Yves Mény sulla lunga ascesa dell’estrema destra

Le ultime elezioni europee hanno confermato un trend cominciato negli anni ’90: l’aumento dei voti ai partiti dell’estrema destra. In Francia, il Rassemblement National di Marine Le Pen ha ottenuto il 31,5 per cento dei voti, arrivando al secondo turno alle legislative nazionali. Fratelli d’Italia è il primo partito con il 28,8 per cento, mentre in Austria il Partito della Libertà è arrivato al 25,4 per cento delle preferenze. In Germania, AfD è diventato la seconda formazione politica più grande (16 per cento), superando il Partito Socialdemocratico (SPD) di Olaf Scholz e posizionandosi subito dietro la Cdu. Con i partiti tradizionali che faticano a mantenere la loro posizione, Reset DOC si è rivolta a Yves Mény, primo direttore del Centro Robert Schuman presso l’Istituto Universitario Europeo, per approfondire le dinamiche politiche che hanno contribuito all’ascesa dei partiti di destra in Europa.

Professor Mény, stiamo cercando di comprendere le radici di questo fenomeno ormai di lunga data: era il 1995 quando alcuni elettori della classe lavoratrice, precedentemente sostenitori dei comunisti, cominciavano a fluire verso Jean-Marie Le Pen, mentre Jacques Chirac otteneva un ampio sostegno popolare. Quali sono le dinamiche politiche che hanno contribuito all’ascesa dei partiti della destra in Europa?

Già negli anni ‘80 si è osservata una certa decadenza dei partiti nelle democrazie avanzate, perché si sono trasformati, in maniera quasi impercettibile, in cartel parties, come li ha chiamati Peter Mair: formazioni politiche che cooperano per conservare il potere, distaccandosi sempre di più dalla base elettorale. Il colpo fatale fu però la caduta del muro di Berlino, che sembrava una vittoria totale del liberalismo e ha segnato di fatto la fine del sistema partitico tradizionale.

Come hanno reagito i partiti politici a questo cambiamento e quali sono stati gli effetti sulle loro basi elettorali?

Da un lato, i partiti politici hanno cercato di accettare il dominio del liberalismo economico e della globalizzazione – diventati il mantra della politica internazionale. Dall’altro, anche coloro che non volevano sostenere questa banalizzazione sono stati più o meno costretti a farlo, partecipando a governi socialdemocratici o socialisti. Due esempi significativi sono François Mitterand in Francia e il Partito Comunista Italiano (Pci). All’inizio Mitterand adottò una politica socialista, ma dopo due anni dovette adattarsi al fallimento di questa strategia. Il Pci, desideroso di governare, accettò le regole del gioco. Ricordo ancora le polemiche quando il giornale di partito L’Unità iniziò a pubblicare i flussi della borsa.

C’è stato quindi uno svuotamento dei partiti popolari, che si sono convertiti alla globalizzazione e all’europeismo (che di fatto permise l’introduzione della globalizzazione a livello europeo), anche perché a volte non c’era apparentemente un’altra opzione.

Perché è importante l’evoluzione politica che ha appena delineato?

Perché i partiti di sinistra avevano una funzione di incanalamento della protesta sociale in un quadro ideologico. Il Pci rappresentava la classe operaia e una parte importante di chi che era scontento della Democrazia cristiana. Il Partito Comunista Francese prendeva in carico ogni protesta, tanto che un politico [Georges Lavau, Ndr] si spinse a parlare della sua fonction tribunitienne, della sua “funzione tribunizia”. Questo ruolo è venuto meno a partire dagli anni ’90, lasciando spazio a partiti o piuttosto a movimenti sociali guidati da leader carismatici. Prima con proteste a partire da elementi limitati: in Francia l’immigrazione, in Italia l’accentramento delle politiche, come nel caso della Lega Nord, in Germania l’euro, nel Regno Unito l’Unione Europea. Forse l’esempio più notevole è stato il movimento dei Gilet Gialli in Francia, che non aveva nessun programma, nessun leader, nessuna voglia di governare, ma che voleva protestare contro la politica sociale del governo. Questa protesta populista è stata quindi “espropriata” da partiti esistenti, come il partito di Le Pen, o da nuovi movimenti, come in Germania.

