Questo intervento è uscito nel volume Bobbio ad uso di amici e nemici (I libri di Reset – Marsilio 2007).
Circa vent’anni fa, nell’ottobre 1984, avevo proposto una definizione di Bobbio nello stile di quei lessici dei filosofi famosi che circolavano allora a Cambridge e a Oxford. Nella mia proposta Norberto Bobbio diventava un «bobbio» e la definizione era più o meno la seguente: canna da pesca di tipo particolare che, utilizzando come esca l’aggettivo «quale», cattura prede del tipo «democrazia», «socialismo» e Dio sa che altro. Ricorrendo a un impiego discreto del «bobbio», la mia idea era quella di definire i tratti salienti di una prospettiva di valore politico che, nell’ambito della sinistra, derivava i suoi esiti più importanti dalla tensione essenziale fra liberalismo e socialismo. Era questa, dopo tutto, una tensione che alcune lezioni di filosofia politica di Bobbio ci avevano insegnato a prendere sul serio. Ed erano in quel caso almeno due le lezioni che avevo in mente, scrivendo il testo della relazione che avrei presentato al convegno torinese per i settantacinque anni del filosofo. La prima è quella esemplificata dai saggi raccolti in Politica e cultura, la cui prima edizione è del 1954. La seconda coincide con Quale socialismo? Discussione di un’alternativa del 1976.
Scorrendo i vecchi appunti presi alla prima lezione, osservo che essi mettono a fuoco la priorità delle libertà fondamentali delle persone, rispetto a qualsiasi altro principio o valore politico, importante quanto si vuole. Passando agli altri appunti, quelli presi alla seconda lezione, direi in due parole che essi pongono l’accento sulla fallacia del marxismo come teoria politica o meglio come teoria delle istituzioni politiche e, quindi, sulla necessità che una prospettiva socialista in una società aperta sia incentrata sulla priorità della democrazia e, soprattutto, sia limpidamente coerente con quanto richiesto da tale priorità. Ricordo che quell’accettazione fu all’origine e al centro di una lunga controversia nella cultura politica dei maggiori partiti di sinistra italiani.
Giustizia più libertà, uguale eguaglianza delle opportunità
Se ora mettiamo assieme l’esito stenografico degli appunti, possiamo dire che quelle lezioni ci avevano insegnato che l’identità di una proposta politica di sinistra doveva necessariamente muovere dalla duplice accettazione della priorità liberale delle libertà fondamentali e della priorità democratica del metodo della scelta collettiva. E possiamo a questo punto mettere in chiaro una possibile conclusione, tratta dagli appunti alle due lezioni, dicendo più o meno così: per una sinistra che mirasse alla virtù della coerenza politica, la duplice accettazione era la prima mossa da fare. Si poteva naturalmente discutere su che cosa fosse meglio seguisse alla prima mossa. Ma la prima mossa era e restava un passo obbligato per chiunque, sostenendo e offrendo ad altri una prospettiva politica di sinistra, mirasse a guadagnare consenso democratico nei confronti di una politica di riforma sociale. Naturalmente, il duello a sinistra verteva allora con intensità religiosa sulla faccenda della prima mossa.
È facile vedere come una buona applicazione del mitico «bobbio» consenta di ottenere un esito politicamente significativo per dare più precisione alla prospettiva politica di sinistra, generata dalla tensione fra liberalismo e socialismo presa sul serio. Ci si chieda quale idea di eguaglianza sia quella coerente con la prima mossa. E si introdurrà necessariamente l’idea di equa eguaglianza delle opportunità come l’unica coerente con la priorità delle libertà fondamentali delle persone. Altre interpretazioni del termine vago e prezioso del lessico politico sono escluse, se si accetta la duplice priorità: perché la loro accettazione violerebbe o l’una o l’altra delle priorità o, nei casi peggiori, entrambe congiuntamente. Ma l’applicazione del «bobbio» ci suggerisce anche uno sviluppo dell’argomento politico che può rendere conto di un modo di intendere la distinzione fra destra e sinistra che è sorprendentemente indipendente dall’esercizio tassonomico in cui Bobbio si è prodigato generosamente in una terza lezione di filosofia politica, quella consegnata al celebrato volumetto Destra e sinistra, la cui prima edizione è del 1994.
