«La crisi europea non è una crisi delle istituzioni o di leadership. È una crisi della democrazia, che va ripensata non solo a livello europeo ma anche, in modo congiunto, a livello nazionale. Crede che si possano convincere i cittadini democratici del sud dell’Europa ad accettare senza partecipazione e deliberazione misure di “austerità” in politica economica? Il messaggio di Berlino è: queste misure funzioneranno perché hanno portato all’integrazione dell’Europa del centro e dell’est. A mio avviso, nelle democrazie del sud Europa, il modello di Berlino non funzionerà». Così Ivan Krastev, politologo, direttore del Centre for Liberal Strategies di Sofia e di Foreign Policy Bulgaria analizza, a margine del Dahrendorf Symposium che si è svolto a Berlino, l’attuale situazione europea.
Quali sono gli aspetti centrali della crisi economica e politica dell’Unione? Quali sono le cause e quali gli effetti?
L’Europa si è basata finora su un modello peculiare: regole in comune senza politica comune a livello europeo, politica senza regole comuni all’interno degli stati nazionali. Temo che le pressioni per l’attuazione di policy economiche convergenti conducano i paesi a mettere in campo politiche economiche decise al di fuori del dibattito politico. Ciò, a mio avviso, non può che alimentare l’ascesa del populismo.
Perché?
Quando le decisioni economiche tagliano fuori la politica, quando i partiti cioè non sono in grado di dissentire e di dare vita al conflitto, rimangono soltanto il richiamo all’identità o il disprezzo per le élite. Quando parlo di ascesa del populismo non mi riferisco soltanto al crescente consenso dei partiti populisti estremisti di destra ma più diffusamente all’ascesa di un nuovo populismo.
Che cosa ha di peculiare questo fenomeno rispetto al populismo classico?
La maggioranza della popolazione europea si percepisce e si comporta come una minoranza, si sente frustrata, impotente. L’aspetto cruciale del populismo attuale è da una parte il divario tra la maggioranza e le élite, dall’altra il rifiuto della
distinzione tra destra e sinistra. Siamo di fronte al fatto che le persone considerano indistintamente le élite come corrotte.
Può fare un esempio di una maggioranza che si percepisce come minoranza pur non essendolo?
In un sondaggio inglese, alla domanda “credi di influenzare la politica del governo?” ha risposto in modo affermativo il 22% della popolazione di origine inglese contro il 66% delle minoranze presenti nel paese. Ciò significa che le minoranze hanno più
potere della classe media in UK? Non credo. Significa che c’è un senso generalizzato di impotenza.
Come reagisce la politica a questo senso di impotenza diffuso e alla totale sfiducia da cui è investita?
Mentre le persone tendono a chiamare “corrotto” qualsiasi comportamento adottato dalla classe politica, i politici tendono a chiamare “populista” tutto ciò che le persone vogliono e chiedono.
Come si esce da questo circolo vizioso?
Credo che sia molto importante discutere la crisi non solo sottolineando il deficit di democrazia di Bruxelles, che è ovviamente presente, ma prendendo atto che dobbiamo ripensare la democrazia anche a livello nazionale. Il caso del referendum di Papandreu è stato paradigmatico.
Perché?
Poniamo che si fosse fatto e che Papandreu avesse vinto: non solo le conseguenze della crisi greca sarebbero state scaricate su altri paesi in difficoltà, ma avrebbe costituito un precedente gravissimo di “democrazia popolare”. Ogni altro paese infatti si sarebbe potuto pronunciare contro le misure di austerità dell’UE e, con una serie di referendum sul piano nazionale, il progetto europeo sarebbe potuto facilmente svanire.
Quali sono le cause di questa deriva “popolare e populista” della democrazia liberale? E come ripensarla all’interno degli Stati nazionali?
Credo che vadano analizzate le conseguenze indirette degli stessi progressi democratici e liberali raggiunti. Mi riferisco alla rivoluzione culturale del ’68, che ha messo al centro l’individuo e il suoi diritti; alla rivoluzione del mercato degli anni ’80, che da un certo punto di vista ha avuto una funzione liberatoria, articolando il mercato in una molteplicità di soggetti più piccoli; alla rivoluzione dell’’89 e infine alla rivoluzione del web e delle neuroscienze.
Quale di queste “rivoluzioni” ha avuto un ruolo prioritario nel delineare la situazione attuale?
Quella dell’’89 è stata una svolta cruciale: per la prima volta la democrazia liberale è stata presentata come lo stadio finale di sviluppo dell’umanità. È venuta meno così la tensione interna sia al rapporto tra democrazia e liberalismo, sia a quello tra capitalismo e democrazia. Dopo l’’89 si è diffusa l’illusione che ciò che si fosse rivelato giusto per il mercato sarebbe stato automaticamente positivo anche per le nostre democrazie.
In che senso la rivoluzione del web e la scoperta delle neuroscienze hanno avuto come conseguenza la crisi della democrazia liberale? Non sono anche strumenti di liberazione?
Certamente, da una parte internet dà più potere di controllo e di espressione alle persone. Da un altro punto di vista però, il web radicalizza le nostre preferenze naturali. E la nostra preferenza naturale è comunicare con persone uguali a noi. Ciò produce comunità chiuse. Le neuroscienze hanno fornito uno strumento essenziale nella ricerca del consenso, svelando che solo il 3% delle decisioni di voto viene preso a livello razionale; ciò ha contribuito al declino della democrazia delle idee a favore della democrazia del sondaggio.
Qual è il primo passo da compiere, sia a livello comunitario che a livello nazionale, per ripensare il sistema democratico liberale?
Siamo tutti molti impegnati a discutere del futuro dell’Europa disegnando possibili soluzioni tecniche, ma non affrontiamo il tema cruciale: cosa succede a livello nazionale. Crede che si possano convincere i cittadini democratici del sud dell’Europa ad accettare senza partecipazione e deliberazione misure di “austerità” in politica economica imposte dall’esterno? Il messaggio di Berlino è: queste misure funzioneranno perché hanno condotto all’integrazione dell’Europa del centro e dell’est. A mio avviso, il modello “policy senza politica a livello europeo, politica senza policy a livello nazionale” nei paesi del sud Europa non funzionerà.