Come si inserisce l’elemento ideologico in tutto ciò?

Alla crisi politica si aggiunge l’elemento ideologico: fino agli anni ’90 le ideologie dominanti erano o di tipo comunista o socialdemocratico. Anche i governi francesi non socialdemocratici hanno sempre fatto una politica socialdemocratica, un po’ come Bismark alla fine dell’Ottocento faceva una politica sociale non per amore della classe operaia, ma per evitare la rivoluzione. Questo dominio della sinistra e la partecipazione al governo hanno fatto sì che una larga fetta di chi era parte di questa protesta sociale non si sentisse più rappresentata.

Una questione, questa della rappresentanza, oggi centrale. Tanto che si accusa la sinistra di elitarismo…

La sinistra ha via via dimenticato alcuni problemi centrali per la classe operaia. Si pensi alla coesistenza nelle periferie con i migranti. Il Partito comunista francese affidava gli alloggi popolari comunali ai più poveri, che tra gli anni ’70 e ’80 erano però sempre più spesso immigrati provenienti dal Nord Africa. Questa coesistenza è stata difficile perché si trattava di una competizione culturale prima ancora che lavorativa. Un caso forse esemplare è oggi Jordan Bardella, che ha origini italiane, viveva nella periferia e ha adottato la caratteristica abbastanza comune dei figli dei migranti di rigettare chi arriva dopo.

Arrivando alle ragioni economiche di questo fenomeno, quali sono secondo lei i passaggi chiave?

Negli anni ’80 c’è stata una piccola rivoluzione che, a mio parere, è stata analizzata in modo sbagliato. Una volta che Margaret Thatcher ottenne il famoso rebate, accettò di aprire alle iniziative di Jacques Delors. Lui presentò un programma abbastanza ambizioso sia sul piano economico che sociale. Capì però rapidamente che, se voleva liberare le forze del mercato come si cercava, doveva rinunciare alla sua agenda sociale. L’unica cosa che è rimasta del progetto iniziale a livello sociale sono stati i Fondi strutturali, distribuiti alle regioni più povere d’Europa, una goccia nel mare delle forze di mercato. La vittoria quasi completa del mercato a livello europeo che ne è seguita ha portato come conseguenza una divisione terrificante: tutto ciò che è economico e finanziario è di competenza europea e ogni Stato membro deve occuparsi delle conseguenze negative, anche perché i sistemi di welfare sono nazionali.

Delors faceva però del patriottismo europeo, contro ad esempio le auto asiatiche, mettendo uno sbarramento fino a che si è potuto. Apparteneva a una stagione in cui la sinistra, le forze più socialmente sensibili dell’Europa resistevano alla globalizzazione…

Senz’altro in quel contesto Delors ha fatto quello che poteva e limitato i danni. Ma è una lunga storia. Durante i negoziati del Trattato di Roma, i francesi volevano introdurre una certa forma di welfare state, perché sapevano che i costi del lavoro in Francia non erano già all’epoca competitivi con la Germania e la Germania si oppose a qualunque forma di dimensione sociale. L’unica cosa che è sopravvissuta è il principio dell’eguaglianza degli stipendi fra uomini e donne che è però poca cosa. Siamo in un certo senso in una situazione migliore, ma comparabile a quella degli Stati Uniti. Ogni Stato americano ha la possibilità di entrare in competizione fiscale. In Europa un po’ meno, ma il mercato costringe molto gli Stati membri. Se l’Italia vuole tassare i redditi del capitale al 50 per cento, due giorni dopo crolla, perché tutti i capitali vanno via. Stessa cosa in Francia, con la tassa sul patrimonio che ha fatto fuggire una grande parte dei più ricchi dal Paese fino al ritorno di Macron. Invece per diminuire o cambiare la tassazione indiretta cioè l’Iva c’è bisogno dell’accordo della Commissione, ci vogliono tanti negoziati perché tocca direttamente i meccanismi di mercato, c’è una specie di forbice fra cui le tassi di IVA possono essere fissati. Dunque l’economia è diventata più globalizzata e l’Unione europea ha permesso di attenuare forse gli effetti più drammatici di questa globalizzazione, ma in un certo modo ne è stata anche il cavallo di Troia. Chiaramente la chiusura non è un’opzione, l’unica soluzione che vedo per tentare di limitare questi effetti deleteri sui nostri sistemi democratici è di rafforzare la democrazia a livello europeo, cioè di dare all’Europa una vera capacità di agire sia sul piano strettamente democratico sia sul piano sociale.

