Articolo uscito su Repubblica il 21 settembre.
Avvicinandosi la fine della legislatura è il caso di interrogarsi sulla diffusa convinzione che la democrazia italiana non funzioni tanto bene. In effetti, vista da lontano, è un sistema che produce governi instabili oppure leader stravaganti. L’Ulivo si presentava bene, poi bastava qualche nostalgico della vecchia sinistra per farlo saltare, più di una volta. Il centrodestra metteva ripetutamente al governo l’amicone di Putin, prometteva un sacco di autostrade e meno tasse, come se fossero stati gli anni Sessanta; e i voti arrivavano. Se poi, una volta nei guai più fitti, si affacciavano sulla scena un presidente della Repubblica capace di salvare la situazione, un abile primo ministro e un terzo italiano di valore a guidare nella tempesta la Banca centrale europea, si sapeva anche che costoro non erano il prodotto del voto popolare. Il sistema ha un guasto che non è dunque etnico, ma politico. Ecco perché si aggravano i sospetti sulla democrazia italiana, anche a guardarla da vicino. Si dice: dipende dal sistema elettorale che è una porcheria da eliminare, ma anch’esso è un prodotto del sistema politico, che lo ha generato e che non è capace di cambiarlo. Si insinua, nel subconscio, la tentazione di pensare che questa democrazia funzioni così male che sarebbe preferibile sospendere le elezioni, come per esorcizzare una fatale legge di Murphy: «Se può andare male, lo farà».
Ma non occorre spingersi tanto in là nella disperazione. Quella italiana non è l’unica democrazia a presentare risultati «indesiderabili». La disoccupazione e la paura della povertà premono dovunque e producono un vento favorevole alle ricette di autodifesa più semplici, incentivano retoriche del miracolo, e, nei casi peggiori, caccia ai capri espiatori, che talora se lo meritano: banchieri fallimentari, politici corrotti, pensionati d’oro. O immigrati, che funzionano anche bene. Marine Le Pen ha raccolto più di sei milioni di voti riempiendo la Francia di manifesti con un messaggio apparentemente molto semplice: «Oui, la France». La ripresa del nazionalismo, del localismo, ognuno per sé, sono evidenti, dalla Catalogna alla Germania.
Ha scritto con somma semplicità un politologo di Yale che l’Europa sta tornando a dividersi su base etnica (Nicholas Sambanis, NYTimes, 26 agosto): quanto più l’Unione si indebolisce tanto più i cittadini si identificano meno come europei e più come francesi e tedeschi e tanto meno accettano che si usino le loro tasse per salvare quelli del sud «etnicamente diversi». Agli italiani che può succedere? Che potrebbero prendersela con i cattivi tedeschi, come suggerisce con insistenza la stampa di destra? Oppure con i vecchi politici da cacciare, come suggerisce il Movimento Cinque Stelle? O proprio con i «professori», che – dice Di Pietro – sono degli «asinoni»?
Le vie del populismo sono infinite e chi fa uso di questa droga fa male a lamentarsi che la si chiami col suo nome, tecnicamente preciso. Se si guarda a caso il blog del movimento di Grillo si trova la apocalittica ideologia di una democrazia popolare in cui il popolo si autodetermina e riprende nelle mani il suo destino (preoccupante vaghezza istituzionale) e se si legge il programma ci si trova l’Eldorado: insegnamento gratuito della lingua italiana per gli stranieri, accesso pubblico via Internet alle lezioni universitarie e poi certo investimenti, molti, nella ricerca, e per la salute investimenti, ancora, sui consultori familiari per promuovere stili di vita salutari e informare sulla prevenzione primaria e secondaria, screening, diagnosi precoce, medicina predittiva e poi, ancora, più treni per i pendolari, banda larga per tutto il paese e così via.Non ci sono noiosi dettagli finanziari.
C’è un vento che soffia da questa parte, dicono i sondaggi; si è afflosciato nelle vele della Lega, ma spinge in quelle di Grillo, così come rinforza in Germania sulle ali estreme anti-Euro. Ma non è detto che prevalga. Ci sono eccezioni alla legge di Murphy, su scala globale. Il fatto stesso che Berlusconi esiti a riaprire le ostilità su un terreno che gli è stato in passato favorevole, lui «presidente operaio», lui designato alla guida del popolo, conferma che la situazione dei venti è ancora «mista», come si dice in mare. Alla fine in Francia ha vinto un presidente socialista che parla con insistenza di tasse, in Olanda hanno vinto gli europeisti e il razzista Wilders è nettamente ridimensionato. Una indagine condotta da tre ricercatori per l’MIT (Bechtel, Hainmueller, Margalit) e pubblicata sul web, circa la (im)popolarità dei salvataggi dei paesi europei in bilico nell’opinione tedesca, mostra che l’orientamento favorevole dipende più dalla scuola che si è fatta che dal reddito. Ci sono idee sovranazionali per cui vale la pena battersi, come l’Europa, e possono vincere.
Dunque la partita è tutt’altro che chiusa, ma chi vuole fermare, prima che sia troppo tardi, la tempesta della retorica populista deve darsi da fare per rimettere rapidamente in onore il «principio di realtà», se vogliamo chiamarlo in modo impegnativo, o il «controllo dei fatti», formula più pragmatica.
La competizione politica, in democrazia, è fin dalle origini una scommessa sulla educazione degli elettori, sulla loro «maturità»; e dunque si giochi in modo che le squadre che ne sono dotate facciano valere le armi della ragionevolezza, allo scoperto, contro i venditori di miracoli. E valga sia per il prossimo confronto elettorale sia per le primarie. Dicono bene i non populisti Morando e Tonini, nel loro recente «manifesto riformista»: serve una politica che «favorisca un’accelerazione della crescita, consegua il pareggio strutturale di bilancio, abbattendo lo stock del debito, e faccia ripartire la mobilità sociale, riducendo la disuguaglianza.» «È dura» aggiungono – e hanno ragione – anche solo spiegare come ci si può provare. Ma il dubbio che alla fine il senso di responsabilità renda più di qualsiasi formula magica, anche nella difettosa democrazia italiana, potrebbe essere contagioso.