Il declino della stampa? Lo si legge dalle edicole. In senso materiale, non solo figurato. Erano arrivate solo pochi anni fa alla bella cifra di 43 mila sparse lungo tutto il territorio nazionale, si sono ridotte a 32 mila nel giro di sette, otto anni. Chiuse, fallite. Undicimila in meno, di cui cinquemila solo negli ultimi due.
L’edicola non è più centrale, almeno per giornali e riviste. Da quel che raccontano gli stessi edicolanti, del resto, dopo le 9,30 del mattino non si vende quasi più una sola copia di giornale. Tutto quel che va via, se ne va tra le 7 e le 9. Punto. Tant’è che ci sono edicole che chiudono all’ora di pranzo e non sempre riaprono nel pomeriggio. In altri casi non vanno oltre le ore 18. Forse nei piccoli centri, nei paesi, ma l’edicola non è nemmeno più il luogo della socialità, aggregatore di svariate umanità, il centro delle chiacchiere. E c’è ormai più resa che venduto.
Del resto basta dare uno sguardo all’ultimo “Rapporto” della Federazione editori, la Fieg, biennio 2009-2011, per avere un’idea di come stia andando. Il margine operativo lordo delle aziende editrici di quotidiani si è andato via via assottigliando, con una contrazione del 29,6%. Per dirla in valori assoluti, si è passati dai 151 milioni di euro del 2010 a 106 (-44 milioni) di oggi e un’incidenza del fatturato scesa dal 5,2 al 3,7%. Con i ricavi che hanno sopravanzato i costi diretti. Così i ricavi complessivi sono scesi del 2,2%, a causa di una flessione degli introiti pubblicitari (-5,7) e il calo della diffusione (-2,6) anche se nel complesso i ricavi dalle vendite delle copie hanno tenuto, ma solo grazie all’aumento dei prezzi di copertina, intervenuto nel 2010-2011 dopo l’anno nero del 2009 (-11,9%) e quello tiepido del 2010 (-1,5). Per non parlare poi dei settimanali che, sempre nel biennio compreso, fanno registrare una flessione del 7,6% mentre i mensili svettano a un -18.
E se da un lato il web si è rivelato una risorsa «che ha contribuito ad allargare il pubblico dei lettori», dall’altro ha finito anche con il togliere copie ai giornali, in particolare i quotidiani. Dunque, «le vendite sono in calo, ma non la lettura» dicono gli editori. «La crisi induce a risparmiare sull’acquisto del giornale, ma la gente non rinuncia a leggerlo» (+1,8 per il 2011).Tuttavia la dichiarazione ultima degli editori è improntata piuttosto all’insegna dell’ottimismo della volontà, perché se dovessimo dal retta alla ragione c’è tutt’altro di che stare allegri: i dati più recenti ci dicono che rispetto ai mitici anni Novanta, quando i quotidiani hanno toccato il punto più alto di vendite, con 6 milioni complessivi di copie quotidianamente vendute, da allora hanno lasciato sul terreno 1.800.000 copie, di cui 900 mila solo nel solo quadriennio 2006-2010, attestandosi attualmente intorno ai 4 milioni complessivi e giornalieri di copie.
Del resto basta dare un semplice sguardo alla tiratura di “Repubblica”: dalle 650 alle 750 mila copie dei tempi d’oro è scesa oggi sotto le 450 mila, per una vendita reale che si aggira intorno alle 300 mila copie giornaliere. Tanto che le tre principali testate – “Repubblica”, “Corriere” e “La Stampa” – oggi vendono complessivamente 800 mila copie, contro il milione e 400 degli anni ricchi.
Colpa anche della televisione e dei nuovi media come Internet o di strumenti come l’iPad e gli smartphone. E della velocità “live” delle notizie contro la lentezza di come vengono rappresentate. Tanto più il giorno dopo che i fatti sono accaduti. E forse anche in forza della già scarsa credibilità che giornali e giornalisti sono venuti via via perdendo con il trascorrere del tempo. Un insieme di fattori, dunque, un combinato disposto.
Nel frattempo molti giornali hanno chiuso i battenti, altri stanno procedendo a ristrutturazioni piuttosto pesanti e onerose soprattutto per le casse degli istituti previdenziali e per quelle generali dello Stato.
