«Il discorso di Letta? L’ho ascoltato col rispetto e l’attenzione che ogni cittadino deve al governo del proprio Paese, anche quando – come questo – è guidato da idee diverse dalle mie. Tanto più se formato da molte persone che stimo. L’ho ascoltato con la speranza di sbagliarmi. Ho sentito un discorso compatibile con molti futuri, fatto di troppe parole e di troppi silenzi che attendono più che mai la prova dei fatti».
Arturo Parisi, già ministro della Difesa tra i 2006 e il 2008 nel secondo governo Prodi, tra i promotori del movimento per le Riforme istituzionali, ideatore dell’Ulivo, è uno dei padri fondatori del Partito democratico.Professore di sociologia, deputato per dodici anni, èstato il più stretto consigliere politico di Prodi, sottosegretario alla Presidenza del consiglio nel primo e nel suo secondo governo. Nel ’99 ha preso il posto del Professore alla guida de “I Democratici” e due anni dopo è promotore e co-fondatore della Margherita, dicui diventa vicepresidente. Ha presieduto il comitato per le regole e lo statuto delle primarie dell’Unione, la sua ultima “scommessa politica”. Interessante dunque ragionare con lui sui primi passi del governo di Enrico Letta e anche sulla profonda crisi del Pd.
Professor Parisi, secondo lei qual è la vera ambizione di questo esecutivo? Conviene anche lei con quanto sostenuto da Salvatore Vassallo, nel suo ultimo articolo su Europa, che il nuovo esecutivo tenterà di chiudere la lunga transizione politico-istituzionale cominciata negli anni Novanta?
È appunto quello che temo. Proprio perché, pur dietro la modestia del “governo di servizio”, questa è la sua ambizione. A differenza di Vassallo io penso tuttavia che quello che lui chiama il governo Letta-Alfano non dispone delle “premesse per raggiungere il risultato”, o, meglio, il risultato del quale a mio parere ha bisogno l’Italia, cioè a dire la definitiva affermazione anche nel nostro Paese di una democrazia della alternabilità, fondata su una competizione per il governo, regolata da una legge maggioritaria che riconosca finalmente il cittadino come arbitro diretto ed esclusivo della contesa. Condivido invece con Vassallo la paura “che la virtù democristiana – che accomuna i principali esponenti del governo – si ritorca in vizio” e “questo non sia o non sia percepito come il governo che ci porta verso la Terza Repubblica ma quello che ci riporta nella Prima”.
Sarà davvero la fine della contesa tra berlusconiani e post-comunisti? Con la condivisione di valori fondamentali nell’interesse nazionale?
Che una contesa si sia sopita è fuori discussione. Ma non è certo finita. E soprattutto non è quella tra berlusconiani e post-comunisti. Si faccia un giro nella nostra base e se ne farà una idea. Quella che al massimo possiamo dire per ora superata è la diversa dislocazione che nel 1994 portò i giovani democristiani di allora su lidi diversi. Per la prima volta dopo venti anni quelli che allora sembrarono separarsi per sempre sono nella stessa maggioranza e nello stesso governo nonostante resti in campo, anzi al centro del campo, lo stesso Berlusconi che allora li divise.
E le fratture che si sono aperte negli anni nella società? Si ricomporranno anche quelle e rientreranno le differenze?
Peccato che, a dispetto della loro assoluta preponderanza in Parlamento e nel Governo, attorno alla loro ritrovata unità stia nella società meno della metà degli elettori. Peccato che ad incontrarsi non siano quelli che più di tutti si sono combattuti ma proprio quelli che in questi anni non hanno mai smesso di parlarsi nel ricordo della passata unità.
Anche lei sembra condividere la battuta di Vassallo: la nuova “impresa di governo” è «nelle mani di un “monocolore democristiano”?
Monocolore è troppo. Basterebbe la Bonino da sola ad impedirlo. Non altrettanto “governo a guida dc”, ma democristiani senza la Dc. Quella che i membri del governo Letta-Alfano condividono non è infatti una appartenenza e una disciplina partitica ma una cultura. La convinzione che la politica non solo è ordinata al governo, ma che è priva di ogni senso se non svolta dal e dentro il governo. Quasi simmetrica alla cultura che, almeno a livello nazionale, ha finito per plasmare la nostra sinistra dominata all’opposto dalla vocazione alla opposizione, condizione e allo stesso tempo scelta, figlia e madre della nostra storia. Fino a quando queste attitudini opposte non saranno superate tutto il bla bla sulla democrazia dell’alternanza e dell’alternabilità sarà una mera astrazione. La preoccupazione principale sarà infatti per gli uni quella di trovare nella prassi e nelle regole il modo per restare sempre al potere. E per gli altri la preoccupazione di doversi far carico delle responsabilità di governo.
