Prosegue il dibattito sul futuro e il ruolo del Mediterraneo lanciato da Claus Leggewie su Reset. Qui tutti gli interventi.
Il Mediterraneo sta uscendo dalle catacombe. A lungo è stato rinchiuso sottoterra da un muro di ostilità e di incomprensioni. Chi scrive ricorda di essere intervenuto più volte già negli anni Novanta contro le ripetute liquidazioni di ogni riflessione seria sulle prospettive di una politica mediterranea per l’Europa ed in particolare per il suo sud. I sostantivi più teneri usati dai cultori dello statu quo erano folklore, utopismo o ambiguità.
Una guerra preventiva contro ogni nuova idea, atteggiamento che paradossalmente vedeva in prima fila alcuni intellettuali meridionali che, in nome della difesa della modernità, esibivano una poco moderna incapacità di leggere il futuro. Finalmente quindi si inizia ad uscire dalla subalternità a quella doxa a lungo dominante, che nel Mediterraneo era riuscita a vedere soltanto prima il mare del sottosviluppo e poi un vallum invalicabile, la frontiera dello scontro tra le civiltà.
Per la verità nel decennio seguito alla caduta del muro nei discorsi dei maggiori esponenti della politica italiana (Scalfaro, Ciampi, Prodi e altri) il tema della necessità di una politica mediterranea dell’Italia e della stessa Unione Europea si era affacciato. E’ altrettanto vero però che tutti quei discorsi, buoni per disegnare grandi scenari, sono rimasti sulla carta perché sono stati costantemente scavalcati da altre priorità, producendo la progressiva estinzione di ogni autonoma capacità immaginativa e strategica e quindi di qualsiasi iniziativa innovativa e coraggiosa.
Questo lungo declino della politica estera italiana (e non solo di essa) è il lascito oggi più evidente della Seconda repubblica. Mentre nella Prima repubblica una politica mediterranea, carsica e con le mille difficoltà derivanti dalla divisione del mondo in blocchi, era esistita, nella seconda essa è progressivamente scomparsa e ricorda il titolo di un film degli anni Ottanta: sotto il vestito (degli alati messaggi) niente.
Questo declino è stato completato dall’adesione ad una versione abbreviata ed economicistica, strettamente continentale, dell’Europa, che ha amputato ogni riflessione critica, relegando ogni obiezione nel comodo scaffale della nostalgie nazionalistiche. Ad ogni tentativo di pensare l’Europa fuori degli applausi e del trionfalismo si è risposto, molto prima della Merkel e di Monti, che prima di poter prendere la parola bisognava aver fatto i compiti a casa. Il destino era già allora segnato: un’Europa del sud non accompagnata da una politica di costruzione di un’area mediterranea è come un pugile condannato a combattere con una mano sola, destinato alla sconfitta. E questo affanno, questa inquietudine sono oggi il ritratto di Europa.
Credo che il testo di Leggewie abbia un grande valore non solo per il merito di quanto sostiene, che è in gran parte condivisibile, ma anche perché, venendo da uno studioso tedesco, schioda le menti da questi pregiudizi e dimostra che la rivendicazione della necessità di una politica mediterranea non è una esigenza regionale, anche se pure di questo si tratta, ma di una necessità per la stessa Unione Europea, di una bussola inevitabile per la navigazione futura e per usare la crisi come un’occasione per aprire scenari nuovi, sottraendosi ad un futuro di progressiva disgregazione.
Ed è confortante che questo fenomeno di una nuova attenzione da nord al Mediterraneo non sia isolato, ma sia circondato da altri segni di attenzione da parte di altri studiosi dell’Europa del Nord.
Non ci si deve illudere, infatti, che il meccanismo di quarantena ed esclusione di chi non ce la fa si limiterà alla Grecia e poi alla Spagna o all’Italia. Fino a quando l’Europa coinciderà con la sua forma attuale non ci sono dubbi: essa perderà progressivamente pezzi per restringersi ai soli paesi “virtuosi”, cioè quelli che costituiscono il cuore continentale dell’Europa stessa e sulla cui misura essa è stata costituita. Anche la Francia, che oscilla continuamente tra l’ossessione di una leadership continentale e delle proiezioni mediterranee intermittenti e spesso strumentali, rischierà prima o dopo di sentirsi fuori casa in questa costruzione.