Non solo giornali
Ma è chiaro che nel sistema della diffusione delle notizie l’edicola ha oggi perso la sua centralità. Lo è semmai per tutto il resto, come gadget, ricchi premi e cotillon, di cui per altro è piena zeppa come un uovo. Le edicole ormai sono sempre più bomboniere che vendono di tutto, tranne che i giornali ormai. Il tracollo delle vendite di carta stampata è stato per loro un salasso. E se nel giro di poco più di un decennio hanno cessato l’attività in 11 mila, pure i distributori di giornali sono collassati a decine, per crisi o direttamente per fallimento. Tanto che per cercare di tirarsi un po’ su gli edicolanti stanno cercando di ottenere ora l’appalto del SuperEnalotto o del Win for life da parte di Lottomatica, che però non ci sente molto a utilizzare la rete delle edicole. Perché andrebbero quantomeno informatizzate.
Cosicché gli edicolanti lamentano uno stato di abbandono e si sentono lasciati a se stessi. «Si sta consumando una lenta agonia – dice Giuseppe Marchica, segretario del Sinagi, il sindacato dei giornalai che aderisce alla Cgil – e si sta lasciando colpevolmente morire un settore che nel tempo ha fatto arricchire tanta gente. Se non c’è una svolta, se non c’è volontà, se il governo non dà una mano in questa direzione e a risolvere un bel po’ di problemi, non se ne esce. Anziché dare soldi a manetta come si è sempre fatto negli anni, il governo dovrebbe dire: adesso ci fermiamo qua e ragioniamo. Dovrebbe bloccare qualsiasi forma diretta o indiretta di finanziamento della carta stampata e distribuire meglio le risorse, orientandole anche sulla base degli investimenti che il mondo editoriale e imprenditoriale fa» conclude il sindacalista.
Per questo motivo e per richiamare l’attenzione del governo e di tutte le forze in campo gli edicolanti avevano indetto una “serrata” di tre giorni, proprio a cavallo delle ultime elezioni, alla fine dello scorso febbraio, dal 24 al 26. Ma poi, sollecitati a soprassedere per garantire l’informazione sul voto, anche sulla base di una serie di rassicurazioni ottenute sia dal governo sia dai partiti, il sindacato ha deciso di revocare la protesta. Adesso sta aspettando solo di capire cosa succederà per ritornare sul piede di guerra. Ma è chiaro che una protesta degli edicolanti rischia di indebolire ulteriormente il settore e di favorire i prodotti digitali.
È quel che sta accadendo per esempio in Francia, dove negli ultimi mesi le edicole sono sempre più spesso chiuse e la distribuzione dei giornali bloccati per le forme di protesta messe in atto dal sindacato di settore. Ciò che sta favorendo le edizioni online dei giornali. Dall’autunno, infatti, l’attività di “Presstalis”, la società che gestisce la distribuzione della stampa in Francia, è già stata bloccata più di una trentina di volte dal Sindacato generale del libro e della comunicazione scritta (Sglce-Cgt) per protestare contro il piano di ristrutturazione della stessa “Presstalis” che prevede la soppressione di 1.250 posti di lavoro su 2.500. E così martedì 5 febbraio, avendo saputo che i giornali non sarebbero stati distribuiti, gli editori hanno deciso di non stampare le copie e di lasciare i quotidiani solo online.
“Presstalis” è già stata salvata in extremis dal fallimento nel corso del 2012 ma ora deve tagliare drasticamente se vuole sopravvivere. La stampa francese, per altro, è la più sostenuta d’Europa: nel suo complesso lo Stato investe 1,2 miliardi l’anno nel settore dell’informazione che riesce a fattura intorno ai 10 miliardi di euro. In pratica l’11% del settore vive in forza del sostegno pubblico. La sola Associated France Press (Afp) incassa 119 milioni in abbonamenti da parte di strutture stateli. Ci sono poi gli aiuti diretti, che superano i 500 milioni di euro mentre in Italia dopo la legge di stabilità varata dal governo Monti i milioni per la stampa sono solo 70, ma in Francia i contributi pubblici vanno soprattutto ai grandi gruppi editoriali come Dassault, Niel, Arnauld, Rotschild, Pinault, Perdiel.