Ciò che emerge è quindi il fatto che il nazionalismo economico era in un certo senso parte della natura dei partiti socialisti europei, della sinistra europea, anche se in maniera forse non dichiarata, ma implicita. I sindacati e i partiti della sinistra quando si decide di delocalizzare ad esempio, non assumono un’ottica internazionalista, difendono gli interessi nazionali. Cosa che invece adesso sembra essere diventata una prerogativa essenziale della destra. Trump ha un modello chiarissimo in mente: riportare negli Stati Uniti le fabbriche. E la sinistra non ha alcuna voglia di contrastare radicalmente la globalizzazione.

C’è un altro elemento del patrimonio culturale della sinistra che la mette di fronte a delle contraddizioni: l’espansione infinita dei diritti fondamentali. La legittimazione popolare è alla base della democrazia, ma non è sufficiente. È il caso di Orban, al potere da anni, sostenuto dalla sua opinione pubblica e con maggioranze stravaganti. L’Ungheria è però una democrazia molto imperfetta, perché non rispetta più il catalogo dei diritti fondamentali, basti guardare la libertà dei media. C’è oggi uno sbilanciamento tra la voce popolare e i diritti fondamentali che si impongono anche alla volontà popolare.

Il populismo nasce anche dal fatto che i governi non hanno risposto alla voce popolare e spesso non sono neanche in grado di farlo, visto l’insieme di norme giuridiche nazionali, europee o internazionali e questa per me è una grande contraddizione nel funzionamento delle democrazie rappresentative. In questo quadro, la sinistra non è riuscita a trovare un equilibrio fra la difesa direi quasi cieca dei diritti e le posizioni dell’estrema destra che dicono basta. Questo porta a un tema di riflessione a lungo termine: non possiamo aumentare di continuo la parte non negoziabile, la parte intangibile della struttura democratica, e allo stesso tempo lasciare che la parte popolare si assottigli. Anche perché la retorica politica democratica insiste sull’idea che il popolo è sovrano, mentre una parte del popolo ha l’impressione che la sua voce non sia mai ascoltata.

Qual è il suo punto di vista sul populismo e il suo impatto sulle democrazie rappresentative?

Per me il populismo è un elemento quasi costituente delle democrazie e il miglior antidoto è permettere ai populisti, se vincono di arrivare al potere. Si è visto cosa è successo ai 5 Stelle o a Salvini che vuole fare il populista anche al governo e non ha un grande successo… Il successo principale del populismo è di far emergere nuove élite, che falliscono o riescono, ma rappresentano un’apertura, e torno a Peter Mair, di un sistema diventato molto chiuso.

Come vede quindi il “cordone sanitario” francese anti Rassemblement National?

È un po’ come la costruzione dei muri romani per impedire l’entrata dei barbari nell’impero romano. Funziona per un certo tempo, non nel lungo periodo. Il cordon sanitaire ha funzionato molto meglio del previsto, ma adesso i partiti della sinistra sono talmente divisi che non sono neanche in grado di accordarsi sul nome di un potenziale primo ministro. Dunque sono molto scettico.

 

Immagine di copertina: Giorgia Meloni e il primo ministro ungherese Viktor Orban a un summit del Consiglio europeo a Bruxelles, Belgio, il 27 giugno 2024. Foto di Nicolas Economou / NurPhoto via AFP.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *