La soluzione è nei confini

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Un crescente coro di voci israeliane, palestinesi e internazionali cominciano a mettere in dubbio l’applicabilità della formula dei due Stati come soluzione al conflitto israelo-palestinese, considerata la situazione difficile e su molti fronti estremamente complessa in cui oggi versano i territori occupati. A diciannove anni dagli Accordi di Oslo, ratificati nel settembre del 1993, e nonostante un ingente sforzo internazionale per la creazione di uno Stato palestinese, una soluzione al conflitto rimane oggi un distante miraggio e un’eventualità che siamo lungi dal poter definire scontata. La formula dei due Stati, basata sulla partizione del territorio e la creazione di uno Stato palestinese al fianco di Israele – le cui caratteristiche sono ancora da definire – è sicuramente l’ipotesi più accreditata. È sostenuta da una larga maggioranza di interlocutori locali e internazionali e, stando agli ultimi È sostenuta da una larga maggioranza di interlocutori locali e internazionali e, stando agli ultimi sondaggi, gode ancora di sostegno popolare presso le rispettive comunità israeliane e palestinesi.

I negoziati di pace tra il governo israeliano e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) sono arrivati a un punto d’arresto nel 2008 e non si sono verificati contatti significativi tra le due parti dal settembre 2010. C’è ancora un forte disaccordo sulle cosiddette ‘final status issues’– vale a dire confini, Gerusalemme, protocolli di sicurezza, controllo delle acque e la questione dei rifugiati palestinesi – e ultimamente entrambe le parti hanno posto nuove condizioni che complicano ulteriormente i negoziati. Mentre i palestinesi insistono affinché Israele interrompa completamente la costruzione di insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, il governo israeliano sembra non essere affatto incline a cedere a questa richiesta, imponendo invece come condizione della ripresa del dialogo il riconoscimento di Israele come «Stato ebraico».

A dimostrazione della quasi completa mancanza di fiducia nei confronti dell’impegno professato dall’attuale governo israeliano per la creazione di due Stati, la leadership Palestinese intende ora procedere con la propria richiesta per l’innalzamento dello status della Palestina all’interno delle Nazioni Unite. Lo scopo sarebbe di aumentare la pressione internazionale su Israele e di riaffermare il diritto palestinese ad avere uno stato indipendente basato sulla Cisgiordania, la Striscia di Gaza e con capitale a Gerusalemme Est. Tuttavia, un eventuale innalzamento dello status palestinese all’Onu, che passerebbe dall’attuale status di ‘entità osservatrice’ a quella di ‘Stato osservatore’ (pur sempre rimanendo uno Stato non membro dell’Onu), non comporterebbe alcun progresso tangibile nei territori occupati palestinesi, mentre la situazione economica potrebbe uscirne persino peggiorata a causa delle eventuali misure punitive statunitensi e israeliane. L’Anp è consapevole di questi rischi, ma ritiene che un avanzamento dello status della Palestina non solo non ostacolerebbe, ma addirittura migliorerebbe le prospettive di una soluzione a due Stati. Questo perché un voto all’Onu sullo status palestinese porterebbe a un riconoscimento internazionale dei confini generali che dovrebbero delineare questo Stato e quindi rassicurare gli stessi palestinesi che un eventuale ripresa dei negoziati con Israele sarebbe in funzione di un obbiettivo chiaro e preciso; quello appunto di creare due Stati indipendenti. Inoltre, il cambiamento di status permetterebbe ai palestinesi di firmare lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale Internazionale (Cpi), nonché di ratificare l’esercizio della giurisdizione e delle inchieste della Corte sulle azioni di Israele nei territori occupati. Nel complesso, la scommessa dell’Anp di rivolgersi alle Nazioni Unite può essere letta come un tentativo disperato di interrompere l’attuale impasse, sensibilizzando la comunità internazionale al conflitto e allo stesso tempo sottolineando che la soluzione dei due Stati non potrà sopravvivere in eterno ai tentativi di Israele di colonizzare il territorio. Inoltre, seguendo questa strategia l’Anp vorrebbe ridurre l’asimmetria tra le due parti del negoziato, ancorando saldamente le richieste palestinesi al diritto internazionale.

