Il Jobs Act targato Renzi-Poletti, secondo molti osservatori, contiene una forte dose di sfida al sindacato. Può darsi che ci sia del vero in tale lettura, anche perché è impensabile che una riforma «di sistema» del mercato del lavoro non generi una spinta a mettere in discussione ruoli e posizioni consolidate all’interno del mondo sindacale. Ma ogni sfida, si sa, nasconde delle opportunità. Tutto sta nel valutarle e nel reagire in maniera virtuosa. Banalizzando un po’, le sfide ai sindacati (e agli altri interessi organizzati) sono due: una di metodo e una di merito.
La prima è appunto di metodo: basta con gli estenuanti riti della concertazione e dei veti incrociati delle parti sociali. La politica deve saper ascoltare ma anche decidere, assumendo in pieno la responsabilità delle proprie scelte di fronte al paese. Intendiamoci: la concertazione ha dato ottima prova di sé in molti frangenti della nostra storia: per esempio quando, durante il travagliato tramonto dalla prima Repubblica, le parti sociali sono state chiamate a un’assunzione di responsabilità in tema di stabilizzazione finanziaria e politica dei redditi. Nondimeno, nel corso di quella transizione infinita del nostro sistema politico-istituzionale che è stata ribattezzata seconda Repubblica, la concertazione, da strumento per la condivisione delle scelte, ha finito per trasformarsi in un tabù ideologico e in un fattore di stallo.
Negli ultimi due decenni, la politica non si è mai interrogata laicamente sui benefici e sui limiti della concertazione, elevata da alcuni – soprattutto a sinistra – a surrogato del processo decisionale democratico in seguito alla crisi dei partiti tradizionali. Come mi è capitato di sostenere proprio su Mondoperaio nel dicembre 1999, il punto cruciale non è dividersi tra fautori e detrattori della concertazione, ma capire rispetto a quali materie o in quale contesto politico-istituzionale essa può rivelarsi più efficace di altri processi decisionali, e rispetto a cosa o dove avviene il contrario. Questo dilemma è stato ignorato troppo a lungo. Il nuovo corso del Pd si è limitato a dire che il Re era nudo. E che si doveva cambiare verso proprio a partire dal metodo con cui politica e interessi organizzati si confrontano tra di loro in merito alle politiche pubbliche.
Il metodo della concertazione soffre in due forme diverse di quel fenomeno che gli economisti definiscono free-riding, in virtù del quale attori razionali non contribuiscono volontariamente a un’attività dei cui benefici godranno comunque. Esiste un free-riding tra gruppi (per cui ogni gruppo cerca di scaricare sugli altri i costi delle scelte pubbliche), e un free-riding all’interno dei gruppi (per cui quei gruppi che non hanno i necessari incentivi selettivi per auto-organizzarsi, come i disoccupati o le giovani generazioni, sono sotto-rappresentati ai tavoli della concertazione).
Di conseguenza, la concertazione appare più adatta ad affrontare problemi che investono da vicino le categorie con potere negoziale (come la politica dei redditi), piuttosto che materie di carattere generale come la riforma del welfare. Solo nel primo caso, infatti, siamo di fronte a un processo decisionale che internalizza i costi delle scelte. L’Italia della seconda Repubblica conferma questo schema: la concertazione ha funzionato bene nella lotta all’inflazione, ma ha ostacolato una riforma del welfare che tenesse conto degli interessi delle generazioni future e degli esclusi dal nostro sistema di protezione sociale.
Non solo. La concertazione funziona meglio quando la politica sa assumersi la responsabilità di decidere. Il caso dell’Olanda negli anni ‘90 è paradigmatico. I governi olandesi di quel periodo hanno attuato incisive riforme del welfare salvaguardando il confronto con le parti sociali proprio perché, quando si è rivelato necessario, hanno saputo mostrare quella che i politologi definiscono «ombra della gerarchia»: hanno fatto capire agli altri attori della concertazione che il governo aveva una forte volontà politica e sarebbe intervenuto in ogni caso. Ciò è servito a contenere il conflitto distributivo e a limitare gli egoismi corporativi. Senza l’ombra della gerarchia, la riforma del welfare olandese sarebbe rimasta in ostaggio degli interessi organizzati, che avevano a lungo usato il loro status semipubblico e il sostegno degli aderenti come arma di interdizione nelle negoziazioni. Per dirla con Jelle Visser e Anton Hemerijck, «una politica di concertazione funzionante può, paradossalmente, richiedere uno Stato forte, capace, se necessario, di disapprovare».