Può essere quindi questa comune cultura di governo una risorsa per il viatico di questo governo?
Certamente. E, aggiungerei, purtroppo. Figli della esperienza dei governi stabilmente instabili, per i democristiani la durata è finita per diventare l’unico parametro di successo. Senza il dettaglio Berlusconi che guiderà il governo guidato a sua volta dalle sue concretissime urgenze e preoccupazioni personali, e senza le reazioni che questo alimenterà nel campo avverso, i dc tornati finalmente assieme al governo farebbero facilmente “comunella” in nome del comune interesse alla durata. Poco male, anzi molto bene se le loro abilità alla navigazione fosse messa al servizio di un governo fosse guidato da un progetto stabile e condiviso. Ora più che mai, la durata è infatti un valore determinante per la realizzazione di qualsiasi progetto che si proponga di sciogliere con gradualità e continuità nel tempo nodi che nel tempo si sono andati stringendo. Ma il progetto è appunto la categoria che più è lontana dalla sapienza democristiana, e comunque dichiaratamente assente dalla ragione sociale di una maggioranza che, come questa, si definisce una risposta straordinaria ad una situazione straordinaria.
Per un passaggio definitivo ad una democrazia maggioritaria ci vuole un’altra legge elettorale. Il Presidente del Consiglio ha detto che anche quella precedente sarebbe meglio di quella attuale. Secondo lei questo nuovo Parlamento riuscirà a varare una nuova legge?
Se un governo “di scopo” di natura istituzionale poteva limitarsi a indicare come obiettivo l’approvazione di una nuova legge elettorale senza entrare nel merito, da un governo di scopo di natura politica si doveva pretendere di più, molto di più. Se non proprio i dettagli almeno le opzioni fondamentali della nuova legge dovevano essere a mio parere declinati già nel programma. Tanto valeva altrimenti tornare ad un novello Monti. O se proprio non ci si sentiva di indicare che cosa si intendesse fare in futuro mi sarebbe bastato che qualcuno spiegasse come e perché mai le stesse forze che l’anno scorso mancarono questo obiettivo dovrebbero ora riuscirci.
Mi sentirei infatti più sicuro se in questa maggioranza non si ritrovassero proprio quelli che questa legge hanno voluto assieme a quelli che di questa legge hanno goduto e alla impossibilità di cambiarla si siano, neppure un anno fa, felicemente arresi. Mi sentirei più sicuro se tra i responsabili di questo passaggio non si trovassero proprio quelli che più hanno lavorato per contrastare il movimento per l’abrogazione del Porcellum che venti mesi fa esplose tra i cittadini. Mi sentirei più tranquillo se non vedessi di nuovo riproposta la sequenza che l’anno scorso bloccò il nostro estremo tentativo di impedire che si andasse alle elezioni ancora una volta col Porcellum proponendo almeno il ritorno al Mattarellum sia per via legislativa che attraverso il referendum. Come si fa a cambiare la sola legge elettorale? Si disse dopo la annunciata e auspicata bocciatura del referendum da parte della Corte Costituzionale. Dimezziamo prima i parlamentari, e le camere. Risultato: per cinque mesi si rinviò la legge dicendo che la priorità erano le istituzioni. Negli altri cinque si interruppe la riforma delle istituzioni dicendo che la priorità era diventata a quel punto la legge elettorale. E arrivati a dicembre scoprimmo che tutto era restato uguale, il numero dei parlamentari, le camere, e la legge elettorale. E poi dicono che l’antipolitica è Grillo. Leggo oggi che D’Alema propone di cambiare la legge elettorale rimuovendo prioritariamente il Porcellum col ritorno al Mattarellum, riservandoci di rivederla semmai poi in coerenza con l’eventuale riforma istituzionale intervenuta nel frattempo. Giusto per sicurezza. Mentre il neoeletto Presidente, pur dichiarando la sua preferenza per il Mattarellum si riserva di esaminare questa ipotesi comprensibilmente con più calma fra 18 mesi. Peccato che non mi riesca di trovare la firma di D’Alema e neppure quella di Bersani e di Letta nè tra i 200 parlamentari che sottoscrissero la proposta di legge che andava appunto in questa direzione, e neppure tra il 1.200.000 cittadini che manifestarono la stessa preoccupazione.
