Pubblichiamo un estratto dell’introduzione al catalogo della mostra “Napolitaneide” in corso fino al 1 luglio al Forte Leopoldo I di Forte dei Marmi. Il catalogo con tutte le vignette (PDF)
Per lungo tempo, nella storia d’Italia, Giorgio Napolitano è stato considerato un passante. Nella storia del Pci, un ospite. Nelle biografie di Togliatti non è mai citato, sia nella versione di Giorgio Bocca che in quella più documentata di Aldo Agosti e nemmeno nella più ortodossa di Ernesto Ragionieri. Paolo Spriano se ne ricorda una volta sola, alla fine dell’ultimo volume, quello sottotitolato «Resistenza, Togliatti e il partito nuovo», dove figura con una citazione in una nota a pie’ di pagina, in folto gruppo però, nel mezzo della nuova leva di intellettuali del Pci che nel dopoguerra scelsero la militanza politica: con Berlinguer in testa ci sono tutti, da Antonello Trombadori a Rosario Villari o anche Carlo Salinari o Fabrizio Onofri e via via rammemorando fra tanti nomi ormai sommersi nel profondo della memoria storica dei comunisti.
Nel volume successivo della Storia del partito comunista Italiano di Einaudi, scritto da Renzo Martinelli, che va dalla «Liberazione al 18 aprile», Napolitano scompare. Non lo si trova nemmeno nel volume della Storia d’Italia di Sabbatucci e Vidotto, il V dedicato alla Repubblica, mentre nel VI compare una sola volta nel testo per «l’attenzione che la corrente “migliorista” riserva al Psi» e una seconda in nota per il libro Dove va la Repubblica del 1994. Per trovare qualche citazione in più bisogna immergersi nell’indice dei nomi della Storia d’Italia di Paul Ginsborg, ma sempre per inciso o in nota.
Uno storico affrettato potrebbe dedurne che quando Napolitano si iscrive al Pci nel novembre del 1945 e diventa funzionario del partito, e anche dopo, per lungo tempo, nessuno se ne sia accorto. Eppure si trova nel posto giusto, al momento giusto, nel gruppo giusto del «partito nuovo» napoletano: aveva cominciato con la fronda dei Guf, gli universitari fascisti, con La Capria e Antonio Ghirelli e Francesco Rosi nonché Luigi Compagnone, poi partecipa alla creazione della rivista culturale di Massimo Caprara, Latitudine, a Capri incrocia da lontano Togliatti in visita a Malaparte, partecipa al V congresso di Roma, «comunista borghese» viene scelto da Amendola per cercare un’alleanza fra lavoro e capitale per la ricostruzione del Meridione, compito che non lo esonera dal trovarsi in via Medina quando si spara sui monarchici che hanno dato l’assalto alla Federazione del Pci dopo la vittoria della Repubblica, non manca fra gli assidui del salotto politico dell’avvocato Mario Palermo, «comunista borbone», e lo studio del pittore Paolo Ricci ritrovo dell’internazionale culturale da Picasso a Neruda…
Che fatica, però. Per spedirlo a fare il segretario della federazione di Caserta, Giorgio Amendola fu costretto a far intervenire il padre. Non era la prima volta di Napolitano renitente rispetto alle pressioni della politica: aveva rifiutato di andare a Roma come segretario particolare di Emilio Sereni diventato ministro nel 1946. Se sette anni dopo viene candidato ed eletto alla camera dei deputati nel 1953, tutto sembra essere successo a sua insaputa. «Accolsi la decisione con stupore», così racconta nell’Autobiografia (1995). E c’è da credergli.
«I would prefer not to», preferirei di no, è la risposta che ha fatto diventare celebre Bartleby, lo scrivano del racconto di Herman Melville, scopritore di quello speciale algoritmo del reale che consente di passare alla storia senza aver fatto niente di storico. In un racconto sofisticatissimo, Bartleby e compagnia, lo scrittore catalano Enrique Vila-Matas racconta quella attitudine esistenziale di esserci senza comparire, per ottenere il massimo della visibilità coltivando il massimo della riservatezza. Come quelli che fin dalle fotografie studentesche si mettono sempre dietro mimetizzandosi col gruppo. In filosofia si chiamerebbe «contingentismo». In psicanalisi «denegazione».
