La Swinging London di Tony Blair è scomparsa. Vacillando sotto i colpi della crisi finanziaria, Londra ha dimostrato tutti i suoi limiti. Gli stipendi sono rimasti più alti e le carriere più rapide rispetto al resto d’Europa, ma trovare lavoro è diventato più difficile. La capitale britannica non è più il tempio del New Labor, modello di una “sinistra moderna” che ispirava libri e commediole brillanti. Soprattutto, Londra non è un “modello inclusivo”: i prezzi delle case sono così alti, da spingere giovani e chiunque non sia un banchiere o un ereditiere a vivere in zone sempre più periferiche. Ci sono più famiglie povere e bambini mal nutriti.
Dopo anni di orgoglio e speranze, è emerso come il Blairismo abbia fatto ben poco per risolvere il problema più grave della società britannica: una persistente divisione in classi pressoché impermeabili. L’ascesa sociale è sempre più difficile. Se un bambino sarà benestante da adulto, ciò dipende in larga misura dal reddito dei genitori, più di tutti gli altri paesi Ocse.
Forse il Blairismo è stato solo una grande operazione di marketing per coprire un sistema di speculazione finanziaria guidata dalle banche anglosassoni. Se poi tutto è fallito, è giusto così: le strade di Piccadilly il venerdì pomeriggio sono un po’ meno piene, così come ristoranti e discoteche (i pub, al solito, fanno affari d’oro). Le grandi banche d’affari hanno avuto responsabilità gravissime nell’esplosione della crisi economica mondiale, e che qualche banchiere fosse licenziato era davvero il minimo che potesse capitare.
Le reazioni della sinistra italiana al tramonto di Blair sono un indice molto interessante dello stato culturale del nostro paese. Negli atteggiamenti dei politici nostrani sembra di cogliere un sentimento di soddisfazione, condito con punte di perfidia. Blair è stato un “finto riformatore”, alfiere della “sinistra di governo asservita agli interessi del mercato” (anche se Vendola ogni tanto dice “del capitale”). Adesso, finalmente, sarebbe possibile “tornare ai valori della sinistra storica”. Blair è stato un incidente di percorso nella realizzazione del progetto della sinistra conservatrice del continente. Adesso, grazie alla crisi, i grandi dottori del fondamentalismo sinistrorso sono pronti a dettar legge.
Lascia perplessi il fatto che, comunque, la stessa sinistra che oggi ritiene di possedere la chiave della virtù economica, per vent’anni non sia stata capace di esprimere alcun concetto davvero alternativo a Tony Blair.
La discussione è stata monopolizzata dall’ossessione di proporre un alternativa solo a Silvio Berlusconi, come se quell’Animale Politico fosse il vero e unico punto di riferimento ideologico globale. Un compito più degno, e forse più utile, sarebbe stato quello di maturare un concetto di sinistra adatto all’Italia. Eppure, l’anti-Berlusconismo offriva una scorciatoia facile e senza ostacoli, che conduceva a una buona presenza in parlamento e nei programmi televisivi, senza l’incombenza di immischiarsi nelle grane e nelle responsabilità che il potere porta con sé. L’esperienza della Seconda Repubblica, insomma, ha portato a un suicidio ideologico di massa. Mentre Berlusconi annullava il centro e il centro-destra, i pensatori della sinistra si buttavano giù dalla scogliera del dibattito politico, intruppata come tanti piccoli lemmings.
Ma con quale presunzione, oggi, i lemmings della sinistra italiana vogliono oggi elevarsi a cantori del nuovo concetto ideologico, dopo un’assenza durata due decenni? È mancato del tutto un dibattito sulle responsabilità dell’opposizione italiana nel tracollo nazionale di oggi – come conseguenza della crisi finanziaria globale. È mancato un vero discorso sulle responsabilità. La colpa, per qualche strano motivo, è sempre di “altri”. È colpa ovviamente di Berlusconi. È colpa poi di Walter Veltroni e del suo “fallimentare progetto di riunire la sinistra sotto una sola bandiera”, che avrebbe causato una “perdita d’identità”. È colpa naturalmente di Tony Blair, per i motivi che abbiamo visto. Infine – e sembra ormai una filastrocca – è colpa di “turbo-capitalismo, iper-globalizzazione, neoliberalismo”.
Queste ultime accuse sembrano gli slogan di qualche neo-comunista al comando di nazioni pre-industriali del Sudamerica. A Tony Blair si preferisce la strategia di marketing di Hugo Chàvez ed Evo Morales. Per i cantori della sinistra italiana, la crisi economica – e con essa la crisi del Blairismo – rappresenta solo un’occasione per resettare il dibattito politico e riportarlo al 1991.
