Quello che Le voglio chiedere è prima di tutto di immaginare la sequenza più logica ed efficace possibile perché l’opposizione arrivi alle elezioni in modo da poter battere Berlusconi proponendo un’alternativa di governo.
Prima di immaginare è bene guardare. E a chi guarda è difficile non vedere che questa domanda ha già una risposta, appunto quella «sequenza logica» che lei pretenderebbe dame. Ma questa risposta e questa sequenza non hanno nulla a che fare con l’obiettivo di «battere Berlusconi alle prossime elezioni» grazie a «una proposta alternativa di governo».
La linea che negli ultimi tempi si è andata affermando dalle parti del Pd e, pian piano estendendo, a tutte le opposizioni e anche oltre, più che come battere Berlusconi si interroga su come accompagnarlo all’uscita, e come succedergli poi. A partire dal 27 aprile del 2009, diciottesimo compleanno della signorina Letizia, ogni giorno che passa è sempre più evidente che il viaggio di ritorno del Cavaliere è iniziato. Iniziato è naturalmente molto diverso da finito, e, soprattutto, nel caso del nostro Presidente è imprudente farsi prendere dalla fretta. Ma lo svolgersi degli eventi ci ricorda che tutto quello che inizia è destinato prima o poi a finire, soprattutto quando, come nel nostro caso, i segni del logoramento a livello personale, di partito, e di governo vanno accumulandosi con continuità crescente.
Di fronte a questa situazione sembra che si dica: a «battere Berlusconi» è bene perciò che continui a pensarci Berlusconi, visto che ci sta riuscendo così bene. Quanto a batterlo «alle prossime elezioni» è un’altra cosa. Se in una cosa Berlusconi è bravo, anzi bravissimo, è infatti proprio nel vincere le elezioni: tanto più con la capacità di controllo dei media, e questa «porcata» di legge elettorale ora vigente.
E allora come uscire dal serio paradosso di un Cavaliere bravo a vincere le elezioni, ma anche eccellente nel «battersi da solo» come uomo al governo una volta che abbia vinto?
La risposta che viene dalla maggioranza Pd sembra essere “tutto dobbiamo fare quindi all’infuori che avvicinare le elezioni. Se un obiettivo dobbiamo perseguire è semmai quello di allontanarle. L’uscita alla quale Berlusconi va accompagnato e accompagnato al più presto – si conclude – è quella del governo”. Allontanare le elezioni, e avvicinare la caduta del governo pone tuttavia il problema di chi governa nel frattempo. Un gioco da ragazzi nella prima Repubblica e anche a stare alla lettera della Costituzione che è, nonostante tutto, l’unica di cui disponiamo. Come comportarsi invece in questa terra di mezzo nella quale, nonostante la Costituzione, abbiamo fatto credere ai cittadini che il governo e il Presidente lo scelgono loro? Come evitare le accuse di ribaltone e tradimento che hanno accompagnato in passato i governi non nati dal voto popolare? Come azzerare d’un colpo quella «democrazia dei cittadini» fondata sulla competizione aperta, sulla partecipazione alla scelta primaria dei candidati oltre che degli eletti, sulla investitura diretta dei governi, che vedono all’estero ogni giorno in televisione e praticano da tempo nei governi dei comuni, delle province e delle regioni, e perfino nella vita interna di partito, e come tornare alla pienezza della democrazia parlamentare nella quale partiti squalificati dovrebbero intestare a parlamentari squalificatissimi, la scelta del governo sottraendola ai cittadini?
Da qui la sequenza che in questi mesi ha portato i partiti dal «non si potrebbe», poi «si potrebbe solo a precise condizioni», poi al «si può» e ora al «si deve». Sì, un governo nuovo che sostituisca Berlusconi si deve. Si deve perché solo un irresponsabile potrebbe mai portare il paese a elezioni nel pieno di una crisi economica epocale. Si deve perché solo un suicida può andare a nuove elezioni senza aver cambiato prima questa legge elettorale. Mica siamo in Inghilterra, o in quei paesi nei quali si continua a giocare alla democrazia nonostante la crisi economica e magari si mette al centro della scelta anche la legge elettorale prossima ventura.