L’Anp ha garantito che dopo il voto all’Assemblea Generale dell’Onu atteso per la fine di novembre 2012 riprenderà a negoziare con Israele, ma di fronte all’incombenza delle elezioni politiche che si terranno nel paese a gennaio e a un panorama regionale caratterizzato da crescente instabilità e insicurezza, sono in pochi a credere che le trattative riusciranno davvero a far compiere qualche passo in avanti alla prospettiva dei due Stati.

Nel frattempo, in Cisgiordania – la principale estensione di territorio sul quale dovrebbe essere edificato il futuro Stato palestinese – gli insediamenti israeliani (definiti illegali dal diritto internazionale) continuano a crescere in maniera esponenziale: solo a novembre sono state rilasciate più di mille nuove licenze abitative per l’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. I coloni israeliani in Cisgiordania sono aumentati di 15,000 persone nell’arco di un solo anno, portando il numero dei coloni a un totale di 350,000 (Gerusalemme Est esclusa). Intanto, il territorio – e i palestinesi che ci vivono – è paralizzato da vari livelli di restrizioni e di controlli imposti dallo stato di Israele.

Dopo gli Accordi di Oslo la Cisgiordania è stata divisa in tre aree – A, B e C – in vista della creazione di uno Stato palestinese e del ritiro totale di Israele dai territori occupati, originalmente previsto per il 1998. Da quel momento in poi poco è cambiato; alcune aree ristrette sono passate sotto il controllo palestinese ma la maggior parte della Cisgiordania (area C), quella che contiene le riserve di acqua naturale più significative, resta saldamente in mano a Israele, che incoraggia apertamente la colonizzazione dell’area compromettendo di conseguenza sempre di più l’applicazione della formula dei due Stati.

Nell’area C, che oggi copre il 61 percento della Cisgiordania, Israele esercita il pieno controllo militare e civile e negli anni ha costruito una fitta rete di insediamenti e di strade ad accesso esclusivo, in modo da attirare e accomodare un numero crescente di coloni ebrei. La grande maggioranza dei coloni vive infatti in quest’area e di recente parte dell’establishment di destra ha iniziato a invocare la completa annessione della zona C allo stato d’Israele.

I palestinesi esercitano il pieno controllo della sicurezza e della vita civile solo nella zona A, che rappresenta il 18 percento dell’intera Cisgiordania e include soprattutto i grandi centri urbani dove è attiva l’Autorità nazionale palestinese, essa stessa istituita in seguito agli Accordi di Oslo. Nel restante 21 percento, l’area B, Israele controlla totalmente la sicurezza mentre l’Autorità Palestinese amministra i servizi civili per i propri cittadini nella zona. Tutti i punti di accesso alle aree palestinesi sono controllati da Israele, che gestisce le transazioni commerciali e l’esazione delle imposte in Cisgiordania, oltre a controllare e a disciplinare il razionamento delle risorse d’acqua, inibendo infine l’accesso palestinese ad ampie zone di terreno fertile.

Questa realtà vige in Cisgiordania da quasi vent’anni. Dal fallimento dei negoziati di Camp David nel 2000 il numero dei coloni israeliani in Cisgiordania è quasi raddoppiato. La popolazione arabo-palestinese della Cisgiordania – Gerusalemme Est inclusa – viene stimata intorno ai 2.65 milioni (e altri 1.65 milioni vivono nella Striscia di Gaza). Il numero stimato dei coloni israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est raggiunge invece le 550,000-600,000 unità. Stando ai dati del Israel Central Bureau of Statistics, nel 1993, alla vigilia degli Accordi di Oslo che avrebbero dovuto aprire la strada alla creazione di uno Stato palestinese, i coloni nella stessa area erano 264,000.

