I recenti successi elettorali dei populisti in Europa hanno creato inquietudine nell’arena politica. I politici (e i loro staff) devono parlare con gli elettori e confrontare le loro posizioni con quelle opposte per rendere visibile la competizione politica. I dibattiti devono rappresentare il pluralismo, e i politici devono farlo proprio.
I recenti successi elettorali dei populisti in Europa hanno creato inquietudine nell’arena politica. Sembra essere in gioco la stessa democrazia liberale. Politici, intellettuali e giornalisti sentono l’urgenza di “respingere i populisti” e di trovare una ricetta contro gli attacchi alle istituzioni democratiche, nonché contro il modello di agenda setting adottato da politici che della politica violano deliberatamente norme e tabù. Per arginare il populismo, oggi alcuni intellettuali sostengono la necessità di incrementare le discussioni, rendendole più aperte e appassionate, e le battaglie (parlamentari). Secondo altri, sarebbe più promettente affrontare direttamente i populisti con risposte tranquille, educate e orientate sui fatti – una sorta di “calma della ragione” liberal-democratica.
In Germania queste divergenze su quale sia la risposta adeguata al populismo si intrecciano con una critica generale all’attuale classe politica dominante e al suo discorso. Il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD), sfruttando a proprio vantaggio il senso di malcontento, è diventato una forza politica non trascurabile. Attualmente occupa una percentuale considerevole dei seggi in tutti i parlamenti federali e nel Bundestag. Tra le ragioni di questo fenomeno, molti commentatori indicano la scarsa vitalità del dibattito politico e la mancanza di una strategia antipopulista da parte dei partiti tradizionali, come mostrerebbero in particolare le debolezze retoriche della cancelliera Angela Merkel. Se l’AfD è da prendere come una malattia asintomatica, si può pensare che la strategia di Merkel – definita “post-politica” da alcuni autori (Marchart 2017) – abbia fallito. E la stessa Merkel, di fronte alle gravi sconfitte elettorali e alle aspre critiche di cui è stata oggetto, a ottobre dello scorso anno ha reagito dimettendosi dalla leadership del suo partito.
Per arginare il populismo, oggi alcuni intellettuali sostengono la necessità di incrementare le discussioni, rendendole più aperte e appassionate, e le battaglie (parlamentari). Secondo altri, sarebbe più promettente affrontare direttamente i populisti con risposte tranquille, educate e orientate sui fatti – una sorta di “calma della ragione” liberal-democratica.
Nel corso del suo cancellierato, Merkel ha ripetutamente definito le proprie decisioni “necessarie” e “prive di alternative”; l’asciuttezza del suo stile governativo e retorico ha dato il la a una discussione sui modelli del discorso politico e sulle sue complessità. Nella campagna elettorale del 2017, il candidato del Partito socialdemocratico (SPD) Martin Schulz ha esplicitamente condannato la strategia di depoliticizzazione di Merkel, definendola un “attacco alla democrazia” (Galaktionow 2017). Allo stesso modo, alcuni critici sostengono che le debolezze comunicative e politiche del suo governo siano andate a beneficio dell’euroscetticismo e del populismo di destra, che rivendica sovranità popolare, efficacia dell’azione politica e una riformulazione ideologica delle divisioni politiche. Mentre i politici come Merkel e i suoi ministri, con i loro riferimenti ai vincoli e i tentativi di dare ad altri le colpe, appaiono più che altro come degli esperti di crisis management, i populisti reclamano aggressivamente agency e credito. I populisti possono trarre vantaggio dall’impressione che le crisi – come la crisi dell’Eurozona o la cosiddetta “crisi migratoria” – abbiano messo in luce gravi problemi e sfide difficili per le democrazie in un contesto sovranazionale e internazionale. Nel caso della Germania, in sintonia con lo spirito del tempo, il discorso populista punta il dito contro gli esponenti dei partiti mainstream, che hanno giustificato le proprie decisioni e la gestione delle crisi negando qualsiasi spazio di manovra e, allo stesso tempo, screditando la protesta come illegittima, accecata dall’ideologia o irrazionale. E l’AfD denuncia opportunamente presunti tabù discorsivi e il carattere tecnocratico del processo decisionale. Questo partito ha politicizzato, con un certo successo, questioni come l’integrazione europea, l’immigrazione e la politica monetaria, inquadrandole allo stesso tempo all’interno di narrative nativiste proprie di una politica identitaria.
Alla ricerca dell’identità
Fingendo di ribellarsi ai tabù e agli standard del politicamente corretto, i populisti cercano di estremizzare. E chi cerca di estremizzare non può che patologizzare gli avversari. André Poggenburg, ex leader dell’opposizione AfD in Sassonia-Anhalt, ha detto: “Quanto è malato questo ambiente rosso-verde, a livello razziale e mentale? Quanto è degenerato? La Germania sta per abolire se stessa” (Bender / Bingener 2011). Secondo le narrative nativiste dei populisti di destra, i tedeschi, riconoscendo il multilateralismo, il multiculturalismo e una società multietnica, negherebbero la loro natura e il loro retaggio.