E torniamo così alla sequenza di cui alla domanda iniziale.
E allora diciamo che il nuovo governo è necessario proprio per alleggerire i cittadini della fatica di questa scelta, per chiamarli al voto a cose fatte: dopo aver fatto una nuova legge elettorale e risolto la crisi economica. Tutto il resto è conseguente o secondario: la durata, le specifiche proposte programmatiche, la base parlamentare. Non sorprende perciò che alla fine di ottobre troviamo apparentemente – ripeto – apparentemente in via di avvicinamento attorno a questa prospettiva dentro il Pd, dirigenti come D’Alema e Veltroni, che molti raccontano protagonisti di una infinita guerra di religione, dirigenti che si appresterebbero a competere in primarie appassionate come Bersani e Vendola, esponenti di partiti variamente in lotta come Casini, Di Pietro, e ora, Fini. Sì tutti apparentemente uniti attorno alla necessità di un nuovo governo di transizione, «per-la-legge-elettorale-ma-non- solo». Peccato che questa compagnia dovrebbe risolvere in un tempo circoscritto proprio i temi che l’hanno vista da sempre divisa: quelli che la «porcata» l’hanno promossa contro quelli che l’hanno subita, quelli che, con e per Berlusconi, hanno fatto le scelte economiche corresponsabili della crisi e quelli che le hanno contrastate.
L’unica cosa sicura è che si tratta di una compagnia diversa da quella che ha vinto assieme le elezioni. Dovendola definire dall’esterno D’Alema l’ha ricondotta alla categoria delle «forze estranee alla cultura plebiscitaria», ricomprendendo tra queste, oltre naturalmente a Fini, quelle componenti del Pdl che si ribellano alla «condizione di cortigiani di un sultanato », perché «preoccupate del destino del paese». E, mettendosi sullo stesso solco, Veltroni, che già in passato aveva sognato di avere con noi Veronica Lario, ci aggiunge «le persone che vivono con crescente disagio la deriva angosciosa» del berlusconismo pensando nientedimeno «alle parole di Confalonieri, e di Bossi».
D’accordo l’anti-berlusconismo, ma cosa terrebbe insieme questa coalizione?
Visto che non si riesce a intravedere quale programma un governo di questo tipo possa mai realizzare assieme, dopo tutto quello che è stato detto dall’interno e dall’esterno del Pd sulle contraddizioni del governo dell’Unione. Visto che sul piano della compagine non si riesce a capire perché si debba dire sì a Fini, Casini e Bossi e Confalonieri e no a Bondi, viene da chiedersi che cosa potrebbe mai concludere un governo di questo tipo. L’unica cosa che si riesce a capire è che tutto questo servirebbe a mandare a casa Berlusconi, accompagnando e rafforzando la sua crisi con la sola anticipazione dell’esistenza di un’alternativa già pronta. Va aggiunto che la fuoriuscita dal berlusconismo prospettata da questa sequenza appare come l’esito di un processo incrementale che punta all’isolamento di Berlusconi nel Palazzo quasi lo si volesse spingere come individuo ad asserragliarsi in qualche ridotta con la sua corte di prezzolate compagne della notte. Altro che personalizzazione! Altro che demonizzazione! Dopo anni consumati a denunciare la natura personale del regime berlusconiano come maggiore limite del berlusconismo sembra inevitabile pensare la sua fine come fine di una persona.
Il rischio è di abbattere Berlusconi ma anche un modello di democrazia per ritornare indietro.
