E se il berlusconismo stesse per diventare un fenomeno carsico? Solo sotterraneo, che scorre sottotraccia? Riassorbito da quella stessa terra che l’ha fatto germogliare ormai esattamente vent’anni fa, proprio di questi tempi? Per riemergere forse, chissà, di tanto in tanto, qua e là ma in occasioni solo eccezionali? Viene da chiederselo dinanzi al “cappotto” del voto del 9 e 10 di giugno. Anche se l’astensione ha fatto il suo corso e, di fatto, ha votato anche lei contribuendo all’esito, su un fronte come sull’altro. Sfavorendo il centrodestra e avvantaggiando il centrosinistra.
Sedici a zero è un risultato notevole. E inequivocabile. Che aiuta il centrosinistra e potrebbe persino rafforzarlo, anche se l’esito non è affatto scontato. Perché il centrosinistra, in genere, gioca sempre contro se stesso e non riesce nemmeno ad acciuffare le occasioni positive per rigenerarsi e consolidarsi. Ovvero, vince e continua a vincere malgrado se stesso quando non, addirittura, a propria insaputa.
La sconfitta del centrodestra appare invece più pesante. È una sicura punizione inflitta dal proprio elettorato alla compagine berlusconiana, ma è anche la dimostrazione che quando il partito di Berlusconi deve mettere in campo una classe dirigente, e non solo facce e figuranti dietro la forza trainante delle sue spalle, il partito non c’è. E la classe (dirigente) nemmeno. Del resto anche in politica, ormai, lo stile è l’uomo e, nella fattispecie, sembra stia venendo meno sia l’uno che l’altro.
Ed è pur vero che in questo ballottaggio, soprattutto, Berlusconi non s’è speso per nulla e che un endorsement fatto anche di malavoglia e con scarsa convinzione è poca cosa. Ma le elezioni amministrative di giugno sono non solo la prova del nove della tenuta momentanea o meno del centrodestra ma anche di quella futura. Reggerà alla prova delle politiche? Intanto il centrosinistra, nel frattempo e nelle more del principale competitor, può prendere solo una boccata d’ossigeno ma deve correre e respirare ancora molto prima di poter cantare vittoria.
Quanto al Movimento 5 Stelle si consola con Pomezia e il piccolo comune di Assemini, vicino a Cagliari, ma è ben misera cosa. Ed è la vera delusione e spreco del momento. La dissipazione di una risorsa enorme accumulata nell’exploit del voto di febbraio. Anomalo, composito, di protesta e di consenso insieme, astensionista ma non del tutto convinto a praticare questa via fino in fondo, e pure di risulta. Non basta la “blasfemia” sproloquiante del leader per fare un movimento e incidere nella realtà. Anzi, la stessa “blasfemia” è riuscita nel prevedibile risultato di far sprecare un patrimonio di voti e anche di speranze. In quasi cento giorni di vita il linguaggio grillino non ha inciso per nulla nella realtà. Anzi.
Si è rivelato uno spauracchio e quel poco di cambiamento che è riuscito a indurre l’ha ottenuto piuttosto in forza e grazie alla paura degli altri che hanno raccolto l’essenza del messaggio declinando nuovi comportamenti e azioni. È un fenomeno quasi risucchiato, non del tutto carsico come lo sta diventando Berlusconi ma che s’appresta a diventarlo, seguendone le orme.
Del resto, proprio a Roma abbiamo visto al primo turno – come ha ben documentato l’analisi-rilevazione dell’Istituto Cattaneo di Bologna – che il M5S ha ceduto una quota rilevantissima di elettori (l’11,4%, più del doppio di quelli rimasti su De Vito): «Rispetto alla questione su cui ci si è interrogati all’indomani delle elezioni (il M5S delle politiche come “traghettatore verso l’astensione” o come approdo temporaneo prima di un ritorno ai “vecchi” partiti?), sembra che la prima lettura sia più adatta a descrivere il comportamento degli elettori del partito di Grillo in questa tornata elettorale romana (elettori stanchi dei partiti tradizionali che hanno “provato” M5s alle elezioni di febbraio, ma che, delusi anche da quel voto, hanno deciso questa volta di non recarsi alle urne)» aveva analizzato il Cattaneo all’indomani del primo turno. Tant’è che in vista del ballottaggio del 9 e 10 di giugno, già questi flussi qualcosa dicevano.
E cioè che «la provenienza degli elettori dei principali candidati esclusi dal secondo turno (De Vito e Marchini) sembrerebbe indicare che Marino potrebbe aumentare il vantaggio già consistente da cui parte (la conferenza stampa di Marchini che auspica una “forte discontinuità” con l’amministrazione attuale rafforzerebbe questa impressione)», anche se la competizione del secondo turno può sempre innescare dinamiche nuove.
Tuttavia, nel tornare ai due punti di maggiore discussione, e cioè «(dove sono finiti i voti del M5s? da dove arriva l’astensione?), si possono osservare – osserva l’istituto di analisi politica bolognese – che riguardo alla prima questione De Vito ha saputo conservare solo un quarto dei voti del M5S delle politiche (24,8%). Il 55% dei voti conquistati nel voto di febbraio finisce tra gli astenuti. A Marino va circa il 12% e ad Alemanno il 6%. Marchini, che con il candidato pentastellato condivideva il fatto di essere estraneo ai due principali schieramenti, non sembra invece aver tratto benefici dall’emorragia di voti a cinque stelle (meno del 2%)».
Del resto, una politica “lanzichenecca” non rassicura neanche l’elettorato che vuole vendicarsi, che è stufo. Perché non porta da nessuna parte. Neppure per se stessi. E il flop siciliano è l’emblema di questo sbocco.