ASIAGO (Vicenza) – Si può cominciare da una denuncia a cambiare il corso delle cose che non cambiano mai? Ermanno Olmi e con lui tanti anonimi cittadini pensano di sì. Vediamo di che cosa si tratta.
L’elenco delle scurrilità e violenze verbali di Umberto Bossi è lungo e ripetitivo. Ma uno degli ultimi episodi, il 30 dicembre ad Albino nella Bergamasca, quando gli insulti, le corna e i “vaff” a Napolitano, al tricolore, a Monti sono finiti nei Tg e su Youtube – dove si possono tuttora vedere – ha messo in moto una reazione a catena di denunce contro il segretario della Lega, per vilipendio, offesa all’onore personale, oltraggio nei confronti del presidente della Repubblica, del Primo ministro, della bandiera nazionale. La moltiplicazione delle denunce alle procure, finora dieci (Verona, Bassano, Vicenza, Trento, Bergamo, Brescia, Milano, Roma, Napoli, Bari) è avvenuta attraverso il passaparola, e-mail, social networks, e grazie alla mobilitazione di gruppi di cittadini che hanno deciso che la misura era colma.
Andiamo a trovare Ermanno Olmi, il regista di Bergamo che vive ad Asiago, l’autore dell’«Albero degli Zoccoli», un uomo che ha titoli per rappresentare la terra lombarda e padana, compresi i suoi dialetti, e che con il suo cinema ha parlato un linguaggio sottovoce, con molti silenzi, eppure preciso e forte, come sa essere chi tiene in grande considerazione il peso delle parole.
Questa volta Olmi ha deciso di appoggiare il ricorso alla giustizia e di sottoscrivere la denuncia: «Ma non faremo la sfilata delle personalità, semplicemente ci mettiamo in fila come cittadini». Ha compiuto ottant’anni l’anno scorso quando ha presentato il suo ultimo film, «Il villaggio di cartone»; una chiesa che diventa ricovero per gli immigrati clandestini, un apologo sulla tempesta della globalizzazione che spazza l’Italia, sull’accoglienza e con una morale: «O cambiamo il corso della storia o sarà la storia a cambiare noi». Il regista ci riceve in ottima forma, malattie e cadute sono solo un ricordo, fuori sull’altipiano il gelo di stagione, dentro il camino acceso.
Perché la denuncia?
«Non si tratta tanto di fermare la scurrilità: se l’individuo Bossi, per esempio, usasse termini volgari sulla sua persona o per giudicare situazioni degne di insulti, potrebbe essere anche tollerato. Il fatto invece che li usi per denigrare persone che rappresentano dei valori – come quelli insiti nel simbolo della bandiera italiana – esige una ribellione. Insultare ciò che per qualcuno ha valore è una bestemmia. L’atto di denuncia verso Bossi non riguarda la Lega Nord, che essendo stata votata ha diritto di esistere come tutti gli altri partiti, avendo anche al suo interno persone di grande qualità. La politica è una cosa seria e sacra, e comportamenti come questi di Bossi o come quelli di Borghezio e Calderoli con il loro “maiale day” contro la costruzione delle moschee non possono essere tollerati. Maroni ad esempio è una persona seria e, da nonno, gli direi di andare avanti con coraggio sottolineando la differenza che c’è tra lui e coloro che fanno male anche alla Lega».
Presa di posizione chiarissima, ma in questi anni abbiamo ben visto quanto sia radicato l’involgarimento del linguaggio dei politici, di quelli che dovrebbero rappresentare l’élite. Difficile cambiare il corso di questa storia.
