Allargare o restringere le basi della liberaldemocrazia? È la domanda che attraversa come un fiume carsico la storia tutta del pensiero politico da quando i suoi teorici hanno preso a confrontarsi con il modello liberaldemocratico moderno, ovverosia a partire dalle sue prime evenienze nell’Ottocento.
Gli anni Venti del XX secolo, per esempio, furono caratterizzati, oltreoceano, da un interessante dibattito tra il filosofo politico John Dewey ed il giornalista Walter Lippman, intervenuti a riflettere sui caratteri della democrazia statunitense all’indomani del clima di disillusione e di crisi conseguito al fallimento di Versailles ed all’irrompere sulla scena dei conflitti razziali e di classe. Nei suoi due lavori su L’opinione pubblica (1922) e The Phantom Public (1925), il giornalista newyorkese Lippman aveva messo in evidenza come soltanto l’operazione di restringere le basi della partecipazione popolare al governo del paese avrebbe potuto riportare sulla giusta rotta tendenze particolaristiche ed irrazionalistiche che avevano contraddistinto la politica statunitense intorno e dopo alla Prima Guerra Mondiale. Mettendo in discussione il principio democratico della capacità del popolo di essere realmente in grado di distinguere il bene dal male, insomma, Lippman sosteneva che i cittadini nel loro complesso sono detentori soltanto di un accesso molto limitato alla conoscenza, mentre sarebbero gli “esperti” ad essere vocati a risolvere la complessità insita nel processo decisionale delle società pluraliste grazie ai propri più raffinati strumenti intellettuali. Il professore del Department of Philosophy della Columbia di New York John Dewey rispose allora al giornalista dell’Herald Tribune con il suo saggio Comunità e potere (1927) in cui Dewey stesso lodava l’opera di Lippman che gli parve una delle analisi più lucide sulla situazione della liberaldemocrazia contemporanea, eppure, nondimeno, secondo Dewey, proprio la spietata analisi di Lippman avrebbe dovuto condurre ad individuare – sulla scorta di Mill – quegli elementi che dovevano allargare e non già restringere le basi per una piena partecipazione del popolo alla vita pubblica, ponendo quindi l’accento su una democrazia pienamente coinvolgente e partecipativa. (1)
A riflettere sulla partecipazione popolare al governo pubblico con particolare pregnanza fu, probabilmente, per primo Platone, nella sua Repubblica, dialogo apparso a cavallo tra il V ed il IV sec. a.C., in cui apparve per la prima volta la celebre tesi dei “filosofi al potere”, da cui prese vita una rilettura che fa di Platone il primo teorico della teoria elitaria del potere politico e configura l’ateniese come autore ostile alla democrazia. C’è da dire che la Repubblica platonica traccia anzitutto una linea di continuità tra la riflessione filosofico-morale e quella filosofico-politica, sottolineando, tuttavia, come soltanto i filosofi ‘di mestiere’ possiedano appropriati arcana imperii, ovverosia strumenti interpretativi capaci di discernere il vero dal falso dal momento in cui essi si dedicano esclusivamente alla vita contemplativa (Hannah Arendt nel suo Vita Activa ne fornirà una rilettura) e quindi essendo gli unici uomini propriamente vocati al governo della città (una “città ideale” molto diversa da quella attuale in cui vige perfetta eguaglianza a partire dalla più tenera età e per tutta la durata della maturità sessuale umana, a tal proposito si rilegga il libro V della Repubblica platonica). (2) Il controllo del filosofo platonico è pertanto un controllo pervasivo, come hanno messo in luce i lettori novecenteschi dell’opera platonica come Eric Voegelin, proprio in nome di un binomio indissolubile ‘filosofia-verità’ di cui soltanto i filosofi contemplativi possono essere detentori. (3) Nella sua raccolta di scritti Capacità personale e democrazia sociale (2003), la filosofa del diritto della Law School di Chicago Martha Nussbaum ha tuttavia recentemente messo in evidenza la giustezza dell’idea platonica di una democrazia pienamente «informata ad un ideale di saggezza indipendentemente dal mutare delle maggioranze» ed ha messo in evidenza la necessità di continuare ad occuparsi dell’eterno dilemma ‘competenza-democraticità’. (4)
