I movimenti sociali possono essere assai imponenti. Anni fa, Richard Rorty scrisse un articolo su Dissent descrivendo il cristianesimo e il marxismo come movimenti sociali prototipici (Movements and Campaigns, inverno 1995). Essi miravano a trasformare il mondo e a creare uomini e donne “nuovi”. Rorty si pronunciava contrario a questo tipo di ambizioni, piuttosto ci sollecitava a partecipare a quelle che lui definiva “campagne”, che evitavano aspirazioni totalizzanti e la coercizione radicale che tanto spesso ne consegue. Tuttavia le sue campagne erano stranamente simili ai movimenti sociali più familiari della nostra epoca. Voglio proseguire questa discussione difendendo questi movimenti ed esaminando come i loro militanti dovrebbero relazionarsi a quello che la maggior parte di noi intende quando parla di campagne: gli sforzi dei partiti politici di vincere le elezioni.
I movimenti sociali su cui intendo concentrare la mia attenzione sono spinti da passione morale o ideologica, ma anche dall’interesse collettivo. Essi hanno uno scopo, spesso inteso in senso stretto – il voto per le donne, il sindacato per i lavoratori, i diritti civili per i neri. “Stretto”, qui, non vuol dire di scarse vedute o irrilevante. In effetti, questi scopi si connettono a fini più ampi: superare l’oppressione, ottenere l’eguaglianza. Tuttavia essi si focalizzano su un singolo traguardo raggiungibile o su un insieme di obiettivi strettamente connessi, come Rorty riteneva dovesse essere: qui c’è qualcosa che va fatta, ora; qui c’è una lotta che può essere vinta. I movimenti ottengono il sostegno delle persone a cui intendono giovare. Non solo il loro, ovviamente, ma di queste persone in modo più cruciale: dovremmo pensare ai movimenti come a forme di auto-sostegno collettivo. Organizzatori e militanti giocano un ruolo critico, ma la cosa più importante è semplicemente questa: una gran quantità di donne e uomini diventa attiva per proprio conto, per il bene reciproco e per quello di una causa più ampia.
La causa non è monolitica o esclusiva: i suoi sostenitori possono riconoscere che esistono altre cause meritevoli, alcune delle quali sono pronti a sostenere.
Eppure per via della loro passione morale e della loro stretta attenzione e poiché perseguono un bene comune a loro caro, essi tendono ad alimentare tra loro un forte senso di solidarietà e di impegno che non accetta facilmente il compromesso. Non pensano in termini di scambio tra una causa e un’altra. Sono concentrati in maniera radicale sul proprio progetto e, quindi, non possono dire: “Va bene, rimandiamo le richieste di sindacalizzazione (si fa per dire), se si aprono nuove opportunità per le donne”. Ovviamente essi possono sempre ridurre la portata del proprio progetto: possono sacrificare alcuni dei propri legittimi beneficiari – si pensi, negli anni ’30, alla riluttanza dell’American Federation of Labour a organizzare i lavoratori neri – ma questo è il tipo di compromesso che è facile assimilare a ciò che Avishai Margalit, in un suo libro recente, definisce un compromesso “marcio”.
Occupy Wall Street, data questa descrizione, non è stato e non è un movimento. E’ stato, una sollevazione o – il tempo ce lo dirà – forse solo una fiamma di passione morale. Se intende cogliere di nuovo l’attimo dei suoi esordi, dovrà trasformarsi in un movimento. I suoi attivisti dovranno darsi un obiettivo chiaro che può essere generale, come la riduzione delle disparità di reddito negli Stati Uniti, e poi dovranno organizzare un gran numero di donne e uomini che beneficeranno del raggiungimento di quell’obiettivo: persone che starebbero meglio, nell’immediato e concretamente se il sistema fiscale venisse rivisto o il sistema dei mutui immobiliari riformato. La sollevazione ha bisogno di un focus, e il focus deve essere su qualcosa che importa materialmente a particolari persone. Deve radunare gli uomini e le donne che subiscono il peggio delle nostre diseguaglianze; il cui interesse, poiché richiede una società più egualitaria, è anche una causa morale.