In Italia, per una sorta di eterogenesi dei fini, proprio i grandi sacerdoti della concertazione hanno finito col minarne il funzionamento. Ogni volta che un partito o un leader politico dichiarava che nessuna decisione poteva essere presa senza un accordo preventivo con le parti sociali – trasformando così la concertazione da mezzo in fine – il meccanismo finiva per incepparsi. Per la stessa eterogenesi dei fini, allora, la scossa renziana potrebbe riattivare il confronto con le parti sociali su basi nuove. In fondo questo confronto non si è mai interrotto nella quotidianità dell’azione di governo. Sono solo cambiati i metodi (meno liturgie e più incontri tecnici in cui si soppesano i pro e i contro delle opzioni sul tappeto) e la cornice politica (segnata dalla novità di una leadership determinata a investire il proprio capitale politico su scelte chiare). Superato lo shock del cambiamento, è auspicabile che tutti ripenseranno il proprio ruolo all’interno di questo nuovo schema di gioco, volto a favorire un confronto che non sia da freno alle decisioni che la politica è poi chiamata a prendere.
La seconda sfida del Jobs Act è di merito. Una critica ricorrente recita più o meno così: dopo decenni in cui si sono susseguite svariate riforme del lavoro, c’era davvero bisogno di un nuovo intervento a tutto campo? In verità, la riforma del lavoro Renzi-Poletti ribalta il paradigma su cui si sono basati quasi tutti gli interventi precedenti, che si sono mossi all’interno di un’ondata di riforme che ha coinvolto molti paesi Ocse a partire dagli anni ‘90: l’ondata della cosiddetta «flessibilità al margine», per cui si facilitava il ricorso a forme contrattuali atipiche lasciando immutata la disciplina del lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Riforme di questo tipo hanno sì aumentato i margini di flessibilità organizzativa e produttiva a disposizione delle imprese, ma hanno finito per scaricarne i costi soltanto su una fascia di lavoratori, a partire dalle generazioni più giovani, aumentando il dualismo e il divario di opportunità tra i lavoratori a tempo indeterminato e tutti gli altri. La riforma Monti-Fornero del 2012 aveva cercato di superare questo approccio, spostando l’enfasi dalla protezione del posto in azienda alla protezione del lavoratore sul mercato. Ma per una serie di timidezze politiche e di complicazioni normative aveva finito per fermarsi a metà del guado.
Il Jobs Act aggredisce il dualismo del nostro mercato del lavoro, anche se limitatamente alle nuove assunzioni, riducendo i costi di licenziamento con l’obiettivo di ridare centralità al tempo indeterminato. È la logica delle tutele crescenti. La tutela risarcitoria in caso di licenziamento ingiustificato aumenta gradualmente con l’anzianità di servizio presso lo stesso datore di lavoro (2 mesi per ogni anno d’anzianità, con un minimo di 4 e un massimo di 24). Rimane, ovviamente, la tutela reintegratoria per i licenziamenti discriminatori o per alcune fattispecie circoscritte di licenziamenti disciplinari. La motivazione per introdurre costi di separazione che risultino prevedibili ex ante e crescano nel tempo è duplice. Da una parte, come in tutti gli altri rapporti interpersonali, anche in quelli di lavoro la qualità (o meglio la produttività) dell’incontro tra datore e dipendente può essere conosciuta e valutata soltanto col passare del tempo. Dall’altra, è giusto che un dipendente che ha investito il proprio capitale umano e il proprio saper fare nella stessa azienda per molti anni riceva un risarcimento maggiore in caso di licenziamento.
Alcuni obiettano che non ha senso parlare di tutele crescenti, perché la tutela reale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non rientra mai in gioco, neanche dopo un periodo transitorio di tre o più anni d’anzianità di servizio, come era invece previsto da altre ipotesi di riforma. Questa critica, tuttavia, tradisce un retaggio culturale per cui l’unica forma di tutela concepibile per il lavoratore è quella reintegratoria: retaggio che mal si sposa con molti ordinamenti stranieri o con la nostra giurisprudenza costituzionale. Non solo. Se la tutela reale fosse tornata a scattare dopo un numero predeterminato di anni sarebbe stato meglio parlare di tutele «a salti» piuttosto che crescenti, con tutte le distorsioni da effetto soglia che un tale contratto si sarebbe portato con sé. Sta proprio in questa cambio di passo culturale il cuore della sfida di merito del Jobs Act. Si torna a mettere al centro del mercato del lavoro il tempo indeterminato, riducendone i costi di separazione e gli oneri impropri di carattere normativo, dopo anni in cui partiti e sindacati non hanno saputo dare risposte ai tanti giovani lavoratori intrappolati nella flessibilità al margine.
Proprio per la natura economica del disegno sottostante alle tutele crescenti il suo successo non può essere valutato sulla carta. Solo se i flussi di nuove assunzioni saranno in misura crescente a tempo indeterminato la sfida avrà colto nel segno, riducendo il dualismo e allargando le opportunità. Solo se ci sarà un effetto «sostituzione» a favore del tempo indeterminato nella fase d’ingresso nel mercato del lavoro sempre più lavoratori (soprattutto giovani) potranno accedere anticipatamente a tutele e garanzie in grado di permettergli d’investire sul proprio capitale umano, di accendere un mutuo, di essere coperti da rischi imprevisti. Altrimenti, si saranno soltanto ridotti i costi di licenziamento per le imprese. Il tempo (e, speriamo, banche dati analizzate con tecniche statistiche alla frontiera della ricerca scientifica) ci daranno il loro responso.
