Dopo aver convinto il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha persuaso anche il suo omologo russo Vladimir Putin a non consentire che si formi uno stato curdo in Siria lungo il confine sudorientale con la Turchia. Putin a sua volta ha convinto Erdoğan a cooperare con il regime siriano, se non personalmente con Bashar al-Asad.
Si può a ragion veduta dire che è proprio su tutto questo che è imperniato l’accordo raggiunto da Turchia e Russia il 22 ottobre a Sochi. Esso ha dunque rappresentato il secondo segnale di luce verde per la costituzione della zona di sicurezza nel nordest della Siria, dopo quello lanciato da Trump che aveva permesso l’incursione militare della Turchia contro le milizie curde-siriane delle Unità di protezione del popolo (YPG). Per gli USA queste sono state la fanteria nella lotta contro lo Stato islamico nella Siria orientale, ma per Ankara sono solo un’organizzazione terroristica che minaccia la propria sicurezza nazionale essendo considerata la ramificazione siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).
Missione (turca) compiuta
Tale accordo è servito a Erdoğan anche per la legittimazione da parte di Mosca dell’operazione turca denominata Sorgente di Pace, lanciata il 9 ottobre. Infatti il Memorandum of Understanding di Sochi, pubblicato a conclusione dei colloqui tra Erdoğan e Putin, prende atto, nell’articolo 3, dello “status quo” per quanto riguardo il territorio siriano che la Turchia ha messo sotto il suo controllo con la sua offensiva militare e cioè quella zona lungo la linea di confine di 120 chilometri e profonda 32 chilometri, tra il villaggio di Tell Abyad a ovest e la città di Ras al-Ain a est.
Ciò significa che rimarrà una presenza militare turca in quella regione della Siria a est dell’Eufrate dove Erdoğan intende sistemare almeno 1 dei 3,6 milioni rifugiati siriani che ospita nel suo paese.
Inoltre l’articolo 6 del memorandum stabiliva che le YPG avrebbero dovuto arretrare di 32 km da tutto il confine turco entro le 150 ore successive alla firma dell’accordo, avviare il pattugliamento congiunto turco-russo di un’area che corre lungo il confine turco fino ad una profondità di 10 km, esterna alla “zona di sicurezza” già controllata dalla Turchia con la sua offensiva militare, ad eccezione della città di Qamishli, vicino al confine iracheno, già sotto il controllo del regime siriano.
Tutti questi sviluppi rappresentano vittorie per Ankara. Il più grande successo strategico è che Erdoğan ha spento le aspirazioni curde di autogoverno in una parte della Siria che è più grande del Libano ed è ricca di risorse naturali. Fino a poco tempo fa le YPG sembravano in una buona posizione per consolidare il proprio controllo su queste terre con il sostegno degli Stati Uniti. Questa situazione ora è sostanzialmente cambiata.
Il presidente turco ha così raggiunto il suo obiettivo storico per il quale insiste da tempo. Obiettivo considerato irrinunciabile, per la sopravvivenza della nazione e per la sua integrità territoriale, da tutti i governi turchi che si sono succeduti dalla fondazione della Repubblica nel 1923: impedire la costituzione di uno stato o di una qualsiasi forma di entità autonoma curda lungo i propri confini sudorientali.
Erdoğan è riuscito a vincere in questa sua partita molto rischiosa: quella di giocare sul tavolo russo e contemporaneamente su quello statunitense. La tenace diplomazia turca, che in questi ultimi anni ha fatto un uso spregiudicato della forza militare e che sta rischiando dure sanzioni e suscitando reazioni da parte degli alleati occidentali, alla fine ha funzionato.
Sulla via di Damasco
Possiamo dire dunque che Putin ha aiutato Erdoğan a ottenere ciò che voleva e lo ha fatto non certamente perché tenga particolarmente al bene della Turchia, ma per ottenere un obiettivo di importanza fondamentale per la sua strategia in quell’area mediorientale: la promessa da parte del presidente turco di far avanzare d’ora in poi rapidamente il processo per la soluzione politica del conflitto siriano in cooperazione con il regime di Damasco.
Questo punto è sottolineato espressamente nel Memorandum of Understanding. In esso, infatti, si fa riferimento all’accordo di Adana firmato da Turchia e Siria nel 1998 a seguito del quale Damasco dovette estradare Öcalan su pressioni turche che portarono al suo arresto nel 1999 in Kenya.
Tale accordo ha regolamentato la sicurezza dei confini tra Turchia e Siria fino allo scoppio della rivoluzione civile nel 2011. Fu stipulato principalmente in funzione anti Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e aveva l’obiettivo di mettere in sicurezza il confine turco-siriano con l’impegno di reprimere tutte le organizzazioni terroristiche presenti in Siria che minacciavano la Turchia, in particolare quelle vicine al separatismo curdo. Il regime di Damasco, dell’allora presidente Hafiz al-Asad, padre di Bashar al-Asad, si impegnò anche a non fornire più ospitalità ai membri del PKK e ai suoi leader. Quel Protocollo pose anche fine alle dispute territoriali e normalizzò i rapporti tra i due paesi.
La riattivazione dell’Accordo di Adana implica dunque la cooperazione turca con il regime di al-Asad in Siria. Ma è noto che Ankara e Damasco sono state profondamente divise nella crisi siriana. Erdoğan era coinvolto in Siria con obiettivi completamente diversi da quelli del regime. Secondo il suo piano, al-Asad sarebbe dovuto andare via e il regime del partito Ba’th avrebbe dovuto essere sostituito da un nuovo governo, preferibilmente appoggiato dai Fratelli Musulmani. Ora, il presidente turco, anche se non si spinge fino a mostrarsi amico di al-Asad, ha comunque dato la sua parola a Putin che collaborerà con il regime di Damasco.
