Quando vinse le elezioni del 2010, dopo otto anni di purgatorio all’opposizione, Viktor Orban si ritrovò a gestire un Paese demolito dalla crisi globale e salvato soltanto dall’intervento del Fondo monetario internazionale Fmi, secondo lo schema noto: denaro fresco in cambio di una severa ristrutturazione.
Orban però scelse di non seguire più quella strada, inaugurando una politica economica non ortodossa, il cui simbolo sono state le maxi tasse applicate su alcuni settori chiave dell’economia – banche, telecomunicazioni, energia e grande distribuzione – controllati prevalentemente da player stranieri. Una misura che sottendeva due scopi. Il primo: portare risorse nelle casse pubbliche e ridurre il debito, schizzato verso l’alto. Il secondo: ribilanciare il rapporto tra capitale straniero e capitale ungherese.
Il chiodo fisso di Orban è che la transizione economica affrontata dal Paese dopo il 1989 sia stata egemonizzata dal ruolo del capitale straniero, cui troppi favori sono stati concessi. Tornare sovrani, politicamente e dal punto di vista economico-finanziario: questa la battaglia che il primo ministro magiaro, rieletto nel 2014 e nel 2018, ha condotto in questi anni. Le maxi tasse, diminuite con il passare del tempo, sono servite anche a indurre i grandi investitori a uscire dall’Ungheria, cedendo i loro asset a operatori locali, cosa in effetti in parte accaduta. Oggi l’Ungheria, che ha finito di ripagare il debito contratto con il Fmi (cosa diversa dal cacciar via il Fondo, come ha scritto in passato la stampa sovranista), è tornata a contare molto in questi comparti, sia con capitali privati che pubblici. Il governo, per esempio, controlla ormai il 20% del bancario.
Un’altra misura servita in questi anni a fare casa e a sostenere al contempo il progetto economico sovrano, affiancato dalla ricerca di una via illiberale alla democrazia e al rifiuto di aprire all’immigrazione, è stato il trasferimento obbligatorio dei contributi versati in fondi privati in un fondo nazionale. Una nazionalizzazione delle pensioni, in altre parole.
Orbanomics: così è stata chiamata l’agenda economica del governo Orban. Si compone anche di altri pilastri fondamentali. Uno è la riduzione dei tassi, portati al minimo storico, per incentivare i consumi.
E poi c’è un vasto programma di workfare, attraverso cui una vasta porzione di popolazione disoccupata è stata impiegata in lavori pubblici: dalla costruzione alla pulizia delle strade, dal lavoro nei campi fino alla costruzione del “muro”, il reticolato che ha sigillato la frontiera con la Serbia, riducendo immensamente il flusso di profughi lungo la rotta balcanica. Chi entra nel programma di lavori pubblici guadagna circa 200 Euro al mese. È una somma misera, ma nella grande campagna ungherese, in pratica tutto il Paese esclusa Budapest e qualche altro centro urbano, come Gyor, Debrecen, Miskolc o Szeged, aiuta a pagare le bollette, l’affitto, fare la spesa.
Tra gli interventi sociali del governo non può essere citato il piano di sostegno alle famiglie. Chi fa figli, e intende comprare casa, riceve un contributo finanziario molto importante. L’obiettivo dell’esecutivo, un monocolore Fidesz, il partito che Orban fondò dopo il crollo del comunismo, è quello di contrastare il declino demografico evitando di ricorrere all’immigrazione.
Sovranismo economico e demografico si intrecciano e si tengono insieme.
Inizialmente, gli investitori e le agenzie di rating hanno guardato con molte perplessità a Orbanomics, reputandola insostenibile. Con il passare del tempo, però, il giudizio negativo si è attenuato grazie al progressivo miglioramento del quadro macroeconomico. È tornata la crescita, che quest’anno potrebbe sfondare il muro del 4% toccato nel 2017. E dal 2010 il tasso di disoccupazione è sceso dall’11.4% al 3.8%.
Oggi Orbanomics è vista nei circoli sovranisti come un modello di successo, da replicare. L’esecutivo polacco, per esempio, ne ha fatti suoi diversi punti. Anche Matteo Salvini, il vero leader del governo italiano, ha più volte indicato nel progetto economico ungherese una via da seguire.
Eppure, Orbanomics nasconde delle crepe. Nemmeno poche. Una è il debito pubblico, che sale lentamente e si avvicina a quota cento (nel 2010 era dell’80%). Un’altra, come spiega un articolo apparso su Political Critique, rivista online concepita in Polonia, sta nel fatto che “centinaia di migliaia di persone impiegate nei lavori pubblici non sono riuscite ad accedere nel mercato primario del lavoro”. I lavori pubblici non formano, non specializzano. E per giunta il governo ha ridotto i fondi per le scuole professionali, oltre a selezionare attentamente quelli destinati agli atenei, secondo criteri di fedeltà politica.
È sempre Political Critique a indicare che dal 2013 in poi il saldo migratorio in Ungheria – altro segnale non positivo per Orbanomics – si è fatto negativo: molta gente sta lasciando il Paese, per periodi brevi o per sempre. Lo fa chi ha competenze, come chi preferisce ricoprire una mansione umile all’estero, pagato meglio, piuttosto che farla in patria. Si emigra anche perché la sicurezza sul lavoro, in particolare nei cantieri edili, è molto precaria.
In generale, poi, la ripresa ungherese dipende solo in parte dai programmi del governo. Fondi strutturali, investimenti privati dall’Europa occidentale e costi produttivi bassi rimangono i motori della crescita. E qui si apre un problema che coinvolge tanto l’Ungheria, quanto tutti gli altri membri della “nuova Europa”: tutti Paesi che servono da retroterra ai grandi produttori occidentali (l’Ungheria è uno degli hub dell’automotive tedesco per esempio) e che attirano capitali proponendo tassazione bassa e incentivi vari. In Ungheria, per esempio, vige la flat tax sia sui redditi individuali (15%) che sui profitti d’impresa (9%).
Un modello economico tale è stato utile e necessario nel corso della “prima” transizione. Ora, tuttavia, Budapest e le altre capitali dell’area dovranno impostarne una “seconda”, cercando di intercettare investimenti più ricchi di tecnologia per rispondere alla grande sfida dell’economia digitale, come suggerito per esempio nell’edizione 2018 del Central and Eastern Europe Prosperity Report, studio realizzato annualmente da Erste, nota banca austriaca.
In attesa che questa laboriosa e difficile opera di adattamento prenda forma, l’Ungheria continuerà a dipendere dagli investimenti diretti dall’estero e dai fondi europei, che rappresentano l’80% degli investimenti pubblici ungheresi. Gli stessi fondi che Bruxelles potrebbe tagliare, a fronte della svolta illiberale di Orban. E gli stessi che la classe di oligarchi cresciuta all’ombra del primo ministro ha utilizzato per arricchirsi. Il 60% dei bandi pubblici vinti dai tycoon a lui vicini è stato finanziato con fondi comunitari, ha scritto il Financial Times in un’inchiesta, titolata Viktor Orban’s oligarchs: a new elite emerges in Hungary, uscita lo scorso dicembre.