La sfida di merito del Jobs Act, in ogni caso, non si esaurisce nel contratto a tutele crescenti. Il rafforzamento della protezione dei lavoratori sul mercato passa anche dal potenziamento dei servizi per l’impiego e dall’aumento nell’estensione e nella durata dei sussidi di disoccupazione (la nuova Aspi e l’assegno di disoccupazione sottoposto alla prova dei mezzi), rafforzandone allo stesso tempo la condizionalità. L’obiettivo è quello di creare una nuova (e più efficiente) rete di politiche attive, incentrata sul ruolo di regolazione, coordinamento e controllo di un’agenzia nazionale, ma valorizzando allo stesso tempo il ruolo di soggetti privati – anche no profit o legati alla bilateralità – in un’ottica di quasi-mercato.
Anche qui la sfida non sarà vinta o persa sulla carta. Tutto si giocherà sulla cornice istituzionale e sulla credibilità degli attori che dovranno garantire l’efficacia dei nuovi servizi. E anche qui la sfida al sindacato riguarda da vicino il suo ruolo nel nuovo mercato del lavoro. Per esempio in Olanda, dove il sistema pubblico fa da filtro, accogliendo i disoccupati, assegnandoli a una categoria di rischio e fornendogli un voucher di ricollocazione, la maggioranza dei soggetti privati accreditati per fornire i servizi di ricollocazione sono no profit, gestiti anche dai sindacati. Non si vede perché un meccanismo del genere non possa essere attivato anche in Italia.
Che risposta si stanno attrezzando a dare i sindacati di fronte alla duplice sfida, di metodo e di merito, lanciata dal Jobs Act? Per ora, due strategie sembrano compiutamente in campo. Da una parte una risposta «movimentista», come quella della Coalizione Sociale promossa dalla Fiom per aggregare altre forme associative al di fuori del mondo del lavoro, con l’ambizione di dare una rappresentanza politica – anche se non partitica per il momento – al disagio sociale. È l’idea del sindacato che fa politica, auto-ergendosi a interprete dell’interesse generale piuttosto che di mero rappresentante degli interessi dei suoi iscritti. Una sorta di prosecuzione del «pansindacalismo» con altri mezzi: per la serie “se non riconosci il mio ruolo di interlocutore necessario dei pubblici poteri di fronte a qualsivoglia scelta pubblica, io provo a riprendermi quel ruolo nella piazza”. Con il rischio, va da sé, che l’autunno sindacale – per dirla con Walter Tobagi – sia rimpiazzato dal «sindacato dell’autunno», avvitato in una spirale di sterile agitazionismo, come potrebbe far pensare un sindacato che annuncia «lotte crescenti» all’indomani di uno sciopero generale.
Dall’altra parte è in campo una risposta «contrattualista», che punta a ridare slancio al sindacato nei luoghi di lavoro come interprete degli interessi dei lavoratori – sia pure inseriti in un’ottica che tenga conto dell’interesse generale – nei posti della rappresentanza e della contrattazione collettiva e aziendale. Un sindacato che fa il suo mestiere. E che svolge una funzione generale proprio perché sa intercettare e rappresentare al meglio le istanze della propria base associativa. Questo fronte è senz’altro trasversale, ma ci sono pochi dubbi che la Cisl sia il sindacato più in linea con questo approccio politico-culturale. E che non a caso sia il sindacato che ha recepito in maniera più aperta, sia pure avanzando forti critiche di merito su alcune scelte operate dal Jobs Act, la sfida di fondo volta a ridare centralità al contratto a tempo indeterminato.
Detta così, sembra quasi una riproposizione del perenne scontro tra correnti massimaliste e riformiste all’interno del movimento sindacale. Ma c’è di più. È un confronto su cui si gioca non solo il futuro del sindacato, ma l’evoluzione stessa delle relazioni industriali nel nostro paese. Viene da chiedersi se questo processo verrebbe ostacolato o agevolato da una cornice legislativa sulle regole della rappresentanza e sul rapporto tra contrattazione collettiva e contrattazione di secondo livello. La domanda è aperta. Ma anche l’anima contrattualista del sindacato, culturalmente più allergica a un intervento legislativo in un terreno che viene visto come il presidio dell’autonomia delle parti sociali, dovrebbe chiedersi se – fatti salvi gli accordi interconfederali raggiunti su questi temi – non potrebbe essa stessa giovarsi di una cornice unitaria e istituzionalizzata che definisca ovunque le regole della rappresentanza e della contrattazione aziendale. In ogni caso, questa è una domanda a cui la politica, una volta terminato il cantiere del Jobs Act, dovrà provare a dare una risposta.
L’articolo è stato pubblicato su Mondoperaio (n.4 / aprile 2015)