Occupy Wall Street è la nostra coscienza

Occupy Wall Street ha riscosso uno straordinario successo sia come movimento in sé, sia come fenomeno capace di catturare l’attenzione dei media. Ma è stato volutamente frainteso dai suoi sostenitori oltre che dai suoi detrattori. Il sindaco di New York Michael Bloomberg lo ha liquidato con parole sprezzanti: «È divertente e catartico. L’indignazione è – come dire? – una forma di intrattenimento, ma non serve a migliorare le cose, né è utile danneggiare le attività commerciali e denigrare certe persone» («New York Times», 2 novembre). Intanto, Bill Keller scriveva dall’India (alla cui popolazione, ha spiegato, il capitalismo va benissimo) in tono sarcastico: «Sono pronto a festeggiare il giorno in cui i manifestanti di Occupy Wall Street (…) riusciranno a fare qualcosa di più che organizzare la pulizia degli accampamenti, dimostrare la loro capacità di sopportare i lacrimogeni e sviare un po’ il dibattito dal Tea Party» («New York Times», 31 ottobre). Come Keller e Bloomberg, critici e presunti sostenitori del movimento non si peritano di chiedere che quest’ultimo renda note le sue «richieste».

 

I media ossessionati dalle celebrità, e abituati a definire i movimenti in termini di leadership, sono in cerca dei veri «leader». I simpatizzanti temono che il movimento sia mosso da buone intenzioni, ma amorfo e privo di uno scopo ben preciso, mentre i critici lo liquidano come un’ennesima esplosione di anarchismo hippy: i giovani manifestanti, non avendo nulla in cui credere, sono pronti a distruggere tutto; o forse vogliono semplicemente dare un pasto caldo ai senzatetto. Certo, gli attivisti di Occupy Wall Street, con le loro tante e variegate prospettive, costituiscono un gruppo eterogeneo. Da New York a Oakland, da Chicago ad Atlanta, da Roma a Londra, il movimento degli indignati abbraccia un’ampia serie di cause e registra tensioni e spaccature che essi stessi riconoscono e addirittura vedono con favore.

Occupy Wall Street è diventato un contenitore nel quale la gente riversa le proprie paure e aspirazioni; ma questo è un punto di forza, non una debolezza. Non si può organizzare un movimento sulla base di una sola e unica rivendicazione, per convincente che sia. Forse è per questo che gli attivisti hanno tardato a redigere un documento che definisse le loro prerogative fondamentali, ma al costo di escluderne molte altre. Ciò non significa che non vi sia un filo conduttore. I manifestanti vogliono occupare Wall Street, non il centro di reclutamento militare di Times Square, il quartier generale della British petroleum (Bp) o Gracie Mansion (la residenza ufficiale del sindaco di New York, ndt).

 

Il nodo della questione è la finanza! Quella finanza che ha messo il profitto davanti alla persona, lasciando che i valori umani fossero misurati solo in denaro. Quella finanza che (con la complicità della Corte Suprema) ha sostituito i voti (uno a testa) con i dollari (uno per il 99% e 99 per l’1%!), trasformando così la democrazia in plutocrazia. Basta trascorrere un po’ di tempo a Zucotti Park, tuttavia, per rendersi conto che gli attivisti di Occupy Wall Street non sono accomunati solo dalla convinzione che il denaro abbia infranto il patto sociale. Essi condividono qualcosa di ancor più prezioso: l’idea che la vera essenza della democrazia non possa essere definita in base al modo in cui la democrazia stessa viene oggi esercitata. I manifestanti non hanno richieste, ma un ordine del giorno; non seguono una linea politica ben precisa, ma danno vita a un importante processo che esprime i loro princìpi. Per capire cosa sta succedendo occorre analizzare ciò che il movimento è, non quello che fa.

