E se vincesse Romney? Diciamolo con chiarezza: a pochi giorni dal voto l’ipotesi sembra più lontana di quanto non dicano i sondaggi nazionali. In alcuni Stati chiave per la vittoria Obama mantiene un vantaggio solido e la reazione all’uragano Sandy è molto piaciuta. Il governatore del New Jersey, il repubblicano Christie, si è prodotto in grandi elogi. Infine Sandy è la dimostrazione provata che anche agli americani servono servizi, vigili del fuoco pronti a lavorare 24 ore di seguito e un’agenzia federale per i disastri, la FEMA, che Romney elencava, fino a domenica scorsa, tra quelle da chiudere.
Nei modelli statistici sui sondaggi il miliardario venture capitalist ha ancora un quarto delle possibilità di farcela. Domandarsi “E se vince Romney?” ha quindi qualche senso. Per preoccuparsi o per tirare un sospiro di sollievo la mattina del 7 novembre.
Il punto d’attacco di una presidenza repubblicana sarebbe l’economia. Dal 2010, con la rivolta del Tea Party, e poi nell’estate 2011 con lo scontro sul deficit tra Congresso e presidenza, la grande differenza tra i repubblicani e i democratici è l’idea del ruolo dello Stato come regolatore ed eventuale attore economico – in qualsiasi forma.
Cosa farebbe Romney? Non lo sappiamo. Oggi nell’apparato repubblicano sembra averla vinta una fazione più rigorosa. Che manterrebbe le tasse come sono – riducendole ancora se possibile e semplificando la burocrazia – ma taglierebbe in maniera pesante i programmi di welfare. Tra i campioni di questo rigore associato al culto dell’individualismo e a risentimento nei confronti dei percettori di aiuti pubblici c’è il compagno di strada di Romney, il candidato vice Paul Ryan. Una scelta che ha rassicurato la base e restituito il proscenio alla parte ideologizzata dei repubblicani.
“Per la prima volta gli americani hanno un’idea chiara di chi sia Ryan e, più importante, di cosa la sua scelta ci dica dell’agenda di Romney. – ha scritto Luigi Zingales, professore alla Graduate School of Business di Chicago sul City Journal – Ryan ha avvertito più di altri sui pericoli della dinamica fiscale degli Usa. Certo, con tassi di interesse negativi sul debito pubblico è facile rigettare queste preoccupazioni – e molti economisti, tra cui Paul Krugman, hanno piuttosto invitato il governo federale a spendere di più fin quando il denaro resta poco caro. Questi consiglieri mi ricordano degli economisti di sinistra che davano consigli simili alla spendacciona Italia fino al 2009. Sappiamo cosa è successo laggiù: il mercato ha smesso di dormire di fronte al disastro fiscale italiano e oggi neppure tagli draconiani sembrano abbastanza per rimettere le cose a posto. Quel che è successo in Italia può succedere qui”.
Ryan e le sue idee potrebbero però salvare gli Usa: “La sua visione di un governo limitato ed efficiente che garantisce un terreno di gioco uguale per tutti ma non interferisce con la competizione è antitetica all’entusiasmo di Obama per le politiche industriali”. Meno regole, quindi, e più concorrenza internazionale. Quando sentono Romney parlare di Cina, però,difficilmente i colletti blu dell’Ohio intendono le cose come le spiega Zingales. Comunque sia, ecco una prima osservazione possibile: tagli e niente politiche economiche pubbliche positive.
Dove è possibile operare tagli e diminuire le regole? Esempi si trovano facilmente nel famoso video in cui Mitt Romney parla del 47% degli americani che non lo voteranno mai. Esistono anche articoli con numeri. “Tra il 1980 e il 1992 il 3% degli americani riceveva benefici di disabilità dal governo. Oggi sono il 6%”. Il loro numero è cresciuto in maniera esponenziale a partire dal 2009, spiegavano Phil Gramm e Mike Solon sul Wall Street Journal il 18 ottobre scorso. Ex senatore del Texas, consulente della campagna McCain cacciato per una battuta sbagliata durante la crisi (“Siamo diventati una nazione di piagnoni”), il primo, consulente di multinazionali a Washington il secondo. “Durante gli ultimi quattro anni l’amministrazione Obama ha fatto crescere il numero di persone che ricevono aiuti alimentari (i food stamps) di 18,5 milioni.
Hanno provato costoro lo stesso livello disagio dovuto alla situazione economica provato dal resto della popolazione?” scrivono ancora Gramm e Solon. Il loro è un articolo che spiega che Obama ha comprato milioni di voti. Se non fosse che i poveri non votano sarebbe un argomento. La soluzione? Fare soffrire a tutti e a ciascuno gli effetti della crisi. Smetterla di aiutare questo popolo di persone con diritti. I diritti sono stati uno dei terreni dello scontro. I repubblicani sono per tagliarli anche perché – questo è vero – una parte consistente di coloro che riceve una parte degli aiuti pubblici sono persone che non votano il partito di Romney. Ma ci sono anche veterani e anziani che invece tendono a votare repubblicano.
Negando che la società americana sia sempre più diseguale, Kevin Hasset e Haparna Matour dell’American Enterprise Institute scrivono ancora sul Wall Street Journal: “Le misurazioni delle diseguaglianze le calcolano prima delle tasse e del welfare”. I due sostengono che le misure da prendere siano piuttosto relative ai consumi e che questi sono cresciuti in maniera simile per tutti gli scaglioni di reddito. La rete di welfare dunque funziona e non è vero che la finanziarizzazione dell’economia ha prodotto disparità. I loro calcoli si fermano al pre-2009 e non tengono conto dell’indebitamento. Negli ultimi 20 anni pre crisi tutti gli americani avevano consumato. Non tutti, però, potevano.
Infine le regole, un esempio breve come il titolo di un libro: Regulating to Disaster, how green job policies are damaging America’s economy di Diana Furchtgott-Roth del Manhattan Institute ed ex membro dell’amministrazione di Bush senior. Il libro spiega come i “green jobs” siano un’invenzione e le regole imposte da Obama non siano altro che un modo per scegliere vincitori e vinti aggirando la competizione e il mercato. Vincitori e perdenti, nell’economia, come nella società, vanno invece lasciati al loro destino.
Le idee dei pensatori non sono vengono mai applicate dalla politica in maniera pedissequa. Ci sono compromessi, elezioni e consensi da coltivare. Anche tra i perdenti. Ronald Reagan fece compromessi con i democratici. Ma era un tale campione per il suo partito che poteva gestire i dissensi interni. Mitt Romney non ha la stessa forza politica. E il suo partito, in questo momento, è tra i più ideologizzati che abbiano serie aspirazioni di governo in un Paese occidentale. Che succederebbe di preciso se vincesse Mitt Romney non lo sappiamo. Speriamo anche di non scoprirlo mai.