A una domanda sulle difficoltà degli italiani a darsi un modello di comportamento nei confronti dell’immigrazione e dell’integrazione dei nuovi arrivati (sono cinque milioni adesso e diventeranno probabilmente dieci nel 2050, su un totale che resterà di sessanta) si potrebbe rispondere nel modo più facile: c’è stata fino a ieri una maggioranza che comprendeva un partito dalla fisionomia xenofoba e che non voleva fare alcuna chiarezza sul futuro italiano e sul futuro di niente perché non voleva e non poteva farlo; e c’era una opposizione che ha paura di perdere voti se fa troppa chiarezza sul tema. Questa situazione, che non si dissolve automaticamente con il cambio di governo, inquina ogni discussione sull’argomento. Ed è un male, grave, perché la questione è centrale per definire il destino della società italiana oggi: il suo Pil, la natura della sua economia, la qualità della vita nelle sue città, quel che sarà della scuola, la sua stessa coesione civile.
È in corso un ricambio senza precedenti della popolazione che innesta un flusso in entrata, eterogeneo e difficile da governare, su un corpo di residenti sempre più vecchio. La crisi demografica è drammatica e di lunga durata. È sorprendente, ma non tanto, che il soggetto che lo dice con maggiore forza sia la Conferenza dei vescovi italiani nel suo documentato recente rapporto, che invoca una società più «generativa» e una politica concretamente più incoraggiante per il «fare famiglia». La Cei ha le sue ragioni confessionali per perorare la causa delle nascite, ma è certo che un aumento del tasso di natalità renderebbe meno drammatico il flusso di immigrati in entrata e dovrebbe essere desiderato da destra e da sinistra, anche se non potrà mai rovesciare la tendenza generale, perché gli immigrati arrivano in corrispondenza di un reale vuoto, di un fabbisogno «di sistema» degli italiani per far fronte all’assistenza agli anziani, a una molteplicità di servizi e di produzioni scoperte: alimentazione, sanità, agricoltura, costruzioni. Fanno «notizia» gli sbarchi drammatici di clandestini, centinaia e in qualche momento migliaia, ma fanno molto di più «quantità» i regolari che arrivano con visto turistico (o passaporto europeo, Schengen, i rumeni sono oggi circa 900mila), a centinaia di migliaia, milioni, e che stanno rimodellando l’Italia.
L’idea di sbarrare la strada all’accesso alla cittadinanza – che è la politica attuale, in assenza di una indispensabile urgente nuova legge – corrisponde a un progetto politico o cieco o folle, quello di immaginare che una sezione enorme della popolazione italiana, oggi il 7,5%, destinata a diventare fra 30 anni più del 15%, rimanga sul fondo del barile a reggere con il suo lavoro, i suoi contributi al fisco e all’INPS, il peso sovrastante, rimanendo priva di diritti politici. È evidente che le porte della cittadinanza si dovranno aprire e che è indispensabile garantire un percorso di accesso dopo un ragionevole periodo di residenza, attività, apprendimento della lingua in misura sufficiente a condividere la vita civile e le sue regole. E che ci vuole una legge che garantisca la cittadinanza a chi nasce in Italia, come ha sostenuto con forza il presidente della Repubblica durante un incontro con la Federazione delle chiese evangeliche, chiedendo al Parlamento di intervenire.
Si discuta rapidamente dei tempi necessari per maturare il diritto al passaporto italiano: cinque anni per gli extraeuropei come nella proposta Sarubbi-Granata; si discuta delle condizioni, che hanno da essere serie, ma non discriminatorie. Non si pretenda per esempio una conoscenza della lingua o della Costituzione fuori portata anche per buona parte dei nostri connazionali. Ma se non manca, come si vede dal testo di cui sopra (vedi proposta alla Camera N. 2270 del 2009), la capacità di concepire una legge del genere (e alle spalle ci sono il progetto di Fini per il diritto di voto agli immigrati nelle amministrative e un ddl Amato presentato dal governo Prodi), quel che è del tutto assente è la propulsione politica e di opinione capace di portarla in primo piano. Perché?
È questa la domanda vera da discutere qui: perché il discorso pubblico italiano non riesce ad affrontare il tema? Della maggioranza abbiamo già detto: c’è la Lega, che sa bene quanto gli immigrati siano indispensabili all’economia veneta o lombarda, e che prospera (si fa per dire) sia sul loro arrivo sia facendo loro la «faccia feroce». E sempre del resto la destra tende, in modo più o meno radicale, a rappresentare l’identità e l’indigenismo (da Sarkozy all’inseguimento di Marine Le Pen, fino alla governatrice repubblicana dell’Arizona, Jan Brewer, che criminalizza ogni contatto con i clandestini).