Cominciamo con il prendere sul serio gli onnipresenti cartelli su cui campeggia la domanda: «Cos’è la democrazia?», seguita dalla risposta: «NOI siamo la democrazia!». A ben vedere, il processo messo in atto da Occupy Wall Street rappresenta un audace tentativo di esprimere un nuovo modello di impegno partecipativo, che offra un’alternativa alla democrazia controllata dai grandi poteri economici. Tale processo prevede il netto rifiuto di quello strumentalismo tanto caro ai politici americani: «il fine giustifica i mezzi», si sa, per cui il presidente Obama non può che raccogliere fondi da grandi bundler (procacciatori di finanziamenti) e lobbisti pur essendosi impegnato a non farlo (altrimenti come potrebbe essere rieletto?). O agli ipocriti che cercano di guadagnare tempo con discorsi del tipo: «Sì, le perforazioni offshore pongono il rischio di un disastro ambientale di enorme gravità», ma «c’è bisogno di nuovi posti di lavoro, il che presuppone l’indipendenza dal petrolio straniero!».

 

È questo crasso strumentalismo che induce i manifestanti a ribellarsi non soltanto contro Wall Street e il capitalismo, ma anche contro la solita politica e le presunte virtù dei rappresentanti di entrambi gli schieramenti che sostengono ipocritamente di essere diversi, quando in realtà non lo sono. I princìpi dei manifestanti sono dunque espressi dai processi messi in atto dal movimento, processi che rivestono una certa importanza, non soltanto perché propongono un approccio profondamente diverso rispetto al modus operandi tradizionale, ma anche perché sono assai efficaci. La prerogativa fondamentale è che ogni decisione, sia essa relativa a tattiche, investimenti, princìpi o cambiamenti strutturali, deve essere sottoposta a un’Assemblea generale che si riunisce quasi tutti i giorni ed è la fonte della «volontà generale» del movimento, ossia della sua legittimità. Il processo che crea l’Assemblea generale è molto aperto e trasparente, ma con l’inconveniente un gruppo di sostenitori variabile, poiché nelle assemblee tutti sono benvenuti e la loro composizione può cambiare di giorno in giorno.

Inoltre, e qui sta il pregio ma anche il difetto del processo, le decisioni vengono prese all’unanimità. Non a maggioranza, né due terzi o tre quarti, ma all’unanimità. Un’unanimità che dev’essere raggiunta da un gruppo di sostenitori in continua evoluzione nel corso di una serie di incontri in cui si arriva alla piena legittimità solo dopo aver preso in considerazione ogni proposta di emendamento e messo «sul tappeto» e discusso ogni dubbio o punto critico, e in cui – ecco l’elemento più significativo – occorre ascoltare la voce di tutti, anche dei partecipanti così ostili a una proposta da reagire con un block (cioè incrociando le braccia a X).

 

I «blocchi» devono essere affrontati, discussi e superati (ma non necessariamente) in modo che prevalga il consenso. C’è un meccanismo che consente a una supermaggioranza del 90% di respingere uno o più «blocchi», ma vi si ricorre di rado. Quando l’Assemblea generale ha proposto una donazione di 20.000 mila dollari a Occupy Oakland per ottenere la scarcerazione di manifestanti arrestati e sottoposti a maltrattamenti in quella città, quello che avrebbe dovuto essere un incontro di venti minuti si è protratto per più di due ore: i «blocchi» sono stati superati grazie alla strategia della persuasione e all’inserimento di alcuni emendamenti nella mozione.

E a fine ottobre è stata invocata una supermaggioranza del 95% per introdurre un sistema di spokes council che consenta all’Assemblea generale di delegare alcune delle questioni meno importanti e più tecniche ad assemblee e comitati (i «raggi» di una ruota), ma solo dopo una serie di incontri durati un’intera settimana che hanno dato alle poche voci contrarie tutto il tempo e lo spazio per esprimersi (alla fine, più di 300 si sono detti favorevoli e 17 contrari). Che le decisioni vengano prese all’unanimità o con una supermaggioranza del 90% o più, questo processo richiede una buona dose di pazienza e tolleranza, la disponibilità al dialogo e alla discussione e una particolare attenzione a comprendere e affrontare le obiezioni. In tal molto risulta molto più difficile approvare (e dunque decidere o intraprendere) qualsiasi iniziativa, ma ogni decisione che viene adottata può vantare una legittimità che non ha paralleli nell’ordinaria gestione della sfera pubblica e privata, spesso soggetta alla tutt’altro che trasparente influenza di monopoli di mercato, lobby che difendono interessi particolari e fiumi di denaro.