Alla luce del completo stallo diplomatico tra le parti e dinnanzi al compito verosimilmente impossibile di evacuare del tutto o quasi il mezzo milione di coloni dalla Cisgiordania, un numero crescente di persone ha cominciato a chiedersi se la formula dei due Stati abbia ancora un senso per la risoluzione del conflitto e se, considerate le attuali circostanze, la realizzabilità di uno Stato palestinese non sia infine giunta al tramonto. L’idea di un singolo Stato bi-nazionale che si estenda dal Mediterraneo al fiume Giordano e che includa sia l’identità israeliana che quella palestinese – possibilmente attraverso una struttura federale di cui Gerusalemme sia la capitale indipendente – non è affatto nuova.

L’analista politico israeliano Meron Benvisti – ex vicesindaco di Gerusalemme dal 1971 al 1978 – promuove la formula dello stato unico da tempo, riaffermando questa posizione anche nel suo ultimo libro Dream of a White Sabra: An Autobiography of Disillusionment (in lingua ebraica) in cui sostiene che Israele deve affrontare la realtà e decidere se vuole essere una democrazia o uno stato ebraico esclusivista. «Lo stato-nazione ebraico è spacciato» sostiene Benvenisti in un’intervista pubblicata su Ha’aretz, «è destinato a implodere. Alla fine, l’unico modo per viverci sarà quello di creare eguaglianza e rispetto tra noi e i palestinesi, riconoscendo che qui ci sono due comunità nazionali che amano questa terra e il cui dovere è di convertire il conflitto in un processo di dialogo ai fini della convivenza».

Benvenisti non è il solo a farsi portavoce dello Stato unico. Nel suo ultimo libro, intitolato What is a Palestinan State worth?, il professore palestinese Sari Nusseibeh espone una simile linea. Persino Avi Shlaim, famoso docente di Relazioni Internazionali a Oxford, si è recentemente schierato a favore dello stato unico, pur sottolineando che una soluzione di questo tipo è forse obbligata ma non corrisponde del tutto al suo “ideale”. Yossi Beilin, uno dei principali politici israeliani coinvolti nei negoziati che hanno portato agli Accordi di Oslo, ha perfino mandato una lettera aperta al Presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas chiedendogli di «mettere fine a questa farsa», di smantellare l’Anp e di invitare Israele ad assumersi piena e diretta responsabilità di governo in Cisgiordania. È però il caso di sottolineare che Beilin sollecita questa mossa non tanto per promuovere direttamente la formula dello Stato unico, quanto invece come modo di far pressione e di convincere Israele ad accettare finalmente uno stato palestinese. Infine, scrivendo alla vigilia delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, anche il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha avvertito il futuro presidente che rischia di «essere l’ultimo presidente americano dell’era dei due Stati».

Benché, almeno sulla carta, uno scenario che preveda il suffragio universale – un uomo, un voto – in uno stato unico e bi-nazionale rappresenti senza dubbio una prospettiva attraente, suscettibile perfino di contribuire a sanare molte delle ferite territoriali, psicologiche e legali che separano le due comunità, l’assenza di un percorso chiaro per raggiungere questo risultato e gli ostacoli apparentemente insormontabili che lo lastricano fanno sì che questa idea venga spesso liquidata come utopia o tutt’al più come ozioso esercizio mentale. Israele rifiuta categoricamente di prendere in considerazione il paradigma dello Stato unico, poiché implicherebbe verosimilmente la fine della superiorità demografica ebraica, senza contare lo scenario di grande incertezza e le violenze che potrebbero erompere dopo lo smantellamento dell’Anp o una nuova occupazione fisica della Cisgiordania da parte di Israele. La Striscia di Gaza, gestita da Hamas come entità separata dal 2007, è un ulteriore punto interrogativo che incombe sulla formula dello Stato unico. Inoltre, va sottolineato che la continua divisione tra le fazioni palestinesi di Hamas e Fatah complica non solo lo scenario dello Stato unico ma anche la formula dei due Stati, essendosi profilata sul terreno una divisione di fatto in tre Stati. Molti detrattori della formula dello Stato unico, infine, insistono sul fatto che il nazionalismo e la richiesta di sovranità continuano a essere i due motori principali che alimentano il conflitto, facendo notare che in tutto il Medio Oriente non esiste un solo esempio funzionante di stato bi-nazionale. Anzi, i preoccupanti conflitti etno-religiosi in Libano non farebbero che dimostrare queste perplessità.