Napolitano, figlio della borghesia intellettuale, liberale per censo, si iscrive al Pci non per dottrina ma per necessità politica. «Il comunismo a Napoli fu un liberalismo di emergenza» è la formula icastica di Annamaria Ortese, Il mare non bagna Napoli, per spiegare i tortuosi percorsi dei giovani intellettuali di sinistra in quel disastroso dopoguerra. Napolitano segue la regola di Bartleby sottoponendola però alla legge contingente della necessità, come viene dettata di volta in volta dalla realtà dei fatti: nulla sarebbe accaduto se non vi fosse stato costretto. Persino l’iscrizione al Pci viene presentata come una conseguenza obbligatoria dello stato di prostrazione sociale, morale e ideale della realtà in cui sopravviveva con fastidio esistenziale, sebbene non ne patisse gli effetti più estremi.
A giugno aveva compiuto appena 20 anni. Non si sentiva così giovane però, guidato dalla consapevolezza di saper già distinguere, con grande anticipo sulla storia, il grano della politica dal loglio dell’ideologia.
Nel sottile gioco di invenzione delle parole nuove per cercare il senso del tempo, in quegli anni che vanno dal 1944 al 1946, la definizione politica di «giovane» si sovrappone a «intellettuale». Già, «culturcomunismo», comunismo sì, ma solo culturale! Che è stato un modo elegante per tenersi lontano da Stalin con la scusa di dover storicizzare non solo Marx ma anche Lenin. Infatti ricorda che se mai un dubbio lo aveva frenato era proprio a causa di una «insufficiente… convinzione dal lato “ideologico”». Con un po’ di autocompiacimento quel dubbio dopo 50 anni viene presentato come un difetto. Come se fosse colpa sua e non del Pci. Nel lungo periodo, si sarebbe rivelato il tratto vincente.
“L’uomo è lo stile”, non è una battuta di Alain Elkann ma una citazione del conte Buffon, naturalista francese, già usata da Lacan per Baudelaire. Ecco: Napolitano è lo stile. Al contrario di Enrico Berlinguer, che si era iscritto da giovane direttamente al Comitato centrale, secondo la battuta tagliente di Giancarlo Pajetta, il giovane Napolitano è già postcomunista fin dal giorno in cui si decide a prendere la tessera.
Un «comunista di classe», secondo un calembour d’epoca rivitalizzato dallo spirito caustico di Edmondo Berselli. E infatti il primo lavoro consiste nel rappresentare il partito dei lavoratori, la «classe», in una associazione dove ci sono anche i partiti dei padroni, molti liberali e anche qualche ex fascista. In quei mesi il Pci è ancora al governo. Per poco. Il gelo ideologico della guerra fredda, molto presto scompiglia il generoso disegno pensato da Giorgio Amendola. Quando arriva il Quarantotto, con la sconfitta del 18 aprile, al Pci bifronte di Togliatti non rimane che ripartire dal principio, diventare sempre più comunista, tendenza sovietica e obbedienza stalinista.
E Napolitano? Si trova circondato! Non se ne preoccupa, però. Si mimetizza. E comincia la sua lunga traversata nella storia confidando nell’idea, qualcosa di più di una speranza, che immerso nel gioco della democrazia il Pci sarà costretto giocoforza a cambiare la sua natura e a perdere i connotati illiberali e totalitari. Una cosa che forse avrebbe potuto immaginare solo Togliatti, il quale però si è sempre ben guardato dal raccontarla in giro, persino dopo la fine di Stalin. Che tutto non sia andato per il verso giusto lo sa anche Napolitano. Soprattutto perché per lui l’incompiuta togliattiana, nel finale di partita, è diventata la pietra filosofale capace di trasformare l’incerto comunista, seppure stalinista mancato, in un compiuto presidente democratico. Eterogenesi dei fini: a lui, il «compagno gentiluomo che ha avuto ragione prima di altri» (come ha detto Piero Fassino) a cui però tutti hanno sempre dato torto, a Napolitano il destro, il socialdemocratico, il migliorista, il craxiano, e poco ci manca anche berlusconiano, è toccato, miscelando con sapienza alchemica coincidenze tattiche e necessità strategiche, di conquistare il «palazzo d’inverno» della Repubblica italiana. In principio, erano in molti a pensare che si fosse sbagliato di palazzo: cosa volete che possa contare un comunista al Quirinale quando a Palazzo Chigi c’è il campione della rivoluzione liberale?!