 

Anche l’espressione gestuale svolge un ruolo ben preciso nel processo messo in atto da Occupy Wall Street: il «blocco» può sembrare una reazione piuttosto violenta, ma l’accordo e il disaccordo vengono espressi in maniera più delicata: per dire «sì» i manifestanti che partecipano all’Assemblea generale alzano le mani e muovono le dita, per dire «no» stendono le braccia in avanti, abbassano le mani e muovono sempre le dita, come foglie che oscillano al vento. Gli alcolizzati, squilibrati o facinorosi senza alcun interesse verso tale processo (una minaccia costante, vista l’eterogeneità dei sostenitori del movimento) sono trattati con modi altrettanto gentili: vengono allontanati da «sussurratori» che esercitano una forma di controllo grazie alla loro capacità di persuasione e alla loro delicatezza o, se questo metodo non funziona, isolati dal resto dell’Assemblea con una maglietta a coprirgli il viso, e se urlano vengono messi a tacere con ripetuti appelli a un mike check da parte dei più pazienti, che in tal modo hanno la meglio sui disturbatori.

I cinici di destra liquidano Occupy Wall Street come un gruppo di socialisti e collettivisti, ma non mi risulta che vi siano altri processi democratici così sensibili all’autonomia e ai diritti degli individui. Anzi, uno degli elementi più interessanti del processo in atto a Zucotti Park è il «microfono umano» (megafono) invocato da un «facilitatore» che grida mike check. Questa novità è stata resa necessaria dal divieto, imposto dalle autorità cittadine, di ricorrere all’amplificazione elettronica. Il numero di partecipanti all’Assemblea generale può anche superare diverse centinaia di unità ed è impossibile che la voce degli oratori arrivi a tutti, per cui questi ultimi si esprimono per frammenti che vengono ripetuti (con effetto eco) dal pubblico almeno una volta e spesso due, come a formare un cerchio in espansione, in modo da raggiungere anche le posizioni più periferiche. Quello del «microfono umano» è un espediente poco pratico che rende difficile qualsiasi discorso complesso e articolato.

 

Ma presenta due importanti virtù democratiche: costringe a esprimersi in modo diretto e relativamente semplice, a vantaggio della chiarezza e dell’efficacia comunicativa, e impone alla maggioranza alle prese con «blocchi» e opinioni contrarie di ripetere le parole dei suoi oppositori. Quale metodo migliore, per suscitare un sentimento di solidarietà verso le opinioni dissenzienti della minoranza, di costringere la maggioranza a riferire le contestazioni, parola per parola, e addirittura imitare le espressioni della minoranza stessa (il microfono umano, infatti, serve anche a questo)? È più che giusto che un movimento di protesta morale sia sensibile alle proteste contro le sue stesse iniziative provenienti dall’interno.

Da dove ha origine un processo così lento ma autenticamente democratico? Da Rousseau? Da Jefferson? Nel mio libro sulla governance partecipativa lo definisco in termini di «democrazia forte». Ma la risposta corretta è l’anarchismo. L’anarchismo!? Ma non è una forma di libertarismo radicale? Il trionfo della volontà dell’eroe egoista – come John Galt o Howard Roark, protagonisti dei libri di Ayn Rand – su tutti gli altri? L’anarchismo non rimanda forse a Rand, Nietzsche e Max Stirner, autori che rifiutano non solo il governo e lo Stato, ma qualsiasi forma di autorità e sostengono la tesi di una sovranità assoluta dell’io solitario, di quello che Stirner definisce «l’unico e la sua proprietà»?