L’argomento politico è il seguente: nelle democrazie costituzionali dell’angolo ricco del mondo, il nostro, destra e sinistra sono prospettive alternative di valore politico che, condividendo un nucleo normativo o una manciata di valori politici fondamentali, divergono sul resto. Che cosa troviamo nel nucleo della condivisione politica? Esattamente quella priorità del valore delle libertà individuali per le persone che era messa a fuoco nella prima lezione. Naturalmente, lo sappiamo bene, non è sempre stato così, nella tradizione di destra e sinistra, dalle nostre parti. E il ventesimo secolo delle dittature e dei totalitarismi nazisti e comunisti sta lì ad attestare la tetra verità dell’osservazione: storie terribili di crimini e misfatti che abbiamo appreso, cammin facendo, a criticare severamente. Tuttavia, quando in una lunga storia ormai alle spalle di noi eredi, con tutta l’immeritata consapevolezza habermasiana dei posteri, diviene naturale mettere a fuoco la distinzione fra destra e sinistra nella cornice di democrazie costituzionali, la priorità del valore delle libertà individuali è o dovrebbe essere un punto non controverso. La controversia, e il conflitto politico, si delineano quando ci chiediamo che cosa debba seguire la prima mossa. La condivisione della prima mossa è infatti coerente con la competizione a proposito delle politiche che non sono altro che le mosse successive. Che dalle nostre parti vi sia a tratti persistente una guerra ideologica che erode e dissipa la possibile condivisione è solo un guaio per la qualità della nostra democrazia, ma non è in alcun modo una buona ragione contro l’argomento proposto.
La lotteria della vita, rischio per la libertà
Chiediamoci ora: che cosa implica, politicamente parlando, l’accettazione della libertà individuale come valore politico prioritario? La destra dice che l’azione politica e la scelta collettiva devono fermarsi lì, nella tutela e nel presidio della libertà di scelta individuale. Qualsiasi impiego dell’autorità politica per perseguire fini collettivi che non coincidano con la protezione dei diritti individuali negativi delle persone è un impiego tirannico e lesivo della priorità delle libertà fondamentali. E questo vale nell’arena del mercato come in quella dell’educazione o in quella della salute. La sinistra dice invece che, proprio per onorare la priorità della libertà individuale, l’agenda politica deve mirare a rendere eguale o meno diseguale il valore che la libertà ha per le persone. In altri termini, la seconda mossa deve tendere ad assicurare a chiunque la capacità di usare la propria eguale libertà.
Tutti sappiamo che la capacità di usare la propria libertà può essere seriamente e severamente indebolita, quando non azzerata, dalla lotteria naturale e sociale, da circostanze su cui le persone non hanno potere o controllo e da cui finiscono per essere asservite e dominate, senza loro responsabilità. E questi esiti sociali rendono semplicemente ipocrita, farisaica o fatua la solenne promessa a proposito della intangibile e non negoziabile priorità della libertà per le persone. Di qui, in modo piano e naturale, discende l’idea di politiche che mirano a generare un’equa eguaglianza di opportunità o a ridurre e correggere costantemente tutte quelle circostanze in cui accade che le persone soffrano di uno svantaggio nella loro possibilità di autorealizzazione, senza che si possa chiamare in causa la loro responsabilità individuale.
Questo argomento che, nel caso della sinistra, sembra a me contraddistinguere oggi i tratti salienti di una prospettiva politica del socialismo europeo, ha un pedigree intellettuale illustre nella variegata famiglia di culture politiche che fanno parte della tradizione del socialismo democratico o del liberalismo sociale del secondo da poco concluso: da Erminio Juvalta a Carlo Rosselli, da Leonard T. Hobhouse sino a John Rawls, Ronald Dworkin e Amartya K. Sen. In una pagina della terza lezione di Bobbio c’è in proposito un passo illuminante in cui il filosofo ricorda la sua esperienza infantile delle ineguaglianze sociali, intese come differenze nel vantaggio e nello svantaggio in cui non ha alcun ruolo la responsabilità individuale, perché sono esemplificazioni perspicue degli effetti della lotteria naturale e sociale sulle vite delle persone e sulla loro qualità. Lo ritrovo nei miei appunti e resto convinto del fatto che queste righe abbiano più forza delle lunghe e distillate analisi delle dicotomie e delle opposizioni fra egualitarismo e inegualitarismo: «queste differenze erano particolarmente evidenti durante le lunghe vacanze in campagna dove noi venuti dalla città giocavamo con i figli dei contadini. Tra noi, a dire il vero, affettivamente c’era un perfetto affiatamento, e le differenze di classe erano assolutamente irrilevanti, ma non poteva sfuggirci il contrasto fra le nostre case e le loro, i nostri cibi e i loro, i nostri vestiti e i loro (d’estate andavano scalzi). Ogni anno, tornando in vacanza, apprendevamo che uno dei compagni di gioco era morto durante l’inverno di tubercolosi. Non ricordo, invece, una sola morte per malattia fra i miei compagni di scuola in città».