Uno strumento particolarmente prezioso che può aiutare a districarsi nel dibattito relativo alla qualità nella rappresentanza politica è rappresentato da un elegante volume recentemente pubblicato da parte di un giovane studioso di teoria politica milanese, Antonio Campati, dottore di ricerca in Istituzioni e politiche all’Università Cattolica di Milano, dal titolo I migliori al potere. La qualità nella rappresentanza politica, che ripercorre attraverso un dettagliato e puntuale excursus storico e teorico-politico i principali approcci che lungo il corso dei secoli (con particolare riguardo per lo scenario del nostro paese, anche nella più stretta contemporaneità) si siano interrogati su questo binomio qualità-quantità nella politica democratica (rappresentativa), un binomio capace ora di allargarsi e ora di restringersi come una «fune elastica» (p. 231) a cui le nostre liberaldemocrazie contemporanee si trovano, nonostante molteplici tentativi di strappo, tuttora appese. Antonio Campati, in particolare, si muove lungo il sottile crinale che separa la storia del pensiero politico dalla scienza politica, quello che negli Stati Uniti è pienamente legittimato come lo spazio della “teoria politica” tout-court e che in Italia è senz’altro un sentiero meno battuto perché da noi sono sempre stati piuttosto rigidi gli steccati disciplinari, ma sentiero, quello appunto teorico-politico, che pure ha in Italia antecedenti illustri come Gaetano Mosca e teorici di primo piano ancora nella più stretta attualità (si pensi, ad esempio, a Lorenzo Ornaghi o Vittorio Emanuele Parsi nella tradizione scientifica cattolica milanese).
Come ben mette in evidenza Campati, la necessità della qualità, o meglio “della virtù”, era già venuta alla luce con il Principe di Machiavelli cinquecento anni fa, ma forse veniva applicata nel contesto del fiorentino ad un modello politico-istituzionale addirittura più lontano da quello dei nostri giorni rispetto a quello che pure, ben prima di Machiavelli, aveva vissuto Platone nel sistema delle poleis in disfacimento alla fine del V secolo a.C. In ogni caso, l’intera opera machiavelliana rappresenta un lungo elenco di “qualità” per essere buoni principi sia nel caso dei principati ereditari sia nel caso di estensione degli stessi o di acquisizioni di nuovi territori (cfr. p. 138).
Nel contesto britannico settecentesco, già invece particolarmente avanzato come modello costituzionale-avversariale, sarà poi un intellettuale engagé e politico whig (anche se particolarmente “conservatore” soprattutto sul piano internazionale), come Edmund Burke, nel suo Discorso agli Elettori di Bristol, a disancorare la politica rappresentativa dal vincolo di mandato in nome della libertà di pensiero, di parola e di azione del parlamentare come rappresentante dell’intero corpo nazionale e quindi rispetto alle indicazioni lui imposte eventualmente da corporazioni o territori locali. Il divieto del mandato imperativo entrò così prepotentemente nella costituzione (almeno quella “formale”, come la definiva Mortati) delle nostre liberaldemocrazie, che – come mise in luce Norberto Bobbio – soltanto accettando che il mandato sia pienamente «libero», possiamo procedere ad interrogarci su eventuali «alternative» alla democrazia rappresentativa e addirittura su possibilità di una «revoca di mandato» (da cui Bobbio stesso mise fermamente in guardia) ai rappresentanti popolari (cfr. p. 187).