Io non credo che nessuno della tavolata possa immaginare che l’origine di tutti i nostri mali sia da ricondurre alla sola persona di Berlusconi, e quindi la nostra salvezza alla sua fuoriuscita individuale. Non foss’altro che per l’eccesso di commensali che con lui hanno intrattenuto e intrattengono alleanze. Non possiamo perciò non chiederci se questo disegno più e oltre che ad accompagnare Berlusconi all’uscita ne persegua uno più importante di carattere strutturale. Penso alla restaurazione nella sua pienezza della democrazia parlamentare fondata sui partiti, o, come dicono i cattivi, sui capi partito, messa in crisi dalle riforme dell’inizio degli anni Novanta. Se così fosse, come io penso, sarebbe evidente che dell’assetto finale il governo transitorio più che una parentesi sarebbe un’anticipazione, più che un mezzo, un fine. Con uno slogan si potrebbe dire che questo disegno punta a disfarsi in un colpo del bambino della democrazia dei cittadini assieme all’acqua sporca del berlusconismo. Questo non significa non riconoscere l’esistenza dell’evidente contraddizione che con l’inizio degli anni Novanta si è aperta tra la Costituzione materiale e la Costituzione formale del paese. Ma una cosa è risolverla tornando indietro con un riallineamento di quella materiale a quella formale. Un’altra è risolverla in avanti riformulando la Costituzione formale per recepire, riequilibrare e regolare i cambiamenti intervenuti in quella materiale.
Chi voglia contrastare il progetto di restaurare la repubblica dei partiti azzerando le battaglie di questi anni per l’affermazione di una repubblica dei cittadini, chi voglia contrastare il ritorno a un assetto consociativo nei rapporti tra i partiti, non ha che una scelta: incalzare Berlusconi senza dargli alcuna tregua, ma allo stesso tempo resistere al disegno che, mettendo a frutto la crisi del berlusconismo, si propone di annullare la democrazia competitiva, cominciando da una sua sospensione temporanea.
Il modo in cui Berlusconi sarà accompagnato all’uscita annuncia secondo Lei l’assetto successivo, ma allora, come altrimenti procedere?
Torniamo allora sul sentiero lungo il quale abbiamo camminato in questi anni. Mettiamo alla prova oggi in Parlamento la disponibilità riformatrice delle forze con le quali vorremmo condividere la responsabilità del governo guidati dalla consapevolezza che è in Parlamento che le riforme vanno fatte e che le regole sono il tema che per eccellenza chiama le forze dei due campi a un patto che supera la collocazione di parte. È quello appunto che scrivemmo sedici anni fa alla prima riga della prima scheda del programma dell’Ulivo. Prepariamo allo stesso tempo l’alternativa a Berlusconi denunciando innanzitutto la sua maggiore impostura: la pretesa di un inesistente disegno riformatore, prospettata solo per nascondere la difesa degli interessi suoi e dei suoi compagni d’affari, l’unico e vero motivo della sua discesa in campo. Organizziamo infine una coalizione programmatica accomunata da un progetto di lunga durata e allo stesso tempo da una guida scelta assieme ai cittadini. Così come dal voto dei cittadini Berlusconi è stato portato al governo, dal voto dei cittadini deve essere rimandato a casa. Se pensiamo che questo non sia possibile ora, di fronte all’evidente spettacolo del suo fallimento, come pensare possa darsi un’occasione migliore?
Se si sceglie questa via bisogna decidere come e chi seleziona il candidato Premier da opporre a Berlusconi. Per essere ancora più concreti facciamo l’esempio di Chiamparino, la cui candidatura a Premier di una coalizione di questo genere è una delle possibilità, accanto a quelle di Bersani e di Vendola. Lui l’ha annunciata come possibilità, ma, interrogato sul quando, risponde che al momento non si intravedono elezioni primarie di nessun genere e dunque non saprebbe dove e come candidarsi.
Chiamparino ha ragione. La verità è che le elezioni primarie fanno capo a una concezione della democrazia che il Pd non ha ancora compiutamente scelto. Se, come ho detto prima, la linea della catena di comando che guida il partito sembra tentata dal ritorno a un assetto e a una logica consociativa, è perché una scelta stabile a favore della democrazia competitiva ancora non l’ha fatta. Non l’ha fatta per quel che riguarda il sistema politico nel suo insieme. Non l’ha fatta per quel che riguarda il partito. Meglio. Dietro la conclamata adozione di istituti e meccanismi importati da democrazie competitive sopravvivono regole, prassi, e, soprattutto, atteggiamenti culturali che stigmatizzano la competizione e si propongono di addomesticarla fino a riportarla a modelli cooptativi. È per questo che di primarie vere finora se ne sono viste poche.