C’è da spaventarsi ad ascoltare chi afferma che la soluzione sarebbe quella di un “ritorno allo statalismo” come soluzione ai problemi italiani. È spaventoso perché, nell’anestesia anti-Berlusconica e anti-Blairista, in Italia il “mercato” non c’è mai stato. È un dato di fatto: con una spesa pubblica pari a circa il 50% del Pil, tutto questo “neoliberismo” in Italia si vede proprio dove stia. In Italia, le società a partecipazione pubblica sono circa 5.000, “di cui circa 400 a partecipazione diretta o indiretta dello stato (attraverso il Ministero dell’economia e delle finanze)”. Queste cinque migliaia di imprese occupano 1.170.000 persone – di cui circa mezzo milione attivo nelle magiche 400 del Ministero delle finanze. A esse si aggiungono altri 3.400.000 dipendenti pubblici.
Non è ben chiaro poi in cosa consista davvero per la sinistra il concetto di “alternativa al mercato”, e neanche a quali paradigmi ideologici esso debba far riferimento. Lo spessore della discussione ricorda le assemblee studentesche all’occupazione del liceo – e di esse sembra avere il tono di fanatico radicalismo.
Questa situazione dipende da un problema essenziale: per vent’anni la sinistra italiana si è rifiutata di ascoltare la società. C’è un conservatorismo ideologico che fa il gioco dei pigri e dello status quo, sia esso politico o industriale. L’impasse dipende dalla confusione del concetto di “neoliberismo” con quello di “iniziativa privata”. Metter su un’azienda per pagare le tasse e potersi permettere lo stato sociale, magari assumendo persone, non è “neoliberismo”, ma “iniziativa privata”, che avrebbe fatto la gioia anche di Keynes. Ma per larga parte della sinistra italiana, se qualcuno prova a sostenere qualcosa di positivo in merito all’iniziativa privata, come minimo si trova legato al collo il cartello di “fascista”.
È chiaro che non tutto ciò che è privato, è buono. Gli eccessi finanziari sono stati un male da condannare senza alcuna reticenza. Lehman è scomparsa, ed è stato giusto che sia così. Ma la “Generazione Lehman” che usciva dagli uffici di Canary Wharf lo faceva dopo decenni di sviluppo economico, mentre in Italia tra il 2001 e il 2010 la crescita complessiva è stata dell’1%.
Per l’immobilismo italiano hanno dovuto pagare i “fuori casta”, mentre si dibatteva contro Berlusconi e si guardava Blair con diffidenza. Ci hanno rimesso i giovani, che non hanno potuto contare su una forza politica in grado davvero di proporre un percorso e un ruolo per inserirsi nella società. Al posto della Generazione Lehman, abbiamo avuto (e ancora abbiamo) la “Generazione 1000 euro”. Essa è una generazione perduta. Le iscrizioni all’Università sono in calo, e la disoccupazione giovanile è in continua crescita. Lo ha affermato anche il Fondo Monetario in una rilevazione dell’aprile 2012: l’Italia rischia di avere una generazione di disoccupati.
Mi si perdoni, e mi si tacci pure di cinismo, ma tra appartenere alla “Generazione Lehman”, prodotto del Blairismo; e la “Generazione 1000 euro”, prodotto del cinismo politico italiano, sceglierei di gran lunga la prima categoria. Perché, in fondo, nella classifica OCSE l’Italia è subito dopo la Gran Bretagna come paese dove l’ascesa sociale è impossibile. Che si tratti di mercatismo o ignavia, il risultato è stato lo stesso: la società ha perso vitalità. In Gran Bretagna, vent’anni di sviluppo, ancorché “drogato”, hanno portato a un cambio continuo e radicale di leadership nei sistemi anglosassoni – elemento che da noi è completamente mancato.
La contingenza italiana propone appigli a chi propone l’ideologia statalista. Le reazioni della sinistra alle tasse del governo Monti sono timide, e le nuove insensate gabelle vengono commentate appena da dichiarazioni fermamente evanescenti: “dobbiamo fare di più per la crescita! Dobbiamo sostenere chi produce reddito”.