Anche lei pensa che i veri vincitori delle ultime elezioni siano stati gli astenuti? Oppure c’è un altro vincitore, anche se non dal punto di vista numerico?
Gli astenuti sono perdenti per definizione, perdenti che portano tutti gli altri alla perdizione. È per questo che dobbiamo riconoscere gli elementi postivi presenti del Movimento di Grillo e aprire con loro un confronto esigente e tuttavia non per questo impaziente. Dire no a tutti anche se non necessariamente a tutto è di certo difficile da accettare. Ma un no è comunque una risposta che nasconde una proposta. Mentre il rifiuto di prendere la parola è null’altro che un rifiuto di battersi. Come potrebbe mai essere considerati vincitori quelli che astenendosi non sì sono battuti?
Professor Parisi, lei crede che se il Pd avesse convenuto sul nome di Rodotà per il Quirinale si sarebbe aperta un’intesa con Grillo anche per il governo? Sarebbe stato meglio o peggio?
Diciamo che con il M5S non è stato mai aperto un confronto reale nè sul Quirinale né sul Governo. In positivo i 5S sono stati chiamati a riconoscere la formale vittoria del Pd. In negativo la dirigenza del Pd si è invece condotta lungo una linea che ha oscillato tra la sfida agli eletti e il corteggiamento degli elettori. Solo un Bersani che avesse messo subito in discussione la sua supposta vittoria, poteva riuscire a scuotere la loro pretesa.
Sarà un governo di pacificazione nazionale? Pensa che i pasdaràn del Pdl siano stati davvero archiviati oppure potrebbero spuntare fuori magari attraverso le caselle dei sottosegretari?
Non sono i pasdaràn al governo quelli ai quali dobbiamo guardare. Lo svolgimento dei ruoli di governo costringe tutti a moderare le posizioni di partenza. A preoccuparmi di più sono le parole dette che prima o poi sono destinate a presentare il loro conto. Le parole e le attese alimentate nella raccolta del consenso. La difficoltà principale dei partiti della nuova maggioranza è rovesciare il segno del voto raccolto ieri contro l’alleato di oggi. Difficile per la destra, lo è ancor più perla sinistra. Soprattutto perché il Berlusconi contro il quale è stato raccolto il consenso è più vivo che mai.
Si parla di governo di “seconde file”. Meno belligeranti e protagoniste delle “prime”?
Da un lato può aiutare. Ma, a mio parere è più vero l’opposto. Ripeto. Il problema principale non riguarda i rapporti interni al governo, ma quello tra governanti e governati. Soprattutto quando il conflitto sociale divarica le basi come in questo passaggio i rappresentati si sentono più garantiti quando a rappresentarli sono rappresentanti visibilmente più vicini ad essi di quanto non lo siano tra loro.
C’è addirittura chi ha scritto che il compromesso raggiunto evoca le “parallele di Moro”. Lei cosa pensa in proposito? È un paragone calzante?
Sarebbe stato perfetto difronte a un governo “terzo”, equidistante da tutti come nel caso di un governo istituzionale di scopo quale fu nella prima fase il governo Monti. Nel caso di un governo quale questo fondato sulla alleanza tra Pd e Pdl, le “convergenze parallele”, trasmettono l’impressione di aver perso all’interno la distanza delle parallele, e aperto all’esterno una divergenza crescente con gli altri partiti.
Il Presidente del Consiglio ha proposto una moratoria per la rata Imu di giugno e un rinvio per l’aumento dell’Iva. Si può leggere come una prima vittoria di Berlusconi nel governo?
Chi vincerà o perderà lo vedremo alla fine. Di certo è improbabile che sarà Berlusconi ad uscire sconfitto dal confronto apertosi mentre ancora il governo non aveva completato il percorso della fiducia.
Ma è lui, Silvio Berlusconi, l’azionista di riferimento di Palazzo Chigi?
