Come ogni anno, alla fine di novembre, partono le classifiche mondiali dei top thinkers per l’anno che sta finendo. Foreign Policy, a forza di inserire in classifica coppie e terzetti, sfora il numero dei cento, ma poco importa.
Una coppia è già quella che occupa la prima posizione. Non si tratta di una coppia nella vita privata – a differenza dei Clinton e dei Gates, rispettivamente terzi e quinti in classifica – ma il senso del primo posto a Aung San Suu Kyi e al presidente della Birmania, Thein Sein, è un po’ quello di riconoscere il loro ruolo da tutori – se non da genitori – di un Paese che muove i primi passi verso la democrazia. E che, con il suo percorso, addolcisce un po’ l’amarezza per una Primavera Araba dal futuro sempre meno brillante. La rivoluzione nei Paesi Islamici è comunque molto presente nella lista dei global top thinkers, con Rima Dali e Bassel Khartabil, che si sono battuti per la libertà di espressione in Siria, o la blogger Sana Saleem che ha fatto altrettanto in Pakistan. O ancora il Capo dello Stato tunisino Moncef Marzouki, come rappresentante del Paese che incarna l’unico esempio di successo della rivoluzione araba.
C’è chi si è battuto per l’ambiente – da James Hansen che continua a gridare al mondo che il cambiamento climatico è già realtà; a Ma Jun, ambientalista cinese che combatte l’inquinamento nel Paese che ne è il maggiore produttore. E c’è chi lavora per un mondo migliore, armandosi solo della finezza delle proprie idee – come Juergen Habermas o Martha Nussbaum; lo scrittore giapponese Haruki Murakami o Salman Rushdie. O anche il discusso intellettuale egiziano Tariq Ramadan.
Ma scorrere la classifica di Foreign Policy è anche un po’ passare in rassegna gli eventi di un anno intero: dalla contestata rielezione di Vladimir Putin a Presidente della Federazione Russa, lo scorso marzo (tra i global top thinkers ci sono le componenti del gruppo punk Pussy Riot e il blogger Alexey Navalny); ai due economisti francesi – Thomas Piketty e Emmanuel Saez – che con il loro studio hanno fornito lo slogan fatto proprio dal movimento di Occupy Wall Street: “We are the 99%”; fino alla battaglia di Malala Youasfzai, la studentessa quindicenne picchiata dai Talebani per il suo attivismo in favore del diritto allo studio delle donne pakistane.
E di donne nella classifica ce ne sono molte altre. C’è Ahlem Belhadj che, con la sua Tunisian Association of Democratic Women, si batte per difendere le donne dei Paesi arabi dai tentativi degli islamisti di portare il Paese a “pratiche arcaiche come la poligamia e la circoncisione femminile, che erano state vietate sotto il precedente regime”. C’è la Presidente del Malawi, Joyce Banda, e c’è Sima Samar che difende le donne afgane con la sua organizzazione Shuhada (“martiri”). Ci sono Marissa Mayer e Sheryl Sandberg che hanno scalato i vertici di Yahoo! e Facebook, dimostrando che “le donne possono avere tutto” – e c’è Anne-Marie Slaughter che in un bell’articolo per The Atlantic, raccontò la difficoltà di conciliare un lavoro ambizioso a Washington con il dovere e il piacere di essere mamma di due adolescenti.
C’è molto rosa, ma c’è anche del blu Europa – e due spruzzate di azzurro italiano. Con buona pace degli anti-germanici, a Frau Merkel viene riconosciuto un dodicesimo posto, per la sua resistenza nel non abbandonare il sogno di un’ Europa unita; mentre il primo italiano in vista è Mario Draghi, la cui ventesima posizione viene giustificata così: “per aver salvato l’Europa quando i politici non potevano – o non volevano”. L’altro è l’economista Luigi Zingales, economista della Scuola di Chicago – e firmatario del movimento “Fermiamo il declino”, insieme a Oscar Giannino.