«Un atto di coraggio» è la definizione più appropriata di un gesto, le dimissioni di Benedetto XVI, che lascia stupefatti, anche se qualche indizio era trapelato, ma senza mai diventare più di una voce su una ipotetica remota possibilità, non più di uno tra i molti pettegolezzi possibili, quasi fiction. È qui invece un reale «atto di coraggio», come è giusto dire di ogni gesto che dall’interno di una confessione religiosa sfidi la tradizione, tanto più se questo «interno» è il vertice, e se la decisione riguarda il capo di quella tradizione e della sua liturgia. Un sfida che, nella vana ricerca di precedenti, deve arretrare fino alla fine del XIII secolo, e alle dimissioni di Celestino V.
Ricerca vana perché si tratta di storia di tutt’altro genere, in un’epoca in cui le vicende politiche si mescolarono confusamente alle scelte della Chiesa e portarono al soglio pontificio (peraltro fuori da Roma), per qualche mese, un uomo noto per la sua ingenuità e impreparazione, che non conosceva il latino (vizio ancora grave oggi, per un cardinale, ma allora equivalente all’analfabetismo). Se per Dante l’abbandono di Celestino fu marchiato come segno di «viltà» è giusto oggi parlare di «coraggio»? Io penso di sì, proprio perché questa scelta viene da parte di un pontefice con la storia di Joseph Ratzinger, un teologo che ha improntato il suo insegnamento, prima come prefetto della fede poi come Papa, al massimo rigore. Questo atto crea un precedente che cambia la storia del pontificato e lo avvicina più umilmente alla condizione umana.
La scelta «rompe» una tradizione e dunque «rompe» un continuità che è stata posta al centro della stessa biografia di questo Pontefice, che si mostra pienamente consapevole della contraddizione, cui si espone e delle sue conseguenze. È evidente che solo la gravità e insostenibilità delle condizioni fisiche può averlo spinto a una scelta che merita un grande rispetto. Il suo predecessore scelse di morire dopo una lunga malattia esponendo apertamente ai media, ai fedeli, a tutto il mondo il cammino del male, il logorio del suo corpo, l’agonia e la morte. Nessuna censura sulle verità dei medici. Era anche questo un gesto di coraggio, che a sua volta sfidava in altro modo la tradizione.
Giovanni Paolo II è stato il primo Papa dell’era televisiva satellitare e aveva affidato fin dall’inizio, e consapevolmente, l’evangelizzazione ai mezzi del villaggio globale teorizzati dal cattolico convertito McLuhan. Ha voluto concludere la sua esistenza senza nulla celare al pubblico. Ratzinger di questi mezzi si è fidato sempre meno di Wojtyla; non hanno giovato alla sua immagine quando era ancora fisicamente più forte, non le avrebbero giovato lungo il cammino della malattia, sulla quale peraltro non si sono avute informazioni certe.
Il «coraggio» di Benedetto XVI è dunque di un genere diverso. Deve essergli costato molto. Ed è certo che, dopo l’annuncio shock, conoscendo la profondità della sua preparazione dottrinaria, e il peso che ha sempre dato alle giustificazioni di ogni passo delle sue precedenti decisioni, si sia posto il problema delle domande che la sua abdicazione avrebbe posto. C’è perciò da aspettarsi nei prossimi giorni una spiegazione teologica della scelta di dimettersi, che probabilmente cercherà di ridurne l’impatto per molti aspetti sovversivo.
Non parlerei di coraggio limitandolo ad un aspetto psicologico. Il gesto ha un valore teologico. E’ un’ammissione dell’esistenza del proprio corpo da parte di un Papa che rappresenta un Dio fattosi uomo. Non è frequente, tra gli uomini immersi in qualsiasi fede (religiosa, areligiosa o antireligiosa) il riconoscersi innanzitutto umani e non prima di tutto testimoni di quella fede. Sentirsi umani consente la fratellanza con chi è di altra fede o non ne ha alcuna, mentre sentirsi testimoni può comportare il confronto/giudizio nei rapporti con i “diversi”.