Articolo pubblicato sul quotidiano Europa il 17 ottobre 2014.
Sono cresciuta nella Cgil, dove ho imparato e condiviso che la chiarezza delle posizioni e la responsabilità nell’esercizio delle proprie funzioni sono un valore. E quindi oggi, come ieri in Cgil, se per scelta faccio parte della maggioranza (ieri congressuale nel sindacato, oggi di governo), non considero serio essere contemporaneamente anche nelle piazze che contestano quella maggioranza.
Non parteciperò quindi alle manifestazioni contro le scelte del governo e del Pd. Voglio spiegare bene le mie ragioni, partendo da una premessa: gli ex sindacalisti non esistono. Chi ha percorso la propria strada nel sindacato sa che non esiste altra visione culturale e politica – precedente, parallela o successiva – che possa sradicare la propria identità. Sindacalista si diventa e si rimane. E per molti di noi (ex) sindacalisti il Pd è la “fabbrica” ideale in cui continuare ad affermare e far crescere quel progetto riformista che riconosce nel valore e nella dignità del lavoro il senso più profondo dell’impegno politico: per un’occupazione non precaria, per la parità, per l’eliminazione delle discriminazioni, per la cittadinanza piena di ciascuno.
Non è perciò difficile immaginare quanto per noi sia doloroso vedere il Pd diviso proprio su questi temi. Molti di noi hanno condiviso, sostenendo il Jobs Act, un progetto di riforma del mercato del lavoro la cui necessità va di giorno in giorno trasformandosi in urgenza. Legittimo che questo progetto venga avversato e che ci si mobiliti per contrastarlo. Rispetto valutazioni e decisioni del sindacato, ma da parte mia voglio spiegare che le motivazioni che mi spingono a sostenere la riforma – e a non partecipare alla manifestazione – sono legate a doppio filo proprio con la mia storia passata, con il mio essere stata ed essere una sindacalista, oltre che con le ragioni del presente, che proverò a spiegare partendo dai contenuti e dall’ispirazione della legge delega.
Partiamo dal punto centrale del dibattito, l’articolo 18. È forse utile ricordare che quando inizia la ormai lunga storia dell’articolo 18, nel 2002, con la grande manifestazione per impedire che si percorresse la strada della sua cancellazione tout court, le ragioni della Cgil e il contesto nel quale si collocava quella battaglia erano altre da quelle di oggi: era un’altra Italia, c’era un altro mondo, e c’era un altro governo. Un governo, quello, che partendo dall’articolo 18 puntava alla cancellazione secca di tutti i diritti e all’affermazione di un’idea di destra e liberista degli assetti sociali ed economici del paese.
Questo governo, invece, un governo a maggioranza democratica, ha dimostrato di scegliere una strada diversa: di attenzione ai redditi più deboli, di cambiamento delle politiche di rigore e di forte spinta per la crescita, di attenzione al lavoro. Anche rispetto all’articolo 18 non si può non vedere quanto sia diverso l’approccio: rimane la reintegra nei casi di licenziamento discriminatorio e per gravi motivi disciplinari, e il cambiamento è inserito in un progetto complessivo che rivede e allarga le tutele e le opportunità.
Per noi democratici, e in particolare per noi sindacalisti, il Jobs Act sarà l’occasione per riaffermare nel Pd, da un lato, la centralità del lavoro, e dall’altro la forza del cambiamento. Da dirigenti sindacali, in piena autonomia, incalzavamo i governi affinché portassero avanti, con coraggio, tutte le iniziative legislative possibili per eliminare i privilegi e le discriminazioni, per incentivare l’uso dei contratti a tempo indeterminato, per estendere i diritti a chi non li aveva, per garantire alle donne il diritto alla maternità e a politiche di welfare per la genitorialità condivisa tra vita privata e lavoro, per utilizzare di più, e meglio, gli ammortizzatori sociali e la formazione dei lavoratori, per dotare questo paese di una legge sulla rappresentanza che determini una reale democrazia dei lavoratori e certifichi la rappresentatività dei sindacati, e di un’altra sulla partecipazione, in linea con l’assai positivo modello tedesco. Tutti punti chiave della legge delega.
Ecco perché dico che è da sindacalista che condivido lo spirito di questa delega, e mi batterò perché il suo iter corrisponda alle esigenze congiunte di un moderno mercato del lavoro e di tutele universali. Mi batterò perché è quello in cui credo e perché è il senso del documento che ho votato e che abbiamo approvato in direzione.
Il Jobs Act rappresenta una sfida per tutti noi, una sfida a stare nelle cose, a sporcarci le mani, a condividere le necessità e i percorsi più giusti per fare le riforme. C’è da augurarsi – e sono tra chi opera perché ciò si realizzi – che di incontri/confronti tra governo e organizzazioni sindacali ce ne siano altri: il dialogo sociale riprenda e diventi una scelta di metodo, perché è utile al paese. Ma ciascuno deve sapersi assumere la responsabilità della propria funzione. Scendere in piazza e proporre subito lo sciopero generale è una scelta che è nel campo della strumentazione del sindacato. Guai a mancare di rispetto, guai a non ascoltare i messaggi, e guai, ancor più, a tentare di strumentalizzare: lo suggerisco pacatamente a chi la Cgil pensa di conoscerla e forse non è così, e non sa quanto custodisca gelosamente la propria autonomia.
È facile immaginare che il 25 ottobre per manifestare il dissenso verso il Jobs Act saranno espresse opinioni contro il governo Renzi e il Pd. A quella manifestazione ci saranno esponenti del Pd che hanno partecipato alla discussione, ai miglioramenti e all’approvazione del documento in direzione, pur non facendo parte della larghissima maggioranza che lo ha votato. Hanno, ovviamente, piena legittimità di stare in piazza; ognuno agisce secondo la propria coscienza, basta che sia evidente la responsabilità politica che ogni scelta comporta, con la necessaria e conseguente coerenza nei comportamenti. Se arriviamo a dividerci tra sostenitori del governo e paladini delle manifestazioni sindacali, se i piani si sovrappongono e si finisce per sostenere sia il Pd sia le manifestazioni che lo contestano, vuol dire che qualcosa è saltato nelle dinamiche di una sana e corretta dialettica politica – quella in cui ciascuno fa il proprio mestiere, parlamentari compresi, e si assume le proprie responsabilità – col rischio, assai serio, di non farci capire dai nostri elettori.
È già capitato troppe volte, troppe volte abbiamo già lasciato che tafazzismi di varia sorte frenassero la nostra forza riformatrice. Ora, che stiamo dimostrando di poter vincere e convincere, non possiamo più permettercelo.
Nell’immagine: Valeria Fedeli