«Quando il fascismo ha sottoposto la popolazione alle architetture e alle parate di regime, solo dodici accademici (rimasti poi in otto) su duemilacinquecento si sono ribellati alla prevaricazione dittatoriale, mentre il resto dei cittadini si lasciava trastullare dalle lusinghe che il potere metteva a disposizione dei cedimenti morali del popolo. Quando s’inventavano slogan offensivi contro coloro che non aderivano a questa stupidità generale con un linguaggio altrettanto stupido, il popolo non se ne accorgeva. “Che Dio stramaledica gli inglesi” era uno degli slogan. C’è gente che siede in parlamento e che per avvalorare una posizione marginale rispetto ai grandi problemi parla della Padania come colonia o delle differenze razziali tra lombardi e veneti. Ci troviamo di fronte ad una realtà talmente stupida che non può durare a lungo. Vista la debolezza concettuale di questi discorsi, si ricorre ad una terminologia spinta. Il cittadino comune, però, che non ha perso l’orientamento nei confronti delle istituzioni, sente che posizioni che spetterebbero ai migliori sono ricoperte da persone che insultano lo Stato e il governo e non lascia che le cose vadano in questo modo. Proprio per questo la denuncia nei confronti dell’individuo Bossi ha riscosso moltissime adesioni. No, non è indignazione generica, è un richiamo al rispetto delle istituzioni e di chi le rappresenta, Napolitano e Monti, da parte degli italiani tutti».
Bossi non sopporta l’idea che l’Italia si sia riempita per il 150esimo dell’Unità nazionale di bandiere tricolori.
«L’affermazione di Bossi che mi ha creato più sgomento, e da cui provengono tutte le altre, è stata “Io con la bandiera italiana mi pulisco il c.”. Mi piacerebbe ricordare a tutti gli italiani più che a Bossi, che non credo capirebbe il valore delle mie parole, che dietro quella bandiera c’è gente che ha sofferto, che è morta, che ha creduto nella libertà, nella democrazia e nella civiltà. E questo signore non ha nessun diritto di offendere questi morti, che sono nostri parenti e amici, che più di noi si sono esposti. Se si desse a questa bandiera lo stesso valore che si dà ad una bandiera del tifo calcistico, forse la denuncia non avrebbe senso. Ma la bandiera italiana esige rispetto».
Stiamo formulando dei pensieri che saranno giudicati buoni e giusti, ma forse anche poco realistici. Chi scommette sull’Italia che non cambia di solito in politica vince.
«Ma è realismo quello di chi misura tutte le cose in relazione ai numeri e non al loro valore? Vorrei citare nella galleria dei personaggi che hanno onorato l’Italia Cesare Pavese. Quando i comunisti del dopoguerra lo accusavano di non essere concreto perché parlava di pensieri, rispondeva che non esiste nulla di più concreto dei pensieri. I pensieri sono la capacità dell’uomo di assegnare valore alle cose al di là del loro prezzo e del loro peso fisico».
Abbiamo visto, da italiani, quanto la politica incoraggi condotte viziose. Il linguaggio di Bossi e quello delle cricche d’affari sono simili.
«E se la politica premia queste cose, io mi ribello. Se penso a una figura come il nostro Presidente mi domando chi, da Einaudi in poi, sia stato alla sua altezza. Hanno ricoperto quella carica brave persone, e anche dei furbi, ma la differenza con Napolitano è netta. Lui ha una qualità spiccata nell’assumersi le responsabilità di un capo di Stato visto e nell’uso delle parole e del pensiero. Nei primi anni dopo la Liberazione, galantuomini come Parri, Lussu, Terracini, De Gasperi avevano la forza di un pensiero che usciva dal dolore della guerra. Certo quei galantuomini e quella politica erano vulnerabili di fronte alla prevaricazione di chi offendeva la libertà e la dignità, di chi avrebbe trasformato la politica in terreno dei furbi, degli opportunisti, delle trame».
Come ribellarsi a una politica che non vola un millimetro sopra la rappresentanza degli interessi immediati? Per qualunque riforma impegnativa, sembra meglio passare il governo ai tecnici che aspettarsi che la facciano i partiti.
«È una politica che non riesce ad avere un pensiero superiore ai numeri e ai pesi. Eppure De Gasperi era De Gasperi, e Napolitano è Napolitano. Ma il nuovo governo, che è fatto di professori, è politica anch’esso, compie atti politici veri e propri, che hanno ripercussioni sulle persone. I professori agiscono in una situazione di emergenza: in Italia stiamo affondando, non abbiamo le scialuppe di sicurezza e bisogna nuotare tutti, bagnarci i piedi pur di venir fuori dalla crisi. Eppure ci sono ancora persone che si ostinano a cesellare la loro furbizia, ma la furbizia è la più alta forma di stupidità».
