La crisi finanziaria e del debito nella zona euro ha posto alla social-democrazia europea una scomoda domanda: come superare i paradigmi della “terza via” ora che la globalizzazione ha smesso di pagare i suoi dividendi? E come farlo in un contesto di severi vincoli alla spesa pubblica? In Europa la sinistra sembra muoversi verso la riscoperta o quantomeno la rielaborazione dei suoi valori tradizionali, insistendo sulla incompatibilità di politiche di austerità – identificate con l’attuale dominio conservatore sul continente – con la crescita sostenibile e la necessità di rilanciare l’occupazione.
Allo stesso tempo, la luna di miele di blairiana memoria della sinistra con i mercati sembra essersi bruscamente interrotta, come testimoniato dalla campagna del gruppo dei Socialisti e Democratici del Parlamento Europeo sulla tassazione delle transazioni finanziarie. Socialdemocrazie mature come quelle francese e tedesca stanno fortemente puntando su tale strategia – come confermato dalla campagna elettorale di François Hollande – nel timore che in tempi di crisi e disoccupazione di massa una convergenza verso il centro non faccia che stimolare emorragie di voti verso le ali estreme e il populismo.
Ma come può reagire una socialdemocrazia immatura come il Pd, la cui cifra esistenziale è stata fin dalla nascita un riformismo pro-mercato e una radicale negazione dell’esistenza stessa di quelle fratture sociali, implicite al capitalismo, che sono nei miti fondativi della socialdemocrazia europea? La sinistra italiana si trova nella posizione più scomoda, poiché ogni accenno di ritorno alle radici proveniente dal socialismo europeo altro non sarebbe che la negazione della narrativa fondante del Pd.
Tale difficoltà si è manifestata in tutta la sua evidenza a Parigi nello scorso marzo. Pierluigi Bersani ha firmato, congiuntamente a François Hollande e al segretario della Spd Sigmar Gabriel, il manifesto progessista «Growth, Solidarity and Democracy: Setting a New Course for Europe». Il manifesto critica il Fiscal Compact presentandolo come una pericolosa e recessiva politica conservatrice. Allo stesso tempo, il Pd non fa mancare il suo appoggio al governo Monti, la cui azione è ispirata da un’ortodossia liberale di stampo anglo-sassone e una ricetta monetarista fortemente sostenuta da Berlino e Francoforte. Emerge dunque un paradosso: se il Pd considera la strategia del governo responsabile, ha dunque firmato un manifesto irresponsabile. Se il partito è invece in sintonia con la linea del manifesto, sta dunque sostenendo politiche inappropriate e conservatrici.
Il paradosso è emerso in tutta la sua evidenza in occasione delle discussione sulla riforma del lavoro. Annunciata come un tentativo di introdurre in Italia il modello della flexicurity danese, fondato su una minore protezione del posto di lavoro ed una tutela estensiva ed universale del lavoratore sul mercato, la riforma sembra introdurre la prima caratteristica disattendendo le aspettative sulla seconda. Nella sua formulazione originaria, il governo ha sembrato scegliere una strategia particolarmente conflittuale con i sindacati, ed in particolare la CGIL. Al punto da suggerire ai commentatori l’impressione che il negoziato fosse piuttosto una battaglia simbolica – in particolare sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori – finalizzata a presentare agli investitori internazionali la “sconfitta del sindacato”: una rivoluzione nel sistema di relazioni industriali per cui le parti sociali non avrebbero più potuto porre veti sulle decisioni del Parlamento. Ma lungi dallo sconfiggere il sindacato, la strada scelta dal governo ha finito col porre una minaccia esistenziale allo stesso Pd.
Con l’ingloriosa fine della leadership di Walter Veltroni, la contraddizione fra una sinistra “sociale” – preoccupata, almeno in termini strategici, della necessità di non alienare I voti della CGIL – e un riformismo centrista radicalmente ispirato da un’agenda liberale – è stata nascosta dalla necessità dell’opposizione a Berlusconi.
Con l’arrivo di un governo tecnico dalle forti inclinazioni neoliberali, tale contraddizione è emersa in tutta la sua drammaticità. L’operato del governo ha posto in particolare la componente sinistra del Pd – teoricamente facente riferimento alla leadership del segretario Bersani – di scegliere tra Monti e la CGIL, rivelando un’ulteriore debolezza del Pd nell’affrontare la questione chiave dell’inclusione dei gruppi marginali nelle istituzioni del mercato del lavoro. A quanto si apprende dai lavori parlamentari, la contraddizione è stata risolta dal partito con riformulazioni della riforma che sembrano renderla anche più incoerente. Nel tentativo di non alienare i sindacati, il Pd ha scelto di focalizzare i suoi emendamenti sulla sola questione del reintegro per motivi economici. Nelle stesse parole del governo, un cambiamento “simbolico” e facilmente aggirabile.
Nulla dunque è stato migliorato in sede parlamentare in termini di estensioni sostanziali delle tutele verso le componenti marginali del mercato del lavoro, sacrificando così la protezione degli atipici all’altare del compromesso con il sindacato – interessato principalmente alle parti della riforma concernenti la disciplina della flessibilità in uscita. Il compromesso che si va profilando non risolve dunque la segmentazione di un mercato di lavoro estremamente frammentato. Una strategia pericolosa da parte del Pd, che sembra avere scelto di non rappresentare gruppi dal crescente peso elettorale e particolarmente sensibili alle suggestioni populiste.
Il lusinghiero risultato delle recenti elezioni amministrative, che conferma le proiezioni che indicano nel Pd il primo partito, non può dunque nascondere l’esistenza della contraddizione di un partito intrappolato fra il governo, i sindacati e gruppi emergenti (per la verità da diversi anni) drammaticamente sottorappresentati. Una contraddizione espressa da una componente sinistra che appoggia Monti con scarsa convinzione coltivando l’idea tattica di un’alleanza con il centro, e da una componente centrista a sua volta piuttosto frammentata ma che condivide ben poco dell’appartenenza del Pd ad una famiglia socialista europea in fase di riscoperta dei diritti sociali erosi dalla risposta dell’Europa alla crisi.
Eccellente analisi. Il PD è tuttora un partito “ma anche” .
Diciamolo chiaro non ci sono le condizioni per farcadere Monti. E’ stato un passaggio obbligato sostenerlo e lo e’ continuare.
Pero’ certamente il PD dovrebbe presentare un programma coerente e vedere chi ci sta.
Culturalmente il social-liberismo è fallito e necessita una nuova sintesi a sinistra.