Nel sistema, hanno invece fatto notare gli editori italiani proprio lo scorso 8 marzo con una nota ufficiale diffusa tramite le agenzie di stampa, «i contributi all’editoria sono una realtà di cui tutti discettano, ma che pochi conoscono» perché nella loro forma diretta riguardano solo tre tipologie di giornali: gli organi dei partiti politici, quelli delle cooperative di giornalisti e quelli delle minoranze linguistiche» mentre «la maggioranza dei quotidiani italiani, che rappresentano il 90% del totale delle copie diffuse in Italia, non riceve contributi diretti». E quanto a quelli “indiretti”, sotto forma di agevolazioni postali per la spedizione degli abbonamenti, «sono cessati dal marzo 2010» fanno notare gli editori riuniti nella Fieg.
Che succede negli Usa
La situazione è seria. In Italia ma anche in giro per il mondo. Negli States, ad esempio, il “New York Times” ha chiuso il terzo trimestre con un utile in calo dell’85% e i ricavi si sono attestati a 449 milioni di dollari contro i 479,4 attesi da tutti gli analisti. Con persistente calo dei ricavi pubblicitari, anche se «i ricavi totali della circolazione sono saliti con l’espansione della base degli abbonati digitali», ovviamente a discapito dell’edicola. Tendenza che per altro si sta diffondendo. Nel 2012 il colosso tedesco dell’editoria Alex Springer (“Bild”, “Die Welt” e decine di altre pubblicazioni) per la prima volta ha segnato un fatturato maggiore proprio nel settore online, rispetto a quello tradizionale della carta stampata. A New York, “Variety”, la bibbia dello spettacolo hollywoodiano a partire da dieci giorni, il 18 marzo, ha detto addio alla carta per sposare esclusivamente l’online con un sito web gratuito. Così come ha già fatto dall’inizio dell’anno per esempio “Newsweek”, che da gennaio è solo sul web. Quella di abbattere il paywall è invece in controtendenza: il “Washington Post” sta per esempio pensando di unirsi a “Wall Street Journal” e “New York Times”, i due maggiori quotidiani che fanno pagare l’accesso alla maggior parte dei loro contenuti online.
Per dare un termine di paragone di come si sta sviluppando il fenomeno digitale bisogna rifarsi a quanto riferito dal “Los Angeles Times” lo scorso 27 febbraio: secondo il quotidiano Usa, “Variety” come quotidiano aveva una circolazione di 28 mila copie mentre il settimanale ne vale 30 mila e Variety.com conta 17 mila abbonati paganti. Significa che la crisi e la concorrenza feroce sul web negli ultimi tempi si è fatta sentire: in gennaio, periodo di “alta stagione” per le notizie di cinema a causa della convergenza di appuntamenti significativi per il settore come gli Oscar, Golden Globe e Sundance, Variety.com ha attirato appena 472 mila visitatori, il 28% in meno rispetto allo stesso mese di un anno prima, mentre Deadline era salito del 32% con 2,3 milioni di click sul sito.
C’è chi abbandona la carta
In Italia, punta di diamante di questa tendenza progressiva dell’abbandono della carta per il web è rappresentata dal piccolo vascello di “Europa”, quotidiano di riferimento dell’area Pd che si divide o contende il mercato con “l’Unità”. A dieci anni e un mese dalla nascita il quotidiano ha rafforzato la sua presenza sull’online per attrezzarsi progressivamente a dismettere l’edizione cartacea che in edicola vende si e no appena qualche migliaio di copie. Bene, nel tirare le somme del primo mese di vita digitale, qualche settimana fa il direttore Stefano Menichini ha scritto che pur trattandosi di cifre «che faranno sorridere le corazzate dell’informazione online» ma il fatto che “Europa” sul web «sia stata visitata da oltre duecentocinquantamila utenti unici, con quasi ottocentomila visualizzazioni di pagina, è un dato che va oltre le nostre migliori speranze» tanto che «non è così remoto l’obiettivo di metterci prima o poi all’altezza di testate che hanno anni di attività e di promozione alle spalle, e che questi pochi numeri li fanno in pochi giorni non in un mese». Quindi basta poco: sfruttare il flusso per essere nel flusso.
Insomma in un panorama editoriale che da tempo ormai è costellato di drammi, crisi e chiusure, il piccolo “caso Europa” sembra dimostrare che trasferendo e migliorando le proprie attitudini giornalistiche dalla carta al web può aprire una strada verso il futuro, meritandosi «una chance di sopravvivenza non stentata».
Del resto anche i dati diffusi lo scorso 19 marzo dall’Osservatorio New Media e New Internet della School of Management del Politecnico di Milano parlano chiaro, sottolineando la tendenza in corso: la nuova informazione viaggia attraverso i video online e i social network. E se il mercato dei media è complessivamente in calo del 5%, si legge nel “Rapporto” della School del Politecnico, «con un picco di -10% per quanto riguarda i soli media tradizionali», i nuovi media continuano invece a crescere: +3%. A fare la parte del leone è la cosiddetta “New Internet”: +90% nel solo 2012.