Purtroppo, la richiesta di una maggiore segregazione (culturale) e di una maggiore sovranità nazionale trova seguaci lungo tutto lo spettro politico, non soltanto presso gli elettori dell’AfD. Ma cos’è stato a rendere accettabili queste affermazioni e queste narrazioni anche in ambienti definibili come conformisti e borghesi?
Non si tratta soltanto del razzismo rozzo e aggressivo che ha sempre fatto parte dell’estremismo di destra, ma anche di una forma di “neo-razzismo” che sembra prosperare senza l’esplicita nozione di “razza”.
L’idea di una supremazia culturale dell’Occidente, derivante dall’eredità dell’Illuminismo, dalla secolarizzazione e da ogni sorta di progresso, così come l’idea di identità nazionali ben definite sono, in effetti, elementi ideologici cruciali per molti partiti di destra in tutta Europa. Non si tratta soltanto del razzismo rozzo e aggressivo che ha sempre fatto parte dell’estremismo di destra, ma anche di una forma di “neo-razzismo” che sembra prosperare senza l’esplicita nozione di “razza” (Balibar 1998): è questo che rende i populisti di destra apparentemente compatibili con gli elettori che si considerano ancora “liberal-democratici”.
Per costruire gruppi distinti e omogenei, i neo-razzisti non usano più caratteristiche biologiche come il colore della pelle, ma si riferiscono piuttosto alla religione e alla cultura. Queste categorie vengono sovraccaricate fino a diventare criteri di differenza stabili e presumibilmente naturali e congeniti, e poi usate per distinguere e delimitare spazi culturali, appartenenze e quindi cittadinanze. In definitiva, l’ideologia neo-razzista promuove l’idea di gruppi essenzialmente diversi, cioè inferiori e superiori, e invoca una rinascita nazionalista e una riorganizzazione del potere politico. Theodor W. Adorno già lo sapeva: “La nobile idea della cultura prende il posto della deprecata nozione di razza, ma non è altro che una semplice maschera per una brutale rivendicazione di dominio”. (Adorno 1975)
Come si incontrano dunque questi discorsi populisti su identità, nazioni e cultura? In Germania, politici diversi tra loro come il conservatore Thomas de Maizière, ex ministro degli interni, e il socialdemocratico Sigmar Gabriel, ex ministro degli esteri, hanno temporaneamente cercato di rivitalizzare l’idea della cosiddetta Leitkultur (traducibile al meglio come “cultura guida, cultura dominante”) tedesca. La loro strategia era quella di offrire una versione liberal-democratica dell’identità culturale. Tuttavia, più che una sicurezza normativa e avvalorata storicamente, le loro affermazioni hanno rivelato un’insicurezza culturale. Accettando contesti discorsivi relativi a una cultura guida tedesca che deve essere fatta propria dai cittadini, non arginano i populisti, ma li aiutano. I loro tentativi rendono chiaro che, per molte persone, la narrazione minimalista liberale del “patriottismo costituzionale”, proposta un tempo da Dolf Sternberger (1990) e Jürgen Habermas (1992), non è sufficiente. Quel che serve al dibattito politico e alla competizione tra i partiti è un diverso inquadramento dei conflitti politici e una coerente posizione socio-culturale liberale (Abou-Chadi / Wagner, in corso di pubblicazione).
Populismo e perdita di differenziazione
Oggi i politici affrontano conflitti che si caratterizzano come una battaglia ideologica tra norme liberali e universali da una parte, e nazionalismo e particolarismo dall’altra. Di fronte ai movimenti anti-europei e nazionalisti, stiamo discutendo se rafforzare l’integrazione europea oppure ripristinare la sovranità e l’indipendenza nazionali. I dibattiti pubblici riguardano sempre più la costruzione di ponti o la costruzione di muri, l’integrazione o la divisione (Kriesi et al., 2006).
La frattura tra politica democratica e politica populista amplifica una problematica perdita di differenziazione e va a vantaggio della polarizzazione politica.
In Germania, i partiti “big tent” (Volksparteien) vengono criticati per aver trascurato troppo a lungo questa frattura. Nel frattempo, le frontiere discorsive si sono spostate: le posizioni a favore della divisione sono ampiamente denunciate come “populiste”, mentre quelle pro-integrazione sono considerate “liberal-democratiche”. Questo discorso offusca tanto le diverse varianti della politica conservatrice quanto le ambiguità a sinistra. La frattura tra politica democratica e politica populista amplifica una problematica perdita di differenziazione e va a vantaggio della polarizzazione politica.
Quindi, per citare Lenin, che fare? Per superare l’offuscamento dei conflitti politici provocato da semplicistiche politiche identitarie e da discorsi su futuri scontri culturali, la classe politica deve riformulare le linee ideologiche e ricontestualizzare i problemi di oggi con l’aiuto del vecchio continuum sinistra-destra. Molti elettori dei populisti di estrema destra e dei partiti anti-sistema possono essere riconquistati affrontando questioni come le politiche del welfare e gli investimenti sociali. Di conseguenza, dovremmo discutere le prospettive di politiche sociali ben precise; quanto agli esponenti dei partiti tradizionali (che, specialmente a sinistra, hanno bisogno di lavorare su una visione democratica di nazioni integrate, di apertura culturale e di pluralità), dovrebbero perseguire attivamente tali politiche.