Una denuncia allora può servire per restituire alle parole il loro valore, per educare a un altro linguaggio. Ma la degradazione di questi anni ha delle radici: un linguaggio educato era anche espressione di un ordine sociale che si è disintegrato.
«Esistono alcune immagini di Milano e della periferia di Milano del 1945 dove sembra ancora di vedere cose da “Miserabili” di Victor Hugo: bambini a piedi nudi, vestiti di stracci. Oggi la grande diversità sta nel fatto che la globalizzazione è fatta di tante differenze non compatibili tra loro. Nella civiltà rurale tutti parlavano lo stesso linguaggio, infatti, nella storia dell’umanità, la civiltà rurale è stata l’unica civiltà a poter essere definita compiuta, mentre le altre civiltà, tra cui quella industriale e quella tecnologica, sono state provvisorie e una volta raggiunto il loro apice sono repentinamente crollate. La civiltà rurale, invece, è sempre viva e anche nella apparente differenza di razze – apparente, visto che discendiamo tutti dalla medesima razza, quella nera – ha un minimo comun denominatore che rende le persone simili e capaci di riconoscersi. Quando in Cina hanno visto «L’Albero degli Zoccoli» nessuno ha avuto difficoltà nel comprendere il film. Quel tipo di globalizzazione, rurale, presupponeva elementi utili a riconoscersi reciprocamente e a dialogare. Oggi invece esiste una sovrapposizione di modelli di società non più reciprocamente compatibili. Alla fine dell’Ottocento tra le situazioni vissute nelle campagne italiane e quelle proprie dei villaggi africani non esisteva una grande differenza; infatti in entrambi i casi si viveva di pastorizia e agricoltura. Con l’arrivo della scienza e l’introduzione di nuove realtà industriali si sono create quelle differenze che non permettono più alle persone di riconoscersi».
Ma anche la realtà industriale aveva una sua uniformità internazionale e una cultura forte della coesione sociale. La grande industria si preoccupava anche di tempo libero, cultura, libri, teatro. Lei ha esordito facendo documentari per la Edison.
«Questo è vero se si fa riferimento ad una determinata area della società. Ma tra la vita di un operaio a Milano e il contadino della Valle Brembana, dopo l’avvento dell’era industriale che ha tolto braccia alle campagne a favore delle fabbriche, è arrivato un momento in cui non esisteva più dialogo. Questa situazione ha acuito anche la differenza esistente tra Nord e Sud, dove al Sud il latifondo è andato avanti fino al dopoguerra. La popolazione che vive nelle periferie delle grandi città oggi non ha più alcun collegamento con coloro che vivono nelle campagne, come invece succedeva prima».
Stiamo rimpiangendo un passato che non ritorna?
«Non si tratta di nostalgia. Se apprezziamo la genuinità di un pezzo di pane di farina di grano duro o un piatto di pasta al pomodoro preparato con dei veri San Marzano, non si tratta di nostalgia ma di lucida conoscenza della differenza che esiste tra questi prodotti e quelli industriali in scatola, che hanno perso il valore nutrizionale degli originali. Non guardiamo al passato in modo decadente con la voglia di tornare indietro, ma arricchiamo il presente di valori ormai dispersi. Oggi non esistono più i veri contadini, sono stati sostituiti da operai che lavorano la terra con modelli industriali».
Parliamo di ribellione alla degenerazione della vita politica e del suo linguaggio. Ma la educazione politica ha bisogno di basi materiali nella società. La solidarietà sociale poteva prosperare nella società agricola e in quella industriale. Nella società frammentata di oggi ha vita stentata.