Se questo accordo venisse ripreso, vi sarebbe un grande passo in avanti verso la normalizzazione dei legami tra il governo di Erdoğan e il regime del presidente Bashar al-Asad, nonostante il loro profondo odio reciproco. Erdoğan ha dato un segnale positivo di una sua disponibilità a far rivivere l’accordo di Adana. Dopo aver ottenuto ciò che voleva da Mosca, è logico supporre che non passerà molto tempo prima che accetti colloqui di alto livello con il regime siriano.
Rimanendo fermo sui suoi obiettivi e ignorando totalmente le proteste internazionali – anche quelle provenienti dal mondo arabo e dall’Iran – Erdoğan ha così assicurato ciò che aveva promesso all’opinione pubblica turca per mesi. Tutti i partiti rappresentati nel Parlamento turco, eccetto il Partito democratico dei popoli (HDP), filocurdo e di sinistra libertaria, e persino i detrattori più duri di Erdoğan all’interno del suo paese ne riconoscono il successo nel destreggiarsi tra Stati Uniti e Russia per raggiungere gli obiettivi prefissati in Siria, anche se al costo del deterioramento delle relazioni con l’Unione europea, giunte ormai a un punto di rottura dopo le proteste che si sono levate in Europa contro l’operazione militare della Turchia.
Vincitore assoluto
Ma se Erdoğan ha vinto, Putin ha trionfato. La crisi siriana si è trasformata in un biglietto per Mosca per tornare in Medio Oriente dopo diversi decenni ed ora Putin sta lavorando per una mediazione su due livelli: per l’apertura di un canale di dialogo tra Ankara e Damasco e per l’apertura di un canale di dialogo tra Damasco e curdi, per giungere ad una soluzione che accontenterebbe tutti e tre i maggiori attori dello scacchiere.
Il presidente russo cerca da tempo di sottrarre la Turchia e i curdi all’influenza USA e rendere inutile la presenza degli americani in Siria, obiettivo che accomuna la Russia e Teheran e Damasco.
Il presidente russo ha riconosciuto il “diritto della Turchia a garantire la sua sicurezza”, ma lo ha condizionato a diversi importanti fattori, primo tra i quali il rispetto dell’integrità territoriale della Siria. Ciò, per Putin, è un punto di partenza. Ma vi è un altro principio sacro per la Russia in Siria, ed è quello che sostiene che “tutte le truppe straniere presenti nel paese illegalmente – cioè quelle non invitate da Damasco – devono lasciare il paese”. In termini politici significa che la Russia si aspetta che la Turchia “soddisfi le sue esigenze di sicurezza”, ma che, una volta che queste siano state soddisfatte, abbandoni tutte le aree della Siria che ha posto sotto il suo controllo. Ciò vale per gli Stati Uniti e vale anche per la Turchia.
Come appare evidente l’approccio della Russia all’offensiva turca nella Siria nordorientale segue una linea teorica che Putin ritiene sia necessaria per il Medio Oriente: all things to all men (‘’a ciascuno il suo’’). Fino ad ora questa filosofia ha dato i suoi frutti e Mosca continua a perseguirla.
Dilemma curdo
Ankara con la sua offensiva ha dunque modificato gli equilibri militari e politici nello scacchiere siriano e questo risultato ha rafforzato la sua influenza nei colloqui di Ginevra riavviati il 30 ottobre con i lavori della commissione costituzionale.
Le Forze democratiche siriane (SDF), la cui spina dorsale è costituita dalle milizie curde YPG, e la sua ala politica, il Consiglio democratico siriano (MSD), non sono presenti tra i 150 gruppi rappresentati a Ginevra nei colloqui per la nuova Costituzione siriana. Quindi i partiti curdi che si sono battuti eroicamente per la sconfitta dell’ISIS sono stati esclusi dal comitato costituzionale, soprattutto per volere di Ankara.
Tra Damasco e curdi sarebbe in corso, per ora, “una negoziazione militare” cui dovrebbero seguire quella politica per assicurare a quest’ultimi il rispetto di alcuni diritti fondamentali. Ricordiamo che un primo progetto di costituzione per la Siria, proposto dalla Russia nel gennaio 2017, contemplava la necessità di riconoscere un’autonomia culturale ai curdi. Ankara ovviamente si era fermamente opposta. Ma il problema dello status dei curdi si potrebbe ripresentare.
Molti osservatori ritengono che la Russia non smetterà di usare la carta curda. Ricordiamo che Mosca ha mantenuto per anni un rapporto con il Partito di unione democratica (PYD) e il suo braccio armato YPG e attualmente sta mediando tra Damasco e questo gruppo.
Fonti vicine all’amministrazione russa sostengono che Mosca intenderebbe concedere privilegi cantonali ai curdi-siriani nella nuova Costituzione. Putin avrebbe confermato questa sua idea durante la conferenza stampa congiunta a Sochi, dopo i colloqui con Erdoğan, dicendo: “Dovrebbe iniziare un dialogo tra il governo siriano e i curdi nella regione. I diritti dei curdi, che fanno parte del popolo siriano multietnico, possono essere garantiti solo in questo modo“.
Mariano Giustino è il corrispondente dalla Turchia di Radio Radicale, sulle cui frequenze conduce la rubrica settimanale «Rassegna Stampa Turca». Studioso di problematiche politiche e sociali della Turchia, è anche segretario generale di «Turkey Europe Now», organizzazione transnazionale impegnata a sostenere il dialogo della Turchia con l’Unione europea.