Il famoso 99% di Occupy Wall Street non fa un movimento, non finché un numero significativo di loro sia visibile in incontri e manifestazioni. Non sono sicuro su come e se ciò possa accadere. Il 99% non ha un’identità coerente come quella dei gruppi impegnati in movimenti precedenti: donne, lavoratori, neri. Ci sono molte divisioni ideologiche e scollature sociali all’interno del 99% che diventerebbero velocemente evidenti se si sviluppasse un movimento focalizzato. Noi (a sinistra), dopotutto, non rappresentiamo il 99% del popolo americano. Nessun movimento di massa di quel tipo è mai esistito, eccetto nell’immaginario populista o nazionalista.
Tuttavia, considerato il carattere estremo della diseguaglianza nel nostro paese, possiamo plausibilmente aspirare a un movimento dei poveri tradizionali e dei nuovi vulnerabili – ampie fasce di popolazione maschile e femminile mobilitati, in marcia, che chiedono cambiamenti specifici nell’ordine sociale, senza ammettere alcun compromesso.
I movimenti possono rendere il mondo sociale migliore, ma non possono farlo da soli. Nelle democrazie, essi devono lavorare attraverso le istituzioni dello Stato: il successo dipende da un ordine esecutivo o da un voto in Congresso. Il suffragio delle donne fu prima l’obiettivo di un movimento e, poi, un risultato legislativo e costituzionale: il movimento sindacale chiese e, poi dipese, dalle misure del Wagner Act e dalle regole imposte dal National Labor Relations Board; i diritti civili per i neri statunitensi ebbero bisogno di ripetute azioni coercitive da parte del governo federale. Questo tipo di sostegno istituzionale è mediato dai nostri partiti politici, i quali a volte possono essere persuasi o costretti a far proprie le richieste di un movimento. I partiti, però, hanno la caratteristica di essere pronti al compromesso rispetto alle loro posizioni dichiarate – l’odierno Gop è solo una temporanea eccezione – pertanto ciò che ottengono è sempre meno rispetto a quanto sperato dai militanti del movimento. Quindi come dovrebbero relazionarsi i movimenti sociali ai partiti politici?
A volte questi ultimi vengono creati dai movimenti sociali, come i partiti socialisti della fine del diciannovesimo secolo in Europa. Essi erano l’esercito elettorale di un movimento sindacale, costretto a prendere posizione su una più ampia gamma di temi rispetto a quelli che il movimento aveva inizialmente abbracciato, dalla prospettiva di governare.
Idealmente, in questi casi, la coerenza delle posizioni è garantita dagli interessi collettivi e dalla passione morale dei movimenti. I partiti di sinistra in Europa non sono più così, e negli Stati Uniti, nessuno dei nostri principali partiti politici è mai stato così. I partiti americani sono macchine guidate da un obiettivo: vincere le elezioni. Hanno un carattere vagamente ideologico, a destra come a sinistra, che fornisce loro una base organizzativa, ma devono competere con i voti del centro e la maggior parte delle volte la loro vera ideologia è semplicemente centrista (anche se il centro non è un punto fisso nello spazio politico: negli ultimi tre o quattro decenni, si è mosso costantemente verso destra).
Ci sono stati momenti sporadici in cui gruppi di intellettuali hanno catturato quella che potremmo definire la mente del partito, come è accaduto con i neoconservatori e gli ideologi del libero mercato, nel 2000, che fecero apparire i repubblicani notevolmente determinati, almeno sul momento. Ma i partiti politici non hanno idee forti. Il loro stato mentale si rivela meglio negli slogan che i loro candidati gridano nel corso della campagna. La maggior parte delle volte la piattaforma del partito è plasmata non da un impegno serio rispetto alle questioni d’attualità ma da un travolgente desiderio di vincere le prossime elezioni.
Ogni partito mira a mettere assieme la coalizione più ampia possibile di organizzazioni, interessi, movimenti, fazioni e personalità e, per farlo, deve spesso adottare un insieme incoerente di posizioni che riflette la diversa forza e il differente zelo ideologico dei gruppi che esso cerca di tenere insieme. Alcune di queste posizioni compromettono gli impegni vagamente di destra o di sinistra del partito e offendono e indignano i militanti del movimento che cercano di spingerlo nella propria direzione. I politici sono persone che stringono compromessi; essi sono, di conseguenza, disprezzati dai militanti, ma fanno quello che dovrebbero fare: navigano seguendo il favore dei venti. L’obiettivo dei militanti è modificare la direzione delle correnti, costringere i politici a riconoscere nuovi elettori e nuove preferenze popolari.