Comunque è un alleato indispensabile e determinante.
In un governo di coalizione o di larga intesa come quello appena varato, chi s’avvantaggia poi alla scadenza elettorale? So che è presto per poterlo dire, ma in linea teorica si può azzardare una previsione?
Diciamo intanto che i sondaggi confermano il crollo del Pd e la crescita del Pdl. Ma ancor prima il voto parlamentare registra già in partenza la dissoluzione di Italia Bene Comune, la coalizione che conquistando la prima posizione si è vista attribuire alla Camera un premio molto vicino alla sua forza parlamentare di partenza. Come a dire che l’alleanza è servita giusto e solo per conquistare il premio. Un fatto enorme che da solo dice della sporcizia del Porcellum.
Veniamo al Pd. Come vede il futuro del Partito Democratico dopo le elezioni “non vinte”, le divisioni, il duplice incidente Marini-Prodi per l’elezione al Quirinale, i 101 franchi tiratori, le dimissioni di Bersani, l’astro nascente di Renzi e i veti, i conflitti, la guerriglia, le porte sbattute? C’è dell’altro?
Diciamo più semplicemente che il Partito che molti danno per morto, conferma in questo modo di non essere mai nato. La scelta di costruirlo non come un partito nuovo, ma come somma di ex-pci ed ex-dc, e di governarlo attraverso spartizioni nascoste lo ha costretto a vivere di voti unanimi quando espressi in modo palese, e a morire a causa dei franchi tiratori quando si vota in modo segreto.
Lei cosa auspica?
Purtroppo non è più tempo di auspici. Credo che a decidere saranno i fatti. Quelli accaduti prima ancora di quelli minacciati. Il fatto che il governo sia diventato di competenza prevalente dei democristiani e il partito si annunci come la ridotta degli ex comunisti, già descrive da solo il futuro che ci attende. E ancora più di questo lo dice il fatto che i nomi e le regole che dovranno guidare in futuro il partito siano anticipati sui giornali come una decisione già presa che attende solo la sanzione corale di una alzata di mano.
Qual è a suo avviso l’anima più vera, profonda e radicata del Partito Democratico? Si può trovare una sintesi dopo le ultime laceranti divisioni?
L’anima è affidata per me a quel ramoscello di Ulivo che sta nel logo del Pd, la citazione simbolica di un passato che fu. Credo che i 101 franchi tiratori contro Prodi stiano lì a dimostrare che quel passato è passato. Definitivamente.
Forse è giunto il momento di prenderne atto con realismo riconoscendo ognuno i propri errori, le ingenuità e le inadempienze. Se il partito, con il determinante contributo dei democristiani, ha finito per pensarsi come la proiezione in Italia del Partito Socialista Europeo, se l’alleanza che attorno a sé ha costruito è tornata a chiamarsi progressista esattamente come nel 1994, se il suo giornale è, come è sempre stato, quell’Unità che riconosce in Antonio Gramsci il suo fondatore, tanto vale che il Pd di quella storia ritrovi assieme ai limiti anche le virtù, la passione che scalda ancora i cuori dei militanti assieme alle convenienze dei dirigenti.
Non sarebbe certo questo il Partito per il quale mi sono messo in cammino, ma sarebbe pur sempre un partito degno di questo nome, un partito serio col quale dentro un centrosinistra rinnovato e plurale meriterebbe di confrontarsi sul serio anche a rischio di scontrarsi.
Non potrebbe un nuovo congresso in tempi brevi ritrovare quella unità che si è perduta nel tempo?
Innanzitutto il Pd dovrebbe riscoprire cosa fu un congresso nei partiti di un tempo. Non la semplice conta delle filiere interne del tutto scollegata dalla scelta finale già pregiudicata da vertici nascosti. La verità è che troppe sono le cose da riscoprire in un partito che, per paura di dividersi, va avanti da sempre attraverso primarie all’italiana e congressi che assomigliano alle conventions americane. Chissà che questa crisi non serva almeno a questo.
Parisi non mi entusiasma, ma sulla questione primarie vs congresso indico la mia preferenza per quest’ultimo (anche se non sono necessariamente contrapposti. Aggiungo che preferisco un congresso a tesi ed a mozioni impegnative. Vorrei scegliere e votare lineee politiche e non dare deleghe in bianco a persone.