Nella storia del Partito radicale si è manifestata presto la tendenza a identificarsi con una leadership forte, dominante, personale. Il leader che questo ruolo ha incarnato ha certo dimostrato di avere dei meriti, per la tenacia con cui si è battuto sui temi che ben conosciamo: battaglie di libertà, per i diritti della persona, per la legalità, per la laicità, per una dimensione internazionale della battaglia politica (un tema sul quale poco ci è mancato che i radicali si ritrovassero in posizione di monopolio, dopo il collasso dei grandi partiti della prima repubblica, che erano capaci di una politica estera).
È vero certamente che Marco Pannella, insieme a Adelaide Aglietta, Adele Faccio, Gianfranco Spadaccia, Emma Bonino e diversi altri ha saputo aprire la via a battaglie che poi si sono risolte con l’apporto determinante delle forze della sinistra storica italiana e che hanno scritto alcune delle pagine migliori della politica italiana, proprio sui temi più difficili come il divorzio, e ancora di più sull’aborto. Non solo, il Partito radicale ha aperto la via a molti temi di libertà sui quali la sinistra si è dimostrata a lungo sorda, e ha saputo surrogare anche una cronica debolezza delle formazioni liberali. Ricordo la simpatia e l’attenzione con cui Pannella salutò le iniziative con Popper di Reset negli anni 90 (in particolare il libro La lezione del nostro secolo).
Tutto vero, ma oggi che ci troviamo a riflettere sull’apparente non-sense di una alleanza con Storace nel Lazio dobbiamo prendere atto che questo genere di leadership manifesta una patologia, quella del processo di fagocitazione e distruzione di ogni possibile erede del ruolo di leader dentro quella organizzazione. Devo questa specifica, tecnica, scoperta – avvenuta a dire il vero già diverso tempo fa – a un amico del Partito radicale, Massimo Teodori in un libro pubblicato per Marsilio nel 1996, Marco Pannella. Un eretico liberale nella crisi della Repubblica (Venezia). Il libro prendeva atto con rammarico e con sobrietà che non vi era alcuna possibilità di far crescere accanto a Pannella uno stabile gruppo dirigente perché il capo semplicemente lo impediva.
Nel tempo si è visto che la fragilità della posizione dei segretari nominati in un ruolo formalmente vicario, ma in realtà sostanzialmente dei precari esposti ad essere cacciati rapidamente nel giro di pochi mesi, rispondeva esattamente alla necessità di garantire la formale esistenza nel tempo del Partito sotto la guida tipicamente carismatica e incontrastata del Leader Maximo.
Ha fatto eccezione a questa regola Emma Bonino, che si è configurata, unico caso, come dotata di un suo ruolo preminente, carismatico a sua volta, internazionalmente riconosciuto. E accettata anche formalmente da Pannella come cointestataria, più volte, delle liste elettorali radicali. Un’altra, parziale, eccezione si era affacciata nel ruolo crescente di Radio radicale, uno strumento del partito che si è rivelato efficace nello svolgere una vera funzione informativa per tutti, cosa che è di solito in contraddizione con le pretese di un potere politico personale invasivo come quello di Pannella.
E, infatti, questa situazione ha dato luogo ad alcune crisi: la coesistenza di una presenza del Leader Indiscutibile, con le sue frequenti presenze sonore, di tipo nord-coreano (cui gli ascoltatori si sono abituati come agli stravaganti stacchi di musica sacra), e uno spirito giornalistico intelligente e disinibito non poteva non provocare qualche collisione. Ed è da vedere come ora la struttura si adatterà a questa nuova esplosiva situazione.
Ma il tempo sembra essere scaduto anche per queste eccezioni: l’idea che Pannella cannibalizzi ogni possibile erede a ruoli politici di rilievo nel suo partito si conferma vera, più vera che mai. Ha ragione Michele Serra, nella sua Amaca sul tema, non si tratta solo dell’eccentricità e vanità di un vecchio: «Pannella è così smisuratamente presuntuoso da considerare il campo politico nel suo complesso (dai nazisti a Pol Pot) come una subordinata della propria esistenza. Mai viceversa».
Già nell’ottobre del 2011 si era manifestata una tendenza autolesionista, che sicuramente era ispirata dal Capo Carismatico: quando i voti radicali in Parlamento avevano contribuito a salvare il governo Berlusconi, che era sul punto di soccombere, prolungandone la agonia. Lo fecero rompendo l’alleanza con il Pd, con il quale erano stati eletti, per motivi che non sono mai stati capiti e che hanno reso irreparabile, con tutta evidenza, una rottura; e di fatto improponibile per il Pd, a mio giudizio, un rinnovo di quel genere di accordi con il Pr. Ora l’apparentamento con la parte meno «post» del «post-fascismo» nazionale rende esplicito l’intento di Pannella. La sindrome della cannibalizzazione degli eredi diventa desiderio di autodistruzione e liquidazione del Partito radicale. Pannella non vuole che la storia del Partito abbia un seguito dopo di lui.
Il narcisismo che affligge in qualche misura tutti i politici – e tutti gli esseri umani – ha in questo caso una forma iperbolica e da rigettare. Con questo gesto vuole un uomo vuole estinguere anche l’ultima traccia di essenza vitale del suo Partito. Credo che chi volesse prolungarne l’esistenza avrebbe oggi davanti il difficile compito di cacciarne fuori Pannella. Manifestare dissenso o alzare le spalle di fronte alle idiosincrasie di un anziano malato non basta più.