Nelle democrazie, il popolo governa perché i politici devono prestargli attenzione, annusare l’aria, leggere la posta, incontrarsi con elettori impegnati, commissionare sondaggi d’opinione. Almeno, questo è il modo in cui la democrazia dovrebbe funzionare quando non è distorta dal potere e dalla ricchezza costituiti, come è di solito di questi tempi. Qui c’è una distinzione critica tra i politici: i buoni vengono a patti con le loro posizioni ideologiche per deferenza nei confronti dell’opinione pubblica e i cattivi, invece, si rimettono alle persone che pagano per le loro campagne. Entrambi i gruppi sono opportunisti, ma i primi sono, per così dire, i nostri opportunisti. Forse c’è un terzo gruppo, il migliore, che invita i propri sostenitori a mobilitarsi per una causa e li spinge ad agire.
“Make me!”, “Fatemelo fare!”— così Franklin Delano Roosevelt avrebbe detto alle persone che gli chiedevano di spostarsi a sinistra.
Ovviamente i politici hanno principi: aderiscono a un partito di centro-sinistra o di centro-destra per via delle loro convinzioni pre-esistenti. E quando vincono un’elezione, cercano di governare per il bene del paese, così come loro lo intendono, più in sintonia con quelle opinioni pre-esistenti che con gli slogan che hanno urlato nei comizi elettorali. Tuttavia la maggior parte di loro (c’è qualche eccezione) non è come i militanti dei movimenti che sono spinti dalle loro convinzioni: i politici plasmano e rimodellano le loro idee in modo da radunare il più ampio numero di elettori. Poiché sono opportunisti, cercano occasioni prima per una nomina, poi per l’elezione e, infine, per essere ri-eletti. È compito dei movimenti di sinistra, e di nessun altro, creare opportunità a sinistra. Fintanto che siamo in grado di farlo, dobbiamo sostenere politiche che sono più pronte a spostarsi a sinistra se noi “glielo facciamo fare.”
Nel 1996, Christopher Hitchens pubblicò su Dissent un pezzo argomentato con eleganza e intitolato Against Lesser Evilism (in italiano potremmo tradurre: “Contro la teoria del male minore”). L’abituale pretesa secondo cui si sostiene il minore dei mali, scriveva Hitchens, significherebbe nella pratica che noi dovremmo sempre votare il partito democratico. Ma se i democratici possono contare sui nostri voti, essi devono solo essere “meno malvagi” dei Repubblicani – cosa abbastanza facile – e non avranno mai motivo per rimettersi alle nostre visioni politiche. Al contrario, essi si rimetteranno agli elettori disponibili ma incerti. Hitchens era fermamente convinto che nel 1996 non avremmo dovuto votare per Bill Clinton. Se Clinton fosse stato sconfitto, sosteneva, i repubblicani sarebbero stati solo leggermente peggiori, e i democratici sarebbero stati costretti a opporsi a essi da sinistra, mentre con Clinton in carica, in realtà, non c’era alcuna opposizione di sinistra.
Era una tesi brillante ma nondimeno errata. In effetti, i democratici possono contare su di “noi”, ma se così non fosse, non saremmo abbastanza per fare una grande differenza. Persino in un’elezione molto incerta, dove le defezioni a sinistra possono produrre una vittoria repubblicana, i politici democratici non risponderanno alle nostre esigenze rischiando di perdere altro e più ampio elettorato. Solo se mobiliteremo un numero significativo di nuovi elettori, i politici presteranno attenzione. In ogni caso, è un affare rischioso creare un’opposizione di sinistra perdendo intenzionalmente le elezioni a favore della destra. Oggi una tesi simile vorrebbe dire perdere le elezioni a favore dell’estrema destra perché i repubblicani si sono spostati molto più in là in cerca delle opportunità create dalle chiese evangeliche e dal Tea Party, e dall’ampiamente esteso ruolo del denaro in politica, promosso dalla Corte Suprema. La prospettiva di una vittoria repubblicana nel 2012 fa sì che il male minore appaia molto più simile al bene maggiore.