Il rompicapo della credibilità politica
Nel 2011, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker avrebbe dichiarato: “Quando le cose diventano difficili, bisogna mentire” (Kafsack 2011). Il filosofo Platone definì la “nobile bugia” uno strumento politico legittimo, che la classe dominante dei filosofi, grazie alla sua conoscenza della verità, avrebbe potuto usare a favore dei cittadini. Niccolò Machiavelli, com’è noto, raccomandava il sotterfugio e l’inganno per mantenere l’ordine. Oggi i politici non sono re filosofi né veri machiavellici. Agli occhi di molti cittadini, non appaiono affidabili o credibili – un problema che deve essere affrontato anche da politologi, giornalisti e intellettuali.
In risposta ai successi dei populisti, gli stessi politici hanno iniziato a chiedere maggiore “credibilità” e “autenticità”. Volendo essere ottimisti, potremmo interpretare questi nuovi slogan come un primo passo, da parte della classe dirigente, per sfidare le vecchie abitudini e riflettere sui comportamenti e le posizioni che assumono. È molto meglio sentire politici che vogliono “riguadagnare la fiducia”, anziché sentirli definire gli elettori “stupidi” o “marmaglia”, come ha fatto l’ex ministro Sigmar Gabriel nel 2015. Queste sono soltanto reazioni impotenti, ma nel frattempo assistiamo a un fenomeno inquietante: mentendo spudoratamente, i politici bugiardi che negano o inventano i fatti non scandalizzano i loro elettori e aderenti. Alcuni elettori non sanzionano più le menzogne e gli errori etici e politici.
Le narrazioni emotive e i gesti populisti sono diventati un fattore rilevante, mentre la capacità di un politico di fare compromessi, discutere, decidere e adottare politiche adeguate e razionali è trascurata. Alla fine, un osservatore cinico potrebbe chiedere: gli esponenti dei partiti politici devono mettere in campo più emozioni, azzardare più bugie, essere più populisti?
Al contrario, le promesse non mantenute da politici e governi del cosiddetto establishment sono considerate le cause dell’attuale crisi di credibilità. Angela Merkel aveva detto di non essere d’accordo con l’introduzione di nuovi pedaggi autostradali nella nuova legislatura, e un ministro del suo gabinetto ne ha proposto uno. Il candidato tedesco Martin Schulz (SPD) aveva dichiarato che il suo partito non avrebbe formato una nuova grande coalizione con la CDU/CSU di Merkel nel 2018, e il suo partito l’ha fatto. Paradossalmente, per alcuni elettori i politici dei partiti tradizionali non sembrano credibili e, di contro, i populisti rozzi e sprezzanti appaiono più affidabili proprio perché non seguono alcun vincolo, regola o norma di disciplina politica, e non controllano i loro sentimenti ed emozioni. Le narrazioni emotive e i gesti populisti sono diventati un fattore rilevante, mentre la capacità di un politico di fare compromessi, discutere, decidere e adottare politiche adeguate e razionali è trascurata.
Alla fine, un osservatore cinico potrebbe chiedere: gli esponenti dei partiti politici devono mettere in campo più emozioni, azzardare più bugie, essere più populisti? No. Oggi la politica ha bisogno di dibattiti pubblici accesi – perché le decisioni politiche devono essere discusse e corrette in pubblico. I politici devono spiegare le loro posizioni, assumere le loro responsabilità ed essere “reattivi”, cioè rispondere agli interessi e alle richieste degli elettori (Mair 2013). I politici (e i loro staff) devono parlare con gli elettori e confrontare le loro posizioni con quelle opposte per rendere visibile la competizione politica. I dibattiti devono rappresentare il pluralismo, e i politici devono farlo proprio. Nelle democrazie, i politici non guadagnano autorità con accenni autoritari alla presunta razionalità, necessità o evidenza della loro linea, ma comunicando le loro posizioni e decisioni alla luce di altre opzioni contrastanti. In questo modo, i cittadini delle democrazie liberali possono coltivare la tolleranza nei confronti delle divergenze e dei contrasti. I politici devono rischiare punti di vista controversi, rivedere e riformulare le politiche e ammettere i loro errori. Anche se, nel peggiore dei casi, questo significasse essere esclusi da una carica – un rischio che è naturalmente al centro della democrazia liberale.
Thomas Hobbes, filosofo dello stato assolutista, alla fine del Leviatano (1651) scrisse: “Quella verità che non contrasta con i vantaggi od il piacere dell’uomo, non può non essere ben accolta da tutti”. Ma dobbiamo smentire Hobbes, e ricordare ai politici che vogliamo ascoltare le loro dichiarazioni scomode e complesse. La democrazia non consiste nel fare false promesse allo scopo di essere eletti, nel rivendicare verità universali, possibilità illimitate o certezze assolute. Non ce ne sono. Questa è la vera sfida per i politici affidabili nell’era del populismo.
Questo articolo è apparso per la prima volta in inglese su EuVisions – Tracking the ideas, discourse and politics of social Europe