«La condizione quasi perfettamente ideale di solidarietà è esistita nel dopoguerra visto che bisognava ricostruire e rimettere in moto la macchina del paese. Appena questi ingranaggi hanno prodotto ricchezza, che ci ha concesso di vivere non sull’orlo della miseria, abbiamo sottoscritto un progetto di arricchimento senza limiti e siamo arrivati a vivere in condizioni fasulle, credendoci ricchi e giocando su un’economia del rinvio senza presentare un rendiconto di fine anno, il che ci ha fatto accumulare uno spaventoso debito pubblico. La disonestà non consiste solo nel rubare ciò che appartiene a un altro, ma anche nell’ingannare gli altri con le bugie e noi siamo stati ingannati. E, attenzione, lo siamo ancora adesso, quando lasciamo dire che bisogna far ripartire i consumi per la crescita, mentre bisognerebbe ridurli entrambi per essere realisti e uscire dall’inganno. Il programma di questo governo che cerca un salvagente per tenerci a galla non è abbastanza realistico: visto che la nave sta affondando, per salvarci di certo non bastano solo i salvagente, bisognerebbe tornare a zappare la terra».
La Milano dei suoi film degli anni Sessanta, «Il posto», «I fidanzati» era un emblema del ritmo della città industriale, scandito dalle enormi fabbriche, dai tram strapieni nell’ora di punta, da fiumi di tute blu e colletti bianchi. Sembrava un ordine permanente e si è rivelato transitorio e breve.
«E dobbiamo adeguarci: l’ordine morale deve modificare l’idea che abbiamo delle basi materiali. Non si può più pensare di avere più automobili e televisori per famiglia. Abbiamo vissuto l’idea della ricchezza ignorandone il fondo. Il boom economico dell’Italia alla fine degli anni ’40 e con l’anno Santo del 1950 era caratterizzato dalle biciclette, dalle Lambrette, poi dalle Fiat 500, ma nel 1953 iniziò a circolare la parola “congiuntura” che secondo gli economisti comportava una momentanea pausa a questo travolgente momento di ricchezza. Era invece un segnale che non abbiamo ascoltato. Nel Villaggio di cartone l’ho detto: “O siamo noi a cambiare il corso della storia o sarà lei a cambiare noi”. E in questo momento si sta verificando la seconda ipotesi, il che porta con sé dei veri e propri Tsunami».
La società contadina aveva le sue sicurezze, quella industriale poteva contare sul welfare. Ora siamo esposti ai rischi della globalizzazione e della frammentazione.
«La sicurezza del sistema industriale è fallita mentre quella della civiltà rurale esiste ancora. Noi possediamo pensioni, assicurazioni private e di categoria, ma neanche più quelle sono in grado di rassicurarci. Dopo la fine dei latifondi in alcuni contesti del mondo rurale esistevano “società dei probi contadini” che garantivano per i soci in difficoltà, condividendone i problemi e le disgrazie agendo sempre sulla base della fiducia. Se un contadino perdeva la vacca si faceva una colletta per sostenerlo. Oggi potremmo fare una società dei probi condomini?».
Difficile obiettivo, ma qualcosa ci resta da fare.
«Oggi si può mettere in atto una nuova idea di convivenza che abbia alla base un progetto. La politica, invece, non parla mai di progetti concreti, vivendo di icone ideologiche poco concrete. Il governo attuale è stato costretto a dare risposte concrete provocando l’ira di coloro che non accettano l’idea di non aver pensato prima al fatto che eravamo poveri».
Dove stanno le voci capaci di annunciare la dura verità e l’ardua impresa che ci aspetta? Politici nuovi? Talenti d’artista?
«Se emergesse qualcuno a guidare le coscienze altrui sarebbero guai per tutti. Ognuno di noi fa grande fatica a guidare la propria e ad ammettere le proprie debolezze. L’agire con superficialità ci ha portato alle soglie di una difficile scelta di cambiamento. Dobbiamo guidare le nostre coscienze e dobbiamo avere la consapevolezza che in passato abbiamo creduto nella ricchezza come risolutrice di tutti i problemi. C’è un solo comandamento da rispettare in questa situazione: cambiare vita e con il pensiero e con le parole dare un nuovo valore alle cose».