Nei cinquant’anni dell’Età democristiana (con il Pci deuteragonista) Napolitano non si è nascosto. Si è soltanto messo di lato. «Preferirei di no»: è la risposta che lo ha preservato dallo scontro diretto per il controllo del partito, lo ha fatto sopravvivere alle molte sconfitte interne, lo ha portato infine a vincere nello stesso modo in cui ha sempre scelto di vivere.
Sarebbe inane cercare di capire se la vulgata che pian piano si è diffusa intorno alla sua figura politica come una nebbia impalpabile, ma impenetrabile, non sia dovuta a una consapevole strategia esistenziale piuttosto che alla varia fenomenologia della lotta politica. Nell’Autobiografia, scritta un anno prima dell’elezione, a confermare l’ipotesi che sebbene non s’aspettasse di salire al Quirinale, non aveva mai smesso di prepararsi per farlo, c’è un contrasto rivelatore come un lapsus inconscio: si tratta del contrappunto fra testo e fotografie. Quanto nelle parole c’è il Napolitano cauto e misurato, attento e guardingo, prudente e indeciso e alla fin fine inadeguato a prendere in mano il corso della storia, tanto invece le foto ci mostrano Napolitano perfettamente a suo agio: giovanissimo con Gerardo Chiaromonte, poi eccolo che guida Togliatti insieme a Mario Palermo con alle spalle Giorgio Amendola per le strade di Napoli durante la campagna elettorale del 1963, e ancora con il maresciallo Tito piuttosto che con Guido Carli, ma anche con Vittorio Gassman o invece con Luigi Nono, con Enrico Berlinguer e con Francesco De Martino, con Natta a Mosca e con Occhetto a Washington, con Gorbaciov, con Willy Brandt, con Jacques Delors….
Le foto pur raccontando la stessa storia mostrano un’altra verità, in soggettiva rispetto al racconto oggettivo delle parole così calcolato e controllato, sempre assolutorio pur nel riconoscimento delle colpe, tutte le colpe una per una, del comunismo italiano. Ma soprattutto le foto consentono una parallela e alternativa interpretazione figurale: i gesti, le posture, le espressioni, le pose, pur nel trascorrere del tempo, si ripetono diverse ma uguali come i motivi di una sinfonia. Napolitano non indulge alla esposizione dell’album di famiglia e seguendo il consueto riserbo non cede alla tentazione di mostrarsi infante, ma fin dalla prima foto da giovane, con Giovanni Berlinguer al Congresso studentesco mondiale (Praga 1946) all’alba della sua vicenda politica, si vede che già giovanissimo portava con sussiego l’allure della sua storia. Anche se ancora da scrivere.
«Nu guaglione fatt’a vecchio» è la battuta feroce di Luigi Compagnone quando si frequentavano nella Napoli intellettuale ritratta con altrettanta spietatezza da Anna Maria Ortese, (da La Capria a Francesco Rosi a Pasquale Prunas e Domenico Rea, il poeta pazzo Gaedkens cioè Gianni Scognamiglio), quando il dopoguerra non è ancora passato e il futuro è già peggio. In quel «morto furore», Napolitano la scampa, ormai mimetizzato nella militanza politica. Ma quella battuta di Compagnone, diventato poi feroce anticomunista, funzionerà come un imprinting che lui stesso, Napolitano, finirà per ostentare come uno stemma araldico.
ottimo