Secondo l’indagine, i ricavi dovuti alla pubblicità dal 2008 ad oggi sui media è passato da 18,4 miliardi a 15,9, con una riduzione di 2,5 miliardi. Nel solo 2012 la riduzione è stata del 5%. «Ma non tutti i canali media stanno registrando un trend negativo – ha sostenuto Andrea Rangone, responsabile scientifico dell’Osservatorio presentando la ricerca – i New Media infatti, dal 2008 ad oggi, sono cresciuti senza mai subire alcuna battuta d’arresto». In effetti, con 5,4 miliardi di euro nel 2012 sono arrivati a pesare per oltre un terzo del mercato complessivo dei Media, quando appena quattro anni fa «contavano poco meno di un quarto». E si prevede che nel 2013 ci sarà una crescita del 6% circa che porterà il valore del mercato intorno ai 5,7 miliardi di euro, «pari al 36% del mercato complessivo». Una crescita che viene supportata da quella del digitale terrestre, «il cui mercato – ha affermato Riccardo Mangiaracina, responsabile ricerca dell’Osservatorio – registra un +6% e da quella di tutti i media digitali veicolati attraverso internet, che hanno ottenuto un incremento del mercato pari all’11%». Tra questi ci sono i nuovi dispositivi come smartphone, tablet, Tv connesse e tutto il web basato sui social network sulle applicazioni, si contenuti a pagamento e sui cosiddetti “video virali”. Una Internet fuoriuscita dai classici Pc che pervade e permea la nostra vita di tutti i giorni (gli smartphone in Italia sono 32 milioni, +30% dal 2011 al 2012: lo possiede quasi un cittadino su due: i tablet sono 3,5 milioni, +150% rispetto al 2011, e sul fronte ricavi pubblicitario, questi sono cresciuti del 60% sui social network nel solo 2012).
Quando WV cambiò i chioschi
È chiaro come in questo contesto l’edicola perda peso, ruolo e centralità. A comprare i giornali ci si pensa sempre meno. Specie i più giovani che dovrebbero costituire il ricambio generazionale. Gli editori (dati Fieg 2008-2010) parlano di rese che nel biennio sono salite al 46% per i periodici e al 24,2 per i settimanali., oltre il 30% per i quotidiani. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando nella seconda metà degli anni Settanta la Fondazione Rizzoli, con convegni a Venezia alla Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio, sfornava studi e ricerche prospettiche sullo sviluppo delle edicole, fotografandone o disegnandone le nuove architetture protese a favore della miglior esposizione della “merce” per colpire e solleticare l’occhio dell’acquirente. Ed è passato anche parecchio tempo da quando il sindaco di Roma Walter Veltroni ha dato grande impulso alla sostituzione delle vecchie edicole con le nuove, secondo un piano anche di nuovo arredo urbano. Non è bastato. Il declino parte anche da qui.
Un’edicola fino a qualche anno fa valeva quanto acquistare una casa. E ha subito lo stesso percorso del mercato immobiliare: fino a quattro anni fa poteva valere 600 mila euro, in una posizione media, non troppo centrale, ma la sua resa attuale – anche se non disastrosa – non è più buona come un tempo. Del resto sono trascorsi ormai dodici anni dal novembre 2000 quando in Italia è arrivato “Metro”, giornale-guida dei free press nel mondo di proprietà dell’omonimo gruppo editoriale svedese che si è espanso in tutto il mondo sulla base di una filosofia: giornali gratuiti di rapida e basilare lettura informativa, pagati esclusivamente dalla pubblicità. Nella sola Italia hanno chiuso le edizioni della Sardegna e del Veneto, ridimensionando di gran lunga le altre (oggi è stato aperto lo stato di crisi e si lavora con contratti di solidarietà), mentre nel mondo hanno chiuso punte di diamante come la Polonia, la Spagna, l’Argentina. Resistono le edizioni Usa, ma con fatica. Qualcosa vorrà pur dire, no? La crisi avanza e il business s’è trasferito altrove.
il newsweek ha ripreso la pubblicazione su carta almeno da un mese. Lo ricevo puntualmente ogni settimana, non serve dire che non lo vendo