Senza dubbio la soluzione dei due Stati gode ancora di un consenso pressoché unanime nella comunità internazionale, nelle élite delle parti coinvolte e nella maggioranza delle popolazioni israeliana e palestinese, ma bisogna riconoscere che le condizioni necessarie alla sua riuscita non possono persistere in eterno e che la situazione instabile e in costante evoluzione nei territori palestinesi occupati non può che inficiarne le reali possibilità di successo. Due Stati, Israele e Palestina, che convivono fianco a fianco in condizioni di pace e sicurezza rappresentano il mantra tradizionale che anima tutti gli sforzi internazionali rivolti alla risoluzione del conflitto, ma il tempo sta scadendo e forse è arrivato il momento di iniziare a prendere seriamente in considerazione le potenziali alternative a questo paradigma invece di cedere all’indolenza per la mancanza di prospettive più liete e di soluzioni diplomatiche credibili all’orizzonte.

Per questo, sulla questione dello stato unico abbiamo intervistato alcuni esperti israeliani, palestinesi e americani, chiedendo loro di presentare e di spiegare gli ostacoli, le sfide e i benefici che potrebbero derivare da questa formula. Gran parte degli intervistati concorda sul fatto che l’attuale status quo non è sostenibile ma anche che oggi e nel futuro prossimo sono altrettanto scarse le chance di una risoluzione del conflitto. La maggior parte di loro sostiene che lo status quo in Cisgiordania già costituisce uno stato unico de facto, per quanto lontano dagli standard di equità e uguaglianza che uno stato bi-nazionale dovrebbe soddisfare. Nel complesso, la formula dello stato unico viene tuttavia ritenuta una soluzione distante e improbabile, che indubbiamente comincia a essere presa in considerazione con una certa serietà da un numero crescente di voci, ma che assai inverosimilmente sarà adottata dalla comunità internazionale o dalle leadership palestinesi e israeliane come piano strategico per la risoluzione del conflitto.

Al di là di queste evidenti difficoltà nel districare la complessa questione, rimane di grande importanza il lavoro svolto da attivisti, studenti e pensatori che per anni hanno cercato di costruire una preziosa cornice concettuale attorno all’idea dello Stato unico. Essi stessi riconoscono apertamente gli ostacoli che vi si oppongono e sono consci del fatto che il paradigma dello Stato unico si sta appena facendo largo come alternativa possibile. Naturalmente, molte altre discussioni e analisi sull’argomento si riveleranno necessarie, ma una conversazione seria intorno al tema è finalmente iniziata, tanto che esso comincia ad essere riconosciuto e a suscitare in molti un discreto interesse. Solo cinque o dieci anni fa parlare di stato unico sarebbe stato impossibile, ma oggi – soprattutto alla luce del completo stallo diplomatico tra le parti – quest’idea non dovrebbe più essere automaticamente rifiutata. Infatti, i fautori dello Stato unico non sono mossi solo dalla frustrazione e dalla disillusione che affligge chiunque si cimenti con il doloroso e spesso apparentemente irrisolvibile conflitto israelo-palestinese: essi credono soprattutto nei tratti universali dell’uomo comune e nei valori di giustizia, libertà ed eguaglianza che trascendono i confini e l’etnicità, alimentando la fiducia in un futuro migliore e percorribile per entrambi le comunità.

(Traduzione di Claudia Durastanti)

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