L’unica possibilità di sopravvivenza dell’Europa può quindi venire dalla via che Leggewie propone, dal mutamento in avanti della sua forma politica e sicuramente dall’accentuazione della sua struttura federale, più capace di venire incontro alle differenti esigenze dei paesi che compongono l’Unione. Vale la pena di ricordare proprio su questo tema un bel libro di Bruno Amoroso (Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro, Dedalo, Bari 2000), che già allora proponeva di pensare che fosse necessario organizzare l’Unione Europea intorno a quattro meso-regioni: il Baltico, l’Europa centrale, il Mediterraneo e l’Europa occidentale. Un anno dopo l’uscita di quel libro sarebbe venuto l’11 settembre, che sembrò allontanare le due sponde del Mediterraneo e quella discussione si è un po’ arrestata. Oggi però, in presenza delle primavere arabe, sarebbe interessante, anche alla luce della riflessione di Leggewie, riprenderla.
Ma forse è questo il momento per dire qualcosa di più drammatico: più ritarda una riforma del modo di vedere l’Europa, più difficile si fa la situazione, più complicato diventa rimontare le difficoltà.
E’ vero che la crisi, aggravandosi, può aprire la strada al nuovo, ma se non ci si sottrae al diktat “o questa Europa o nessun’altra”, la crisi perde ogni capacità di liberare le occasioni. Le soluzioni proposte recentemente dalla Bce sono importanti, ma sono sostanzialmente interne al modello di Unione esistente, e l’aiuto che potrebbe venire dalle autorità europee verrebbe pagato in modo durissimo e in termini di sovranità dai paesi deboli con tutti i contraccolpi nazionalistici che è normale aspettarsi. Per far progredire l’Europa è quindi oggi necessario dire a chiare lettere che essa si è fatta trovare totalmente impreparata dalle primavere arabe. Essa infatti o ha deciso di guardare altrove oppure laddove, come in Libia, si è mossa, lo ha fatto ricalcando vecchie logiche neo-coloniali, coprendo con lo scudo della difesa dei diritti umani operazioni di tutt’altro segno.
Sicuramente questa miscela di disinteresse continentale e umanitarismo neocoloniale, di distanza da un lato e di ritorno di vecchi modelli dall’altro non ha aiutato la spinta delle cosiddette primavere arabe. Un’amicizia e una collaborazione non si possono alimentare di silenzio ma hanno bisogno di un impegno serio e sincero di collaborazione fondato sulla piena parità e al di sopra di ogni sospetto di nostalgie neocoloniali, che ripropongono una gerarchia oggi inaccettabile tra la sponda nord e quella sud del Mediterraneo. E’ solo con una politica attiva e ispirata al lungo periodo che si possono aiutare i governi di quei paesi a tenere nell’angolo l’appeal de fondamentalismo. E’ solo in questo modo che si fa prevalere la dimensione mediterranea della riva, dell’incontro e della collaborazione sull’integralismo dei continenti.
Ma non si tratta solo di diplomazia, perché è necessario, per far ripartire l’Europa, un colpo d’ala, una ripresa del suo dibattito costituente. Se si chiederà di meno, se ci si chiuderà, come accade oggi, in una discussione tutta difensiva, se non si decostruirà il teorema in base al quale da un lato ci sono i paesi che sono già europei e dall’altro quelli che devono dimostrare di esserlo, se non si decostruisce il meccanismo costruito intorno a questo sottile (ed ineguale) etnocentrismo continentale della contabilità, si andrà incontro al logoramento progressivo dell’Europa.
Con una formula sintetica potremmo dire che la filosofia europea non si esaurisce solo nell’opposizione tra analitici e continentali: esiste anche un pensiero mediterraneo, e se l’Europa vuole diventare il soggetto di una politica globale è bene che si affretti a scoprirlo. Per l’Europa una scelta di questo tipo è l’unico modo di coniugare al futuro il Nobel appena ricevuto e per dimostrare che la giuria di Stoccolma non è stata troppo generosa.