specialmente quando propone di aggredire la perversa fratellanza tra i partiti e le strutture dello Stato (che affligge anche secondo Barca lo stesso Pd) per far sì che i primi, e soprattutto il Pd, possano dar vita a una «nuova forma partito» senza la quale non è neppure possibile un’azione di governo.
La «separazione» dovrebbe essere l’atto fondativo di una nuova fase in cui si abbandoni il famigerato «catoblepismo» (dal nome di un mitico deforme animale di fantasia), la mostruosa mescolanza già nota con il vecchio e noioso nome di «lottizzazione», perché i partiti diventino finalmente (e in certo senso «tornino ad essere» nelle nuove condizioni di oggi rispetto all’epoca gloriosa dei partiti di massa) quella rete umana, «materiale e immateriale di mobilitazione di conoscenze e di confronto pubblico, informato, acceso, ragionevole e aperto di idee e soluzioni con cui incalzare lo Stato».
Un «partito palestra», animato dalla partecipazione e dal volontariato, attore protagonista dello «sperimentalismo democratico» capace di introdurre quelle riforme difficili di cui l’Italia ha bisogno, senza incorrere nei vizi della delega tecnocratica o della paralisi corporativa. Quella di Barca è una diagnosi che chiede molto, nel quadro di una comune visione di lungo periodo per l’Italia e per l’Europa. Il suo punto critico consiste nella aspirazione a uscire da una condizione tutt’affatto diversa, quella attuale, «catoblepica», congegnale al vecchio «guscio», senza spiegare come rompere la prigionia del presente. Il superamento delle vecchie visioni non è solo una questione di sapere, non basta l’auspicio di un processo razionale per produrlo; occorre spezzare qualche vincolo di potere.
In questo desiderio di spezzare vincoli ha un punto di forza indubbiamente il progetto del sindaco di Firenze, che appare dotato di una dose di realismo. Il che non basta certo come garanzia di successo. Me è però una premessa necessaria.
io però non capisco una cosa: qui si parla di un’ideale di leader identificato in Renzi e di un’ideale di partito identificato in Barca (cioè nella sua idea di partito che attua mobilitazione cognitiva ecc…) ma i due ideali non mi sembra che collimino. l’ideale di Renzi sul partito mi sembra completamente diverso da quello di Barca, orientato al partito liquido il primo (stile Veltroni) e molto più solido il secondo. Sul governo inoltre il primo è contro il consociativismo, ha espresso più volte le sue simpatie (e non solo i suoi finanziamenti) per settori ostili alle organizzazioni sociali come sindacato (vedi marchionne serra, ecc) il secondo non ha paura di riimmettere con forza la parola “sinistra” nel progetto di governo alternativo…cioè non capisco davvero, non ho preconcetti…spero che qualcuno mi risponda.
Barca nel suo manifesto ha toccato i punti essenziali della crisi del PD: la commistione con lo stato, il carrierismo dei dirigenti, l’autoreferenzialità del gruppo dirigente, la mancanza di visione, il percorso decisionale racchiuso esclusivamente in piccoli gruppi.
Queste critiche sono uscite da un tradizonale bla bla.. e sono state inserite in un modello organizzativo consapevole e partecipato che può consentire a un partito di sopravvivere alla crisi per poter ritornare sggetto politico
E’ vero, è un pensiero lungo quello di Barca che potrebbe non avere immediate conseguenze nel congresso. Questo dipenderà anche da come reagiranno gli iscritti che certo non sono teneri con questo gruppo dirigente
Dagli incontri che Barca sta facendo in giro mi sembra interssante la loro reazione . L’ho verificato direttamente
Oltre all’ambizione sfrenata, mi pare che la posizione di Renzi sia soltanto di acquisire potere. Per fare che? Finora, a parte le battute di cui non è avaro, non mi pare che vada oltre a promettere felicità…il che mi ricorda le promesse di Berlusconi. Mi pare anche che sia sospinto da Sky e un po’ da La Repubblica…Chissà perché?!
Questo è giudizio molto da tifoso e non argomentato. Solola dichiarazione di voler modificare e semplificare la burocrazia è unaproposta da prendere in considerazione. Questa condanna preconcetta è un segno di povertà di argomenti. Renzi propone obiettivi pragmatici, la sua colpa è di nonessere astratto come i presunti leader di ideologie che continuano a far perdere la sinistra
Il progetto di Barca è senza altro stimolante ed interessante, rischia di essere di difficile realizzazione sia per il lungo termine, ma anche per il fatto di fondare molto su aspetti e modelli teorici. Tipico di sistema di analisi della sinistra, spendersi sul lungo termine in modo teorico e molto autorefenziato e perdere di vista il contingente per poi fare la continua autocritica di non aver compreso l’evolversi della società per poi ributtarsi in altri futuri progetti a lungo termine, consolidando e perdurando l’immobilismo.
Per questo sono sempre più convinto del realismo del progetto di Matteo Renzi