Se si escludono le due che hanno visto in Puglia vincitore Vendola e alcune per la candidatura a sindaco, a cominciare da quella di Renzi a Firenze, le primarie sono state pensate come plebisciti eventuali a favore del candidato ufficiale del partito predestinato alla vittoria. È per questo che nel lessico sopravvive la dizione: primarie «per» Prodi, o «per» Veltroni. Tutto il contrario di quelle competizioni aperte e trasparenti che i cittadini sono abituati ad associare al termine primaria nelle cronache che ci giungono puntuali dall’America. Quando nel 2004 conquistammo con fatica, e con quale fatica, le primarie «per» Prodi sapevamo che in quel modo si apriva a malapena un percorso, si indicava una meta. Non avrei tuttavia immaginato che dopo sei anni saremmo stati ancora più o meno al punto di partenza. Per chi segue le vicende locali, da Bologna a Milano, non è difficile comunque vedere che la causa del ritardo, più che ai calcoli di questo o di quel capo politico, fa capo innanzitutto a una irrisolta questione politica generale. Se è vero infatti che le primarie americane presuppongono in ognuno dei campi un singolo partito, da noi il percorso delle primarie è stato intrapreso proprio perché il partito non esiste.
Se l’assetto bipartitico era il punto di partenza, da noi è il punto di arrivo. Un modo per sostenere la vocazione bipartitica del nostro bipolarismo, chiamando gli elettori che pur scegliendo partiti diversi appartengono allo stesso polo a scegliere assieme almeno l’unico riferimento che li accomuna: il programma e la persona che è chiamato a realizzarlo. Le primarie sono il modo attraverso il quale si costruisce nel presente il bipolarismo e la democrazia dei cittadini. Senza di esse in una democrazia di investitura si finisce a scegliere tra un fronte di partiti guidati da un partito egemone, o spinti a precipitare nel bipartitismo. Il rifiuto di riconoscere alla coalizione, e ai candidati di coalizione, un’esistenza diversa dalla mera somma dei partiti spinge a considerare la competizione primaria come una gara tra partiti e quindi a vedere ogni partito impegnato a favore del candidato di bandiera, e non invece a una competizione tra persone per una leadership di coalizione che proponga ogni candidato come candidato di tutti. Da questo l’inevitabile attesa che il candidato ufficiale del partito maggiore esca vincitore dalla competizione. In una configurazione della coalizione di tipo frontista, quale quella attualmente prospettata dal Pd, come una pluralità di partiti con un partito guida, piuttosto che aprire una gara tra candidati di partito tanto varrebbe che il Pd dicesse «questo è il mio candidato, fatevene una ragione». Sì, Chiamparino ha ragione. Fino a quando non esisterà un posto che si chiama «leader di coalizione», e non si riconosce e si rispetta il diritto degli elettori della coalizione di scegliere liberamente tra i candidati in lizza senza che nessuno lo richiami a una lealtà di appartenenza di partito non si capisce a che cosa uno si candidi.
Le sembra quindi possibile che non si tengano primarie? Chi può dare a Vendola o ad altri il diritto di lanciare la sfida e di tentare la loro carta?
Se a livello locale, nei comuni, nelle province e nelle regioni, la necessità di designare il candidato di coalizione preposto alla carica monocratica apicale è destinata a mantenere aperta la questione delle primarie, lo stesso non mi sentirei di dire per il livello nazionale. Se ad esempio l’idea di abbandonare il maggioritario, col contorno di premio di maggioranza e l’indicazione del Premier sulla scheda, dovesse avere la meglio, come sembra essere nelle intenzioni dei promotori del disegno del quale abbiamo parlato prima, tutto tornerebbe in discussione, le primarie per prime. Al massimo ogni partito scenderebbe in campo nelle elezioni col proprio candidato, sapendo tuttavia fin dall’inizio che tutto sarà deciso dopo il voto in Parlamento. È come se uno dicesse: se ce la facciamo a vincere da soli il candidato sarà il nostro, altrimenti tutto si vedrà dopo le elezioni in parlamento. Da questo punto di vista le cosiddette primarie del Pd corrisponderebbero a null’altro che all’elezione diretta del segretario del partito, che sarebbe inevitabilmente il candidato esibito nella campagna elettorale, e poco più.