Sì, i democratici sono deboli di idee in questi giorni. Nessun gruppo di intellettuali sta indirizzando il loro pensiero o scrivendo la loro piattaforma. Sono quasi tanto schiavi della ricchezza corporativa quanto i repubblicani, ma senza un obbligo ideologico nei confronti di questa loro schiavitù. Di conseguenza, all’interno del partito è possibile lo scontro ideologico, e ci sono membri e attivisti che sarebbero felici di spostarsi a sinistra se lì si trovassero i voti. I militanti del movimento possono sperare in un partito politico che assuma i loro obiettivi anche prima che un’opportunità si presenti in quel senso. Ma non hanno diritto – nessuno lo ha – a un partito simile.
I partiti raccolgono voti; i movimenti mobilitano potenziali elettori e cercano di modificare i termini della raccolta voti. “Se volete questi voti – dicono i militanti ai politici – questo è quello che dovete fare. La vostra ricompensa è l’incarico politico, la nostra la politica pubblica”. Il valore della prima ricompensa è ovvia, quello della seconda deve essere giustificato ideologicamente. Ecco perché i movimenti sono “cause”, mentre i partiti sono macchine. Non confondeteli: non chiedete ai partiti più di quanto possano dare. Molti a sinistra sognano un partito-movimento, come in Europa ai vecchi tempi, ma ciò non è possibile nelle democrazie pluraliste contemporanee.
Viviamo in società frammentate e celebriamo la frammentazione perché è il prodotto della libertà di associazione, della diversità etnica di una società di immigrati e del pluralismo religioso (intensificato qui negli Stati Uniti dalla capacità del Protestantesimo di produrre sempre nuove sette e nuove chiese), tutto ciò gioca a sfavore di partiti politici ideologicamente coerenti.
Militanti e intellettuali possono, a volte, produrre un partito con idee forti, impegnati per questo o quell’obiettivo del movimento, che guarda a sinistra (o a destra). Ma si tratta di una condizione temporanea e una volta che l’obiettivo – o una sua versione frutto del compromesso – sarà raggiunto, il partito ritornerà lentamente al centro, lasciando molto da fare al prossimo gruppo di militanti, e a quello successivo, e a quello dopo ancora. I militanti dei movimenti non devono permettere a se stessi di farsi cooptare dai partiti; devono usare qualunque potere governativo ottengono solo finché è realmente utile alla loro causa. E poi devono lasciare il governo: mantenere l’incarico non è la loro professione. Perché persino dopo le vittorie, in cui noi (a sinistra) speriamo, ci saranno ancora persone in difficoltà, abusate, oppresse, discriminate che occorre mobilitare in modo che possano cambiare le proprie vite. La politica dei partiti è modulata dalle scadenze elettorali, quella dei movimenti è un lavoro costante.
(Traduzione di Martina Toti)
Io trovo invece che questo articolo è insufficiente. L’analisi che approfondisce le differenze tra movimenti e partiti può essere accettata come utile, visto che se ne parla poco, ma in sostanza richiede solo ad una parte, quella dei movimenti, di chiarirsi le idee come pistone dei partiti, mentre questi sembra non facciano altro che il proprio mestiere. Al massimo, dovrebbero scegliere se e come e quando optare per gli elettori o per i finanziatori. Mi sembra una visione statica e, data la diffusa sofferenza attuale prodotta da cambiamenti che non avvengono, anche un poco pericolosa. Chi sono gli interlocutori responsabili di costruire un più adeguato modello di convivenza? Che difettosità presenta la loro attuale relazione in vista dei mutamenti necessari? Come devono quindi “diventare più maturi”, attraverso sperimentazioni e riflessioni, per lasciare spazio al “domani”? L’articolo affronta appena il secondo interrogativo. E’ poco.
Ottima spiegazione del perche’ oggi i partiti sono in crisi: non riescono più a rappresentare la complessità degli interessi e dei valori di società sempre più pluraliste e frammentate, non riescono a darsi una piattaforma ideologica capace di sintetizzare in modo coerente interessi e valori spesso tra loro in contrasto, non riescono a definire una idea sufficientemente chiara ed esauriente di interesse generale.