La sfida viene dal populismo

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Le condizioni della ricostruzione di un discorso politico comprensibile, ragionevole, orientato alla soluzione dei problemi di lungo e di breve periodo sono molto precarie. Nei discorsi dei politici più attendibili – pochi, in Italia si trovano solo tra quelli che appoggiano il governo Monti – si sente, e come, la difficoltà di una sintesi. C’è di che comprendere la loro difficoltà: il contesto europeo impone limiti molto stretti; alle spalle abbiamo una stagione catastrofica del sistema finanziario; l’indebitamento degli stati e delle banche impone piani di rientro sanguinosi; la caduta della crescita e la perdita di posti di lavoro chiede risposte urgenti che nessuno è in grado di dare. E se i politici ragionanti e rispettosi del «principio di realtà» – concetto da far tornare di moda senza pretese filosofiche – fanno fatica a trovare le parole e le idee giuste, quelli che non hanno quegli scrupoli riescono apparentemente a mobilitare consensi con più facilità, individuando sbocchi più facili, a scagliarsi contro capri espiatori vari, poli di aggregazione del «negativo», a tirare contro qualche cosa o qualcuno: la tecnocrazia di Bruxelles che ci espropria di sovranità, l’euro, i vecchi politici da cacciare, e poi ognuno sceglie «l’uomo nero» più confacente alla sua parte, i sindacati, gli immigrati, i fannulloni, i magistrati oppure le multinazionali, i mercati, la speculazione.

Difficile resistere alla tentazione di costruire un discorso facilitato sul nemico. E del resto una quota di conflitto è fisiologica nelle migliori democrazie, ma mai come in questo momento la situazione è propizia per i venditori di tisane magiche. C’è un cammino difficilissimo da percorrere, una serie di passaggi obbligatoriamente amari per risanare gli equilibri dell’economia nazionale – in tutti i casi e chiunque vinca le elezioni – eppure sembra riuscire più seducente la proposta di chi invece promette meno tasse, più benessere, crescita, più lavoro per tutti, più ricerca e più fondi alla scuola, il tutto mandando a casa questo o quello o tutti i politici «in uscita».

Naturalmente è difficile non condividere un sentimento di repulsione per le auto blu, i costi di mille parlamentari, i costi dell’assemblea regionale siciliana, le pensioni d’oro dei grand commis ecc. ecc. E l’inconcludenza della politica – bisogna riconoscerlo – ha molte parentele con quei vizi disfunzionali di una élite che si è ben protetta nel tempo, separandosi dalla sorte di tutti i comuni mortali, quasi come d’incanto, come se nessuno in particolare lo avesse voluto: sono stati così eretti degli imbarazzanti monumenti ai privilegi di un ceto che si è fatalmente trasformato in una «casta».

Ma dal «taglio» di queste incrostazioni alla soluzione dei problemi nazionali ce ne corre. Senza togliere vigore a un comprensibile desiderio di «esemplare» risparmio e alla voglia di disboscamento, bisogna però stare in guardia contro i politici che investono sul rancore accumulato come se «dargli soddisfazione» fosse la soluzione. Per usare le parole meritorie di due coraggiosi esponenti riformisti che vengono dalle file del Pd e che praticano il «principio di realtà» (Enrico Morando e Giorgio Tonini), «non ci sono scorciatoie né scappatoie, dunque: ci serve una politica di cambiamento del paese, che contemporaneamente favorisca un’accelerazione della crescita, consegua il pareggio strutturale di bilancio, abbattendo lo stock del debito, e faccia ripartire la mobilità sociale, riducendo la disuguaglianza. È dura ma non potremo cavarcela con niente di meno».

È vero che la crisi economica soffia sulle vele del malcontento, del nazionalismo, del localismo, è vero che la paura obnubila e di per sé aiuta gli spacciatori di populismo di qualunque genere. È una pulsione che ha la forza della spontaneità: il pezzo forte della campagna di Marine Le Pen era un manifesto molto semplice che diceva solo: «Oui, la France». O prendete a caso un comunicato di Cinque Stelle: «Un terremoto sociale è in arrivo. Il Movimento 5 Stelle è il cambiamento che non si può arrestare, è il segno dei tempi. È l’avvento di una democrazia popolare che pretende di decidere, di controllare il destino del suo Paese, del suo Comune, della sua vita. In Italia non c’è mai stata la democrazia. Si è passati dalla monarchia, al fascismo, alla partitocrazia». (Trascinante ma falso: l’idea di un popolo che controlla il proprio destino senza mediatori è da sempre foriera di catastrofi peggiori della peggiore «partitocrazia»).

Tutto questo è vero, il vento prevalente sembra spingere in quella direzione i sentimenti più elementari. Ma allora va detto che, a questo punto, la posta in gioco nelle prossime elezioni italiane sarà proprio quella della sfida populista, che ha assunto una nuova forma, più esplicita e disinibita. Era finora convogliata essenzialmente dalla destra berlusconiana e dalla Lega, su un versante, e da Di Pietro e spezzoni della sinistra radicale su quell’altro. Non dimentichiamo che le campagne elettorali erano caratterizzate da duelli semplificati in cui le promesse benigne lasciavano largamente da parte il «principio di realtà»: taglierò l’Ici, anch’io; o che le promesse di riduzioni delle tasse si alternavano al terrorismo sulle tasse che avrebbe messo quell’altro. Non dimentichiamo che i ministri dell’economia sono stati sotto la minaccia, o il controllo, della Lega, il partito famoso per i ministeri a Monza. E non dimentichiamo che le sorti dei governi Prodi sono state ripetutamente nelle mani di Bertinotti o di Turigliatto.

E dunque che l’obiettivo sia esplicito, che la sfida sia apertamente dichiarata. Se finora si è come consolidata la convinzione – in Italia e soprattutto all’estero – che la democrazia italiana non funziona tanto bene e che nel voto prevalgono i peggiori, i quali, vincendo o imponendo la loro forza di ricatto, impediscono qualsiasi ragionevole riformismo, allora si tratta di questo: dimostrare che una forza ragionevole può prevalere, che una azione di riforma che tenga insieme obiettivi di riequilibrio delle diseguaglianze, di riduzione del debito, di ricerca della crescita su nuove basi competitive, si può affermare e può sconfiggere qualunque genere di ciarlataneria, che venga dal leghismo, dal berlusconismo delle riforme liberali che abbiamo visto all’opera, o da un movimento come quello di Grillo. E che la sfida aperta nella sinistra per la leadership si misuri anche su questo, essenzialmente su questo: cognizione della realtà con le responsabilità che ne conseguono, e delle quali bisogna convincere gli elettori.

La terapia della responsabilità è anche quella di cui ha un drammatico bisogno il capitalismo, «giunto al culmine di una crisi trentennale», come scrive qui Will Hutton. Abbiamo alle spalle lo spettacolo dell’inizio della sua disintegrazione, una sorta di nemesi del «capitalismo cattivo», lo abbiamo visto seminare disprezzo per il concetto di società, abbiamo enormemente incrementato l’esclusione sociale, mentre gli imprenditori si dimostravano «incapaci di autoregolamentazione e moderazione». Dunque un capitalismo diverso è necessario per tornare a distinguere i produttori dai predatori. Obiettivi che tornano a dare un significato forte alle prossime campagne elettorali in Europa e anche alla differenza tra destra e sinistra, tante volte data invano per sepolta.

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