Ma se la situazione non precipita e il modello istituzionale di riferimento resta quello attuale, come si può organizzare una competizione per la leadership? Che cosa fare per riaprire una sana competizione perché vinca il migliore, ovvero il candidato o la candidata che secondo gli elettori abbia le maggiori possibilità di battere lo schieramento avversario?
La prima condizione è essere convinti che le primarie servano a qualcosa. Non a farsi belli per il semplice fatto che le si fa, a dimostrare che si è moderni e alla moda, e quindi temere di apparire brutti vecchi e cattivi per la sola esitazione nel farle. Prova a dire a un dirigente del Pd: «ma queste primarie bisogna farle per forza?». Basta leggere le dichiarazioni dei dirigenti ufficiali. Appena dopo aver rivendicato il fatto che «le primarie le abbiamo inventate noi», ti imbatti prima o poi nella affermazione che «non sono un dogma», «non ce le ha ordinate il dottore», «ora ci sono altri problemi», «come in tutti i paesi normali le faremo qualche mese prima delle elezioni». Non cito gli autori solo per carità di patria.
La verità è che, solo in un partito che si ispiri, al suo interno e al suo esterno, a una logica competitiva le primarie possono trovare una spiegazione convincente. Al di fuori di questo sono solo un belletto. A uno che ci credesse veramente la prima cosa che raccomanderei è di indirle tempestivamente con certezza, indicandone molto prima il calendario. Proporsi per una carica di governo è una cosa molto seria. Chi si propone questo obiettivo non può farlo alla leggera lasciandosi andare all’improvvisazione. Farlo richiede una lunga preparazione. Farle davvero produce lacerazioni e ferite. Senza un periodo che consenta successivamente di lenirle, ricucirle e dimenticarle, vincere le primarie è il modo più sicuro per perdere le elezioni finali.
L’altra condizione è che chi partecipa alle primarie, sappia che se perde è destinato a farsi da parte. Una delle sciagure più grandi di questa stagione di primarie democratiche è la loro utilizzazione per pesare leader secondari. È vero che in primarie finte come la gran parte di quelle che si sono finora svolte questo ha costituito l’unico incentivo per indurre dei sicuri perdenti a partecipare al rito di confermazione dei vincitori. Il risultato è stato tuttavia di generare a ogni passaggio nuove correnti che sono andate cumulandosi nel tempo con l’effetto che invece di rafforzare il leader primario hanno moltiplicato comprimari minori. È anche attraverso questo processo fatto di finte primarie all’italiana e di convention unanimistiche all’americana, fatte passare per congressi, che il partito è andato sempre più macerandosi all’interno e perdendo credibilità all’esterno.
Chi deve proclamare le primarie e gestirle?
L’organismo che le indice. Se le primarie sono di partito il partito, se di coalizione la coalizione. Se la definizione più semplice di coalizione è appunto l’insieme di partiti che decidono in comune le cose comuni con un metodo comune, in questo caso il nucleo centrale della coalizione è costituito dai partiti che decidono appunto di affidare agli elettori la scelta del candidato della coalizione. Gli altri saranno alleati esterni con i quali il candidato eletto tratterà la base programmatica della coalizione allargata. Ancora non ho capito esattamente quanti e quali partiti stiano nella proposta di Bersani in quel nucleo centrale che lui ha chiamato Nuovo Ulivo. Se la cosa ha un senso è comunque esattamente in questo quadro: nella capacità che questo Nuovo Ulivo condivida al suo interno la scelta del candidato premier e riesca al suo esterno a far accettare dai partiti alleati il candidato premier scelto dagli elettori. Anche al fine dell’accettazione di questa scelta da parte dei partiti esterni, quello che conta è comunque che chi promuove e chi gestisce le primarie mantenga verso la competizione la stessa terzietà e lo stesso rispetto che noi chiediamo alle strutture pubbliche per le elezioni finali.