E perché la sinistra in Italia (e in tutta Europa non è tanto diverso) non riesce ad alzare la voce su questo argomento? La risposta sta nella enorme difficoltà di una transizione che stiamo attraversando in molti paesi europei, sotto la pressione di minoranze ora così grandi da modificare la tradizionale omogeneità linguistica, culturale, confessionale. Un processo turbolento, in una fase di crisi economica, deindustrializzazione, deficit dei sistemi di welfare, che rimette in discussione un equilibrio che si basava, senza dichiararlo perché era nella «natura» delle cose, sul perimetro nazionale della crescita. È sorprendente come nelle discussioni sollevate dalla disinvolta condotta transnazionale della Fiat di Marchionne (gli investimenti in Polonia o in Serbia incentivati da minori costi) sia emersa per i sindacati e, di riflesso, per la sinistra una sostanziale irrilevanza della dimensione internazionale o per lo meno europea del problema. Sono davvero impossibili da immaginare azioni di solidarietà sociale al di fuori della propria città e provincia?
È giunto il momento di aprire un cantiere di lavoro culturale e politico innovativo. Se alcune formazioni di sinistra possono vivacchiare raccogliendo la protesta e la rabbia, contro il governo, contro le iniquità e le sofferenze del presente, un grande partito riformista non si può contentare di questo, deve alzare lo sguardo sul futuro, indirizzare il malcontento verso un disegno di governo del cambiamento, di gestione sapiente di una complessa transizione, che riguarda il posto dell’Italia nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo.
Due ingredienti fondamentali, tra i molti, di questa costruzione saranno la rimessa in onore e in evidenza della politica estera e, sul piano delle idee e della mentalità diffusa, la promozione del «pluralismo culturale». Il primo ingrediente: un partito ha la consistenza di protagonista della vita pubblica se manifesta e incrementa attive simpatie internazionali e non solo in Europa. Non è sufficiente la appartenenza al Partito socialista europeo o a quel che resta dell’Internazionale socialista. Non basta che di estero si occupi qualche parlamentare. I temi del futuro del Nord Africa, dei nuovi equilibri in Medio Oriente, della solidarietà europea nella difesa dei diritti e altro ancora, devono diventare centri focali di un’azione continua, di ricerca, discussione, comunicazione. L’interesse per le campagne elettorali dei partner europei è forte nelle rispettive opinioni pubbliche, ma molto di più si può fare per integrare reti di lavoro politico. E l’interesse costante si deve estendere attraverso iniziative dirette dei partiti con tutti i paesi del Sud del Mediterraneo. Proclamarsi socialdemocratici o socialisti non significa nulla se non attivano intensi collegamenti internazionali. Qualcuno si è accorto che alle elezioni tunisine c’erano tre liste che occupano uno spazio simile a quello del Pd o dei socialisti francesi?
Il secondo ingrediente: il pluralismo culturale, vale a dire non il pluralismo politico tipico delle società liberali, ma il pluralismo «profondo», delle differenze culturali non è attivo «naturalmente» in nessuna società, neanche negli Stati Uniti, dove il concetto stesso si è affacciato a metà del Novecento e lo si deve a un autore Horace M.Kallen, tradotto in politica da John Kennedy e Lindon Johnson, che aprirono le porte a una nuova enorme ondata di immigrazione. La discussione italiana andrebbe, per cominciare, tratta fuori da un certo primitivismo che affligge non solo gli elettori della Lega. I temi delle relazioni interculturali, della doppia identità degli emigrati di seconda generazione, della necessità di ammettere che un cittadino italiano possa essere marocchino-italiano o albanese-italiano, con o senza il trattino all’americana, la stessa questione del multiculturalismo o della polietnicità non possono più essere considerati esotismi, buoni solo per gli americani (o gli inglesi). Il tempo in cui, tutto sommato, si poteva ancora dire così è finito. Bisogna con umiltà e coraggio mettere mano a una nuova agenda di lavoro politico e culturale.
Questo articolo è la rielaborazione con lievi modifiche e aggiornamenti di quello apparso sulla rivista on line del PD «Tamtam democratico».