Se le prime due lezioni di Bobbio ci insegnano quali siano gli elementi fondamentali di una prospettiva politica di sinistra che prenda sul serio la duplice priorità del liberalismo e della democrazia, la terza lezione ci suggerisce quali siano le ragioni dell’adesione e della lealtà politica o le motivazioni per riconoscerci quali eredi coerenti della tradizione del socialismo liberale in un mondo e in un paesaggio sociale drasticamente mutato. Una tradizione di lealtà politica vive e persiste nel tempo se è capace, al tempo stesso, di durevole fedeltà al nucleo irrinunciabile di valori che è iscritto nel suo DNA e di revisione e riformulazione critica dei suoi metodi e dei suoi provvedimenti. In questo, e in nient’altro, sembra consistere la persistente capacità di risposta di una tradizione politica alle circostanze del mutamento sociale. Il nucleo di valori è intrinsecamente non negoziabile ed è semplicemente quanto ci identifica insieme ad altri. Lo stesso non vale per la variabile e contingente agenda politica. Quest’ultima dipende infatti dalle circostanze di un mondo di incessante deformazione.
Socialismo liberale e globalizzazione
Al giro di boa dell’ultimo decennio del secolo da poco concluso Bobbio ha consegnato alle pagine de L’età dei diritti una lezione importante, la quarta lezione nei miei appunti. Sullo sfondo dell’utopia capovolta e del collasso dell’equilibrio geopolitico della guerra fredda, il corso magistrale di filosofia politica pone all’ordine del giorno la dimensione globale, e non locale, del discorso su giustizia e diritti fondamentali delle persone qua e là per il mondo. Con tutta l’eco del diritto cosmopolitico e del foedus pacificum del progetto kantiano per la pace perpetua, Bobbio mette a fuoco la sequenza classica che connette democrazia, diritti e pace. Mi chiedo ora, rileggendo gli appunti tratti dalla quarta lezione, se non sia possibile abbozzare un possibile percorso che, tenendo assieme lealtà ai valori e innovazione nelle politiche, ci orienti nella navigazione incerta in tempi difficili come quelli dell’avvio del ventunesimo secolo, nella cornice della costellazione postnazionale.
Come ho suggerito nelle dieci lezioni sull’idea di giustizia de La bellezza e gli oppressi, la capacità di risposta della tradizione di sinistra dovrebbe mettersi alla prova alla luce delle idee dello sviluppo umano come libertà e della giustizia procedurale: due idee che fanno parte del meglio che siamo riusciti a combinare, per prove ed errori, dalle nostre parti, ma che dovrebbero poter valere in un pianeta spezzato, conteso e diviso, ai tempi della globalizzazione.
Nel mio ultimo libro ho cercato con una certa fatica di venire a capo di alcune questioni difficili o, come direbbe Sen, di alcuni dubbi globali che affollano l’agenda di una politica possibile nella costellazione postnazionale. Ora, rimettendo in ordine gli appunti che ho tratto dalle quattro lezioni del corso di filosofia politica di Norberto Bobbio, mi viene in mente che, dopo tutto, ulteriori applicazioni del «bobbio» possono essere esercizi intellettuali promettenti per ridurre l’incertezza di noi, osservatori o partecipanti. Ci si chieda, per esempio: quale globalizzazione? O, con una variante alla Sen, globalizzazione di che cosa? Dei diritti delle persone o della ricchezza senza nazioni? Della varietà del bene umano e del diritto di ciascuno di tentare di vivere una vita degna di essere vissuta o della monotonia del male, della sofferenza socialmente evitabile e della crudeltà, punto e basta? E si mettano alla prova nella controversia risposte plausibili alla domande difficili.
Dovremo allora forse riconoscere che anche il solo formulare con precisione alcune domande difficili è in questo caso un primo passo importante; e nel fare il primo passo è certamente cosa buona e giusta riconoscere il debito e la gratitudine nei confronti di Norberto Bobbio e, naturalmente, del suo probo e ostinato ricorso al «bobbio».