 

Non nel caso di Occupy Wall Street. Perché i giornalisti che seguono il movimento dimenticano che sebbene l’anarchismo sia noto soprattutto come un rifiuto radicale e individualista di qualsiasi forma di autorità, a favore della sovranità assoluta dell’io solitario, in realtà esso è stato più spesso rappresentato da quello che potremmo definire anarchismo comunitarista. Il pensiero va a filosofi dell’Ottocento come Pierre Proudhon e il principe Kropotkin. Proudhon si scagliò contro la proprietà definendola un «furto» (nel suo Che cos’è la proprietà?), ma come Kropotkin in Il mutuo appoggio non criticò la cooperazione e l’interesse comune, ma la gerarchia e l’autoritarismo statalista, anche quando si presentano in veste «democratica». Per gli anarchici comunitaristi come quelli di Occupy Wall Street (non che si definiscano così, né siano necessariamente consapevoli dei presupposti di ciò che a loro viene naturale), gli esseri umani sono animali sociali che non hanno bisogno di uno Stato gerarchico per esercitare la democrazia o vivere nel rispetto di decisioni e regole stabilite in modo consensuale.

Vi sono processi locali che rendono lo «Stato» superfluo e permettono alla democrazia a livello di quartiere di garantire un’autorità comune data dalla piena partecipazione di tutti ai processi stessi. L’anarchismo comunitarista è il vero volto della democrazia, e a quanto pare da esso scaturisce la maggior parte delle regole e dei processi messi in atto da Occupy Wall Street.

 

Può darsi che Occupy Wall Street sia un movimento ingenuo ed esasperante nel suo rifiuto di prendere parte alla politica tradizionale e nel suo disprezzo per le elezioni in un momento in cui tutto sembra dipendere da chi sta alla Casa Bianca (basti pensare alle nomine alla Corte Suprema). Di certo farebbe meglio a riconoscere che il capitalismo continuerà far parte della nostra vita, in assenza di un sistema alternativo, e che la sfida sta nel regolamentarlo e gestirlo in modo democratico invece di abolirlo. Eppure, gli attivisti di Occupy Wall Street sanno e mostrano che il risentimento degli americani, a destra come a sinistra, ha radici profonde. Che c’è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nel modo in cui l’America gestisce i propri affari, qualcosa che ha danneggiato la sua leadership a livello globale e indebolito la sua democrazia dall’interno. E che anche quando tutto fila liscio, il sistema resta profondamente corrotto e i suoi strumenti democratici risultano gravemente compromessi.

Avidità, narcisismo, avarizia, interessi personali ed egoismo – in breve, l’individualismo radicale e sfrenato unito agli effetti perversi dell’ideologia del libero mercato – hanno corrotto il sistema in modo ormai irreparabile. Pertanto, il sindaco Bloomberg e Bill Keller ne prendano nota, i manifestanti non sono bravi solo a lamentarsi o lanciare accuse. Si stanno impegnando per creare un’alternativa, un cambiamento di paradigma: l’autogoverno invece di un governo centrale corrotto, la partecipazione attiva invece della cultura della protesta, la responsabilità invece del cinismo. Può darsi che non sia possibile governare un paese di 300 milioni di abitanti in questo modo, ma si tratta di una risposta assai efficace alla dittatura del denaro su ogni aspetto della nostra vita. Per sin troppo tempo abbiamo dato la democrazia per scontata, partendo dall’assunto che essa andrà avanti, con o senza di noi, in nome degli interessi di qualcuno e del denaro di qualcun altro. Tutto si può risolvere con un ridimensionamento del ruolo dello Stato, o forse con un suo rafforzamento. Tutto si può risolvere attraverso le elezioni, con Obama o Michele Bachmann. Occupy Wall Street non accetta nulla di tutto ciò. La democrazia, e di riflesso l’America, vive un momento di grave difficoltà. Ma c’è un’altra possibilità, e questa possibilità siamo noi. Occupy Wall Street esprime la nostra coscienza civile e invita a una profonda riflessione su chi siamo e chi, con l’impegno e la volontà di agire, possiamo diventare. Ignorare questo fenomeno significa mettere a repentaglio le libertà di cui parliamo in continuazione, ma che al tempo stesso tradiamo, abbandoniamo e perdiamo.

(traduzione di Enrico Del Sero)

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