Alla fine, in Italia si accetta il peso delle tasse più alte al mondo ammantandolo di ideologia. È chiaro, però, che il paese non riuscirà mai a tassare la sua via verso l’uscita dalla crisi. Non c’è niente di ideologico nel accettare che le imprese debbano pagare un carico fiscale del 68,6% sull’utile, e non c’è niente di ideologico in un livello di tassazione effettiva pari al 52,7% dell’economia, come in Italia. Si tratta solo di cattiva gestione. Queste tasse mostruose non sono servite a creare un sistema sociale aperto, inclusivo, meritocratico o giusto. Le risorse sono state distribuite male e ingiustamente – si osservi la polarizzazione delle pensioni, o i redditi dei politici, o la gestione improbabile delle risorse da parte delle amministrazioni regionali e locali.
La sinistra deve proporre un’ideologia credibile alla società: ripetere l’abbecedario del bravo comunista di quarant’anni fa è solo populismo. Cercare consenso continuando a ripetere che tutti avranno un posto fisso, e tutti avranno subito una casa a canone accettabile, e che tutti saranno benestanti, è una cinica utopia. L’Italia è in crisi profonda. Non c’è più reddito da distribuire per il posto fisso come usava negli anni Ottanta: i giovani sono stati ormai e irrimediabilmente sacrificati all’altare dell’edonismo economico. È inutile spingere i giovani alla “lotta al precariato”: è solo populismo. La “lotta al precariato” da parte dei giovani sembra una corsa per l’accaparramento degli ultimi posti disponibili, che sta lasciando fuori dagli uffici una massa di esclusi – e lo dicono i numeri sulla disoccupazione giovanile.
È avvilente osservare i giovani laureati chinare la testa e chiedere un contratto di lavoro decente. Questa rabbia deve essere diretta a cambiare il meccanismo delle rendite, non a farne parte. Il rinnovamento può provenire solo dalla generazione perduta. I precari possono essere l’avanguardia del cambiamento. Devono spingere il paese a tornare a produrre ricchezza. Abbiamo assistito a scene degradanti negli ultimi mesi. Precari hanno tentato di bloccare l’auto di un Ministro per avere un contratto fisso da impiegato nella pubblica amministrazione. Una laureata voleva far causa al Ministero dell’istruzione perché con il titolo di studio non aveva lavoro garantito.
Ma che senso ha umiliarsi per bussare alla porta di un’economia chiusa e arretrata, per elemosinare un “posto fisso”? Bussando alla porta del latifondo industriale, non si fa altro che rinvigorirlo. Si chiede di essere ammessi umilmente a far parte della rendita pseudo-statale. In questo modo, i precari non danno davvero fastidio a nessuno. Fanno solo comodo.
Se la sinistra rifiuta il confronto con la modernità, riuscirà a vivacchiare sul consenso di chi crede in utopie di altri tempi e altre contingenze. Infine, si candiderà di nuovo al declino. Ma immancabilmente, i leader della sinistra italiana si presentano alle conferenze con il testamento ideologico di Tony Judt, “Ill Fares the Land”, libro che sostiene la necessità di un ritorno alla sinistra conservatrice. Il Blairismo? È male! L’economia di mercato? È male! Cosa deve fare la sinistra? “Ritrovare l’identità”: insomma, diventare conservatrice. Per chi ha nostalgia delle ideologie targate 1968, Judt è un po’ come la coperta di Linus: li consola. L’economia di mercato emersa dopo la caduta dell’Urss è cattiva, e il ritorno all’ideologia classica è buono. Essere nostalgici paga di più rispetto all’impegno.
Tony Judt è la una letteraria certificazione di qualità della pigrizia ideologica italiana, del tipo “non abbiamo fatto niente, e perciò abbiamo fatto bene!”. Si vuol dare dignità ad anni di blaterazioni sul ritorno alla sinistra tradizionale, mentre il mondo marciava inarrestabile.
In fondo, ha ragione chi sostiene che lo “stato sociale” sia una forma di investimento nello sviluppo, ma perché esso sia sostenibile rimane necessario produrre reddito. Solo tornando a produrre reddito, si potrà sviluppare uno stato davvero inclusivo. Lo stato sociale, purtroppo, è una conquista dell’evoluzione della società. Se la società arretra, arretra anche esso. Ma dalla sinistra arrivano solo parole stantie di “crescita”, “dobbiamo dare opportunità ai gggiovani”, “dobbiamo combattere la piaga del precariato”.
La sinistra italiana è stata troppo radical chic per abbassarsi a imparare qualcosa da Blair: era considerato un impresentabile parvenu nel museo della sinistra storica – e ha commesso l’errore di volerci mettere un gift shop. Una reazione conservatrice, a questo punto, è il peggio che possa capitare. Non è forse il caso, con un po’ di umiltà, di osservare il mondo per ciò che è diventato, e adattarsi a esso? In periodi di crisi, essere romantici non paga.