Autore particolarmente caro a Campati (per quanto preso in esame all’insegna dell’obiettività e senza manifeste partigianerie) è il già Ministro del Regno italiano Ruggiero Bonghi, esponente di spicco della Destra storica prima, durante e dopo l’Unità d’Italia, che si interrogava su chi potesse tuttavia accedere con pieno diritto alla carica di parlamentare, discostandosi da visioni liberali più estensive a lui coeve come quella di Massimo D’Azeglio e ritenendo che soltanto i sudditi più illustri potessero legittimamente concorrere all’elezione alla carica di deputato a seconda della «proporzione di influenza» che ogni professione esercitasse nel Paese, ovverosia consentendo espressamente che ad occuparsi di politica fossero soltanto medici, avvocati, professori universitari, ovverosia coloro che, avendo già particolari finanze a disposizione e prestigio sociale, potessero ragionevolmente non «campare» di politica ma soltanto «occuparsene» per il bene di tutti (cfr. pp. 114-115). Un’interessante analisi, insomma, quella di Bonghi, anticipatrice lungo il filone liberale-borghese classico della teoria delle élite nel suo classico trinomio Pareto-Mosca-Michels, ma che pure – come si preavvertiva – a dire di Campati «è una riflessione da adottare solo in parte perché non fa i conti in maniera completa con le procedure democratiche» (p. 180).
Tra le pagine del libro riaffiorano anche altri iati cari alla riflessione politico-normativa moderna come quello tra politica e amministrazione, caro soprattutto ai teorici tedeschi come Otto Hintze o Max Weber, e quello, per così dire “originario” di tutti i dissidi, tra democrazia e rappresentanza, caro soprattutto invece agli autori francesi come Rousseau, Sieyès, Constant. Campati affronta, per esempio, la lezione weberiana della Politica come professione (1919), un saggio che si è concentrato puntualmente sulle qualità del leader e su quelle del personale burocratico-amministrativo cui spetterebbe solo il compito di «amministrare» e non già quello di «lottare», non, quindi, quello di scendere nell’agone, quanto piuttosto quello di tenersi il più possibile equidistante all’interno dello «spazio pubblico» (cfr. p. 131).
Per dirimere il nodo ‘democrazia-rappresentanza’, invece, a Campati pare utile la riflessione della politologa della Columbia Nadia Urbinati che, nel suo recente Democrazia rappresentativa. Sovranità e controllo dei poteri (2010), è intervenuta sulla distanza etimologica tra la parola greca democrazia, priva di un equivalente latino e che significa “governo del popolo” e quella rappresentanza, lemma invece latino e senza un equivalente greco, un termine, quest’ultimo, che implica invece l’azione delegata da parte di qualcuno per conto di qualcun altro (cfr. p. 65).
A soffermarsi sui diversi significati e «ripensamenti» (termine importante, quest’ultimo, amato anche al John Rawls della Teoria della giustizia) che il termine democrazia è venuto ad assumere nella riflessione del pensiero politico moderno e contemporaneo, non si sottrae Campati, riportando la classica distinzione tra le democrazie “pluraliste” e “sostanziali” care a teorici come Hans Kelsen e Robert A. Dahl e la democrazia “procedurale” di Joseph Schumpeter secondo cui in definitiva la “forma” si fa anche “sostanza” e per cui occorrono rigide regole per disciplinare la «competizione» per il governo come esercizio del potere politico e la «competizione tra più capi e leadership» (p. 158).
Non può mancare la riflessione sui soggetti politici che, soprattutto nel continente europeo dal secondo Dopoguerra ad oggi, hanno maggiormente avocato a sé la pretesa rappresentativa e di intermediazione, ovverosia la riflessione sui partiti politici che in Italia trova le sue radici addirittura negli anni della Destra storica con la teoresi minghettiana de I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione (1881). (5)
In particolare, Campati si ritrova oggi nella spiegazione di Piero Ignazi secondo cui anche se i partiti politici contemporanei stanno giocoforza assistendo ad una progressiva erosione della loro sempre più debole legittimità, nondimeno essi rappresentano ancora un argine contro le derive personalistiche ed autocratiche mercé la loro capacità di selezionare una classe dirigente responsabilizzandola all’azione (cfr. pp. 18 e 79).
