Tutto cambia affinché nulla cambi. Osservando la campagna elettorale delle elezioni che dovevano essere le più importanti della storia della Repubblica, tornano in mente le parole che il principe di Salina riserva al cavaliere sabaudo che gli chiede dove trovare in Sicilia la classe dirigente del nuovo Regno d’Italia. Dopo cinque anni di crisi e cambiamenti inauditi, ancora una volta, nel momento decisivo prevale l’eterno ritorno della politica italiana al suo passato. Ed è un’intera società ad apparire come paralizzata da sé stessa.
Ciò che sorprende di più è quanto poco si affrontino in queste settimane le domande dalle cui risposte dipendono, letteralmente, la sopravvivenza di una comunità nazionale ed il suo futuro: come possiamo risvegliare un’economia che appare sprofondata in un letargo che dura da vent’anni? Con quale criterio cominceremo un’operazione di progressiva, continua revisione del ruolo dello Stato? Come possiamo riportare alla legalità i rapporti tra cittadini e la competizione tra le imprese in una società che appare spesso lacerata dalla sfiducia? Quale può essere il ruolo dell’Italia in uno scenario europeo e globale che influenza così tanto le quotidianità di tutti?
Il confronto del 2013 avrebbe dovuto segnare l’ascesa di nuovi protagonisti; la rete ed il “territorio” dovevano sostituire la televisione come luoghi dove si sarebbe giocata la partita; infine, la contrapposizione tra Centro Destra e Centro Sinistra sarebbe stata superata, come aveva annunciato Monti, da una nuova sintesi in grado di esporre le contraddizioni interne ai partiti e favorire una ristrutturazione radicale dell’offerta politica.
Succede, invece, che il dibattito si è trasformato in un inseguimento senza fine negli studi televisivi tra tre o quattro leader, i quali da settimane ripetono sempre gli stessi concetti per arrivare all’ultimo dei propri elettori target; che le contrapposizioni non sono mai state così forti; che i programmi appaiono ridotti ad un referendum sulla tassa (l’IMU) pagata più di recente, quando sarebbe, invece, il momento di capire cosa non ha funzionato negli ultimi vent’anni, per poter invertire un declino lungo che si sta trasformando in tracollo; che contenuti essenziali sono completamente spariti.
Assenza di risposte, dunque, che parte da un vuoto di domande di cui – nonostante lo tsunami mediatico – è responsabile anche buona parte del sistema dell’informazione.
Sulla crescita, innanzitutto, che non è solo un problema di economia ma, più in generale, di interruzione del coma – come dice Bill Emmott – nel quale siamo tutti intrappolati da due decenni. I dati sull’evoluzione dei redditi e delle quote sulle esportazioni dicono che vent’anni fa eravamo il Paese peggio attrezzato del mondo per affrontare la globalizzazione e che abbiamo continuato ad esserlo negli anni successivi, nonostante tante riforme rimaste imprigionate in una legge.
E allora la prima domanda da fare a chi si candida è: come si può superare questa maledizione che ci accompagna dal 1994, quando passammo in pochissimo tempo dall’essere una delle economie più dinamiche a fermarci quasi totalmente? Se la ricetta fosse – come insiste Fassina – un ritorno agli investimenti pubblici, dove intendiamo reperire le risorse? Come ci dovremmo attrezzare entro la fine dell’anno prossimo, per utilizzare nella migliore maniera possibile le uniche risorse che saranno sicuramente disponibili e che verranno, in buona parte, allocate alle regioni del Sud?
Se invece la risposta alla domanda sulla crescita fosse – come insiste Brunetta – quella della riduzione delle tasse, come si immagina di voler rispettare i vincoli di bilancio e la necessità di ridurre il debito che ci zavorra? Chi proponesse – come ha fatto Berlusconi – la riduzione della spesa pubblica del 10% (ottanta miliardi di euro) in cinque anni, cosa esattamente vuole tagliare, come pensa di farlo senza mettere in discussione l’impossibilità di licenziare i dipendenti pubblici per “motivi economici”? C’è un modo per costruire un’offerta politica alternativa alle proposte di Destra e Sinistra cogliendo – al Centro- il nesso che esiste (e che molti ignorano) tra una più efficace lotta all’evasione fiscale e una maggiore tutela dei contribuenti rispetto all’invasività del fisco?
Ma ancora più a monte, in che maniera ci aspettiamo che muti il ruolo dello Stato nei prossimi anni? Visto che le attribuzioni di poteri che una Costituzione fa è – per definizione – rigida, come faccio a cambiarle in maniera periodica per tener conto di quanto invece la realtà sia diversificata tra Regioni diverse e di quanto essa si modifichi continuamente per effetto di innovazioni tecnologiche che rendono ridicole e insopportabili certe burocrazie? Quale può essere il ruolo dello Stato nell’incoraggiare quelle mutazioni sociali e industriali – ad esempio, della geografia di città che devono affrontare sfide urgentissime sul piano del traffico, dei rifiuti, dell’energia – che faranno il futuro?
E ancora sul piano della Giustizia, e, dunque, dei rapporti tra cittadini e tra imprese: c’è un margine per superare la contrapposizione tra chi vuole conservare le cose come stanno e chi fa finta di volerle stravolgere per arrivare – esattamente come teorizza il Gattopardo – al nulla? In che misura in una società moderna le decisioni delle maggioranze possono incidere sulle scelte personali e, ad esempio, sulla forma delle famiglie?
Ancora più grave è, poi, il buco nero nel quale risulta sparita la questione del ruolo dell’Italia sul piano europeo e globale che così tanto ci condiziona. Sull’Europa, lo scontro è tra chi vorrebbe difendere lo status quo e chi, al contrario, individua nell’Europa attuale la madre di tutti i problemi. Quale la strategia per cambiare un progetto che ha, appunto, bisogno di essere radicalmente ripensato per sopravvivere? Cosa si intende proporre ai vertici europei, che subito dopo le elezioni italiane fisseranno dimensione e composizione del budget dell’Unione per i prossimi sette anni? Quale la nostra visione per quella parte di mondo che – dalla Turchia al Marocco – ci circonda ed è attraversata da rivoluzioni vere?
Avremmo bisogno di modelli di leadership diversi da quelli che abbiamo, in grado di coinvolgere le persone spiegando perché il privilegio finisce con il far male a tutti. Un cambiamento fatto dall’alto è, del resto, finto tanto quanto quelli che avevano creduto di vedere gli occhi del padre di Tancredi. Tuttavia, è altrettanto vero che la storia della fine del Regno delle due Sicilie insegna anche che un sistema di potere è già morto quando subisce trasformazioni alle quali non riesce ad adattarsi e reagisce illudendosi di poter rimanere aggrappato al passato.