Europa ma anche molta Italia nelle parole che Giorgio Napolitano ha inviato a noi di Reset (ripresa da «Repubblica» il 29 dicembre) e che chiamano in causa il passato del riformismo italiano ma soprattutto le scelte per il futuro prossimo. Il presidente con una storia da riformista tutta dentro la sinistra (il Pci, i Ds, il Pd) indica una strada nel recupero della cultura liberale italiana e nel pensiero di Luigi Einaudi. Come è stato ricevuto l’invito di Napolitano nel partito di Bersani? L’abbiamo chiesto a due esponenti autorevoli, che rappresentano anime diverse nel Pd.
Enrico Morando, dirigente liberal dei democratici, è convinto che lo scarto ideale e culturale compiuto da Napolitano con la sua missiva è decisivo. «La lettera è il compimento di una lunga elaborazione del liberalsocialismo a sinistra. Un tempo, anche tra i miglioristi del Pci, si pensava alla cultura liberalsocialista come a un voi di fronte a un noi, “noi” siamo socialdemocratici nel Pci e “voi” liberalsocialisti. Ora il presidente esprime un “noi”, si sente parte dell’ideologia liberalsocialista e invita i riformisti a riscoprirla». È la vittoria postuma di Einaudi, il presidente-economista del quale nel 2011 ricorre il cinquantenario della morte.
Ma il richiamo al liberalismo del presidente non è piaciuto a tutti nel Partito democratico. Massimo D’Antoni, economista e penna dell’«Unità», dal suo profilo Facebook critica con vigore chi parla di «naufragio culturale della sinistra» e chi «è stato trent’anni nel Pci e pensava di essere nel Pli». Morando sorride: «Mi riconosco in quel ritratto…».
«Il Pci è sempre stato succube di Einaudi!». Laura Pennacchi, economista ed ex sottosegretario del primo governo Prodi, non è convinta che il recupero del liberalismo sia la strada giusta per la sinistra italiana. «Non c’è bisogno di riscoprire Einaudi per chi viene dal Pci che era completamente succube allo spirito einaudiano. Non c’è stato un pensiero economico originale del partito comunista. Keynes l’ha valutato più la Dc dei comunisti». Se c’è qualcosa da riscoprire è proprio il pensiero dell’economista inglese unito al New Deal di Roosvelt che a sinistra in Italia non è stato mai capito né apprezzato. «Pure negli anni Settanta – ricorda Pennacchi – tra i comunisti italiani l’impresa pubblica non piaceva, lasciata in mano alla Dc, secondo il vecchio adagio che lo Stato non si riforma ma si abbatte. Lo stesso Welfare State – che giustamente Napolitano difende come grande conquista – nella cultura comunista era avversato. Mi ricordo testi di autorevoli comunisti che negli anni Settanta criticavano lo stato sociale».
Ma non è che Napolitano stia riscoprendo la Terza Via di Blair quando invita a tenere insieme solidarietà sociale e mercato? «Quando il presidente parla di competizione e al tempo stesso di giustizia sociale – risponde Morando – esprime un idea di fondo dell’intuizione di Tony Blair. Il Labour Party è quello che è andato più avanti nel tentativo di fondere liberalismo e socialdemocrazia. E la sinistra riformista italiana ha talmente tardato a fare i conti col liberalismo di Einaudi che ancora si vedono i segni ed è tempo di accelerare il passo. E devo riconoscere che questo noi è ancora sottorappresentato nel Pd e anche perché noi siamo stati troppo timidi».
E la Pennacchi? «Non vorrei tornasse una soggezione al tardo blairismo e al vetero liberismo. Sono convinta che la Terza Via ci ha portato al disastro e quindi sono contraria. Io credo nell’attualità di Keynes e non ha nulla a che vedere con Blair».
Pennacchi però apprezza la critica del presidente al “welfare all’italiana” che ha matrice assistenziale e nasce nel Fascismo, con il suo portato di clientelismo e particolarismo. «E però, se bisogna fare i conti con la competizione globale, come chiede il presidente, credo che la globalizzazione deve essere “intelligente” secondo la definizione di Dani Rodrik, per esempio con il controllo dei movimenti dei capitali. Se la globalizzazione va in quella direzione va bene. Se altrimenti si va solo verso la autoregolamentazione del mercato allora non va bene. Affidare previdenza ai mercati è una follia che ha portato alle catastrofi recenti che sappiamo».
Eppure, c’è il rischio di tirare un po’ troppo per la giacca le parole del presidente. Per esempio, su «Repubblica» del 20 dicembre Miguel Gotor si dedica alla metà dimenticata della lettera di Napolitano, quella che si rivolge all’Europa e alle sue élite in crisi. «Il presidente parla di uno spettro più ampio di temi, ma a me interessa soprattutto che arrivi questo messaggio al Pd per favorire un’innovazione dell’ideologia di fondo del partito. Sappiamo che il Pd non può essere il partito liberalsocialista, ma sappiamo anche che è il partito in cui i liberalsocialisti italiani dovrebbero stare col piglio da protagonisti e non sempre ci riescono. In una parte del Pd c’è ancora molta strada da fare con le cose di cui parla Napolitano. Quella di Napolitano è una sollecitazione molto robusta sul piano culturale».
Siamo vittime di carenza di socialismo non di liberalismo, ribatte Pennacchi. «Più che di Einaudi, nel riformismo attuale sento la mancanza di dei Lombardi e dei Basso, dei Giolitti e di Ernesto Rossi e Spinelli, insomma il filone Giustizia e Libertà che tanto è stato osteggiato dal Pci. Quella è una cultura economica e politica molto più interessante».