La conclusione del percorso descrittivo intentato da Antonio Campati non può prescindere da un pieno riconoscimento – quello che gli statunitensi chiamerebbero appraisal – insieme dei mali e delle esigenze delle democrazie contemporanee chiamate a rappresentare interessi diversi e configgenti in quest’epoca della ‘disintermediazione’ che rende viepiù volatili i voti e quindi un’adeguata rappresentazione istituzionale dei valori sociali, come messo in evidenza da Bernard Manin secondo cui le democrazie pluraliste contemporanee si sono esponenzialmente allargate ma non sono divenute più profonde: nelle nostre democrazie regna, insomma, il disincanto del cittadino perché nonostante vi sia ancora un legame di una qualche natura tra delegante e delegato, nondimeno l’accountability è in vero divenuta sempre più sporadica e superficiale (di qui le sempre più pressanti – anche giustamente – richieste per una democrazia “informata”, “iterativa”, “deliberativa” o addirittura rousseauvianamente “diretta”).
Secondo Campati, invece, l’orizzonte della rappresentanza deve rimanere un orizzonte necessario per il filtro e la sedimentazione della processualità politica e la rappresentanza va tuttora declinata all’insegna dell’endiadi ‘passione politica-qualità’. Forse, a questo bel libro, andrebbe aggiunto però anche l’elemento dell’educazione, così caro ad autori liberali come Adam Smith e John Stuart Mill, ma anche espressamente «sfida» ‘principe’ per le democrazie contemporanee per il Robert Dahl di On Democracy (1998): solo con la formazione di cittadini pienamente desiderosi di prendere parte in prima persona e come cittadini responsabili alla vita pubblica, infatti, allora anche i rappresentanti che agiscono il potere “in nome” della sovranità popolare potranno essere chiamati a rispondere più puntualmente dei raggiungimenti (o raggiungimenti mancati) del loro mandato durante l’esercizio del potere politico. (6)
Note:
(1) Raffaella Baritono, Dewey, in Raffaella Gherardi (a cura di), La politica e gli Stati. Problemi e figure del pensiero occidentale, Carocci, Roma 2011.
(2) Giovanni Giorgini, L’instaurazione dell’ordine nuovo. Un’indagine sulla realizzabilità della città perfetta nella Repubblica di Platone, in Giulio Maria Chiodi e Roberto Gatti (a cura di), La filosofia politica di Platone, Angeli, Milano 2008.
(3) Eric Voegelin, The Collected Works of Eric Voegelin, Vol. 16, Order and History and Vol. III Plato and Aristotle, Dante Germino (ed.), University of Missouri Press, Columbia 2000.
(4) Martha Nussbaum, Capacità personale e democrazia sociale, Gianfrancesco Zanetti (a cura di), Diabasis, Reggio Emilia 2003, pp. 13-14.
(5) Marco Minghetti, Scritti politici, Raffaella Gherardi (a cura di), Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1986; cfr. anche Raffaella Gherardi, Marco Minghetti: il liberalismo e l’Europa, Morcelliana, Brescia 2015.
(6) Robert Dahl, Sulla democrazia, Laterza, Roma-Bari 2006; cfr. anche Robert Dahl, Intervista sul pluralismo, Giancarlo Bosetti (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2002.
Foto di copertina: Ambrogio Lorenzetti, Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo, Sala dei Nove, Palazzo Pubblico di Siena (particolare)
Titolo: I migliori al potere. La qualità nella rappresentanza politica
Autore: Antonio Campati
Editore: Rubbettino
Pagine: 262
Prezzo: 16 €
Anno di pubblicazione: 2016