“Sono contenta di questo incontro. Voglio dare l’opportunità di conoscermi e far capire cosa c’è dietro alla mia persona”. Con queste parole, il neoministro all’Integrazione, Cecile Kyenge si presenta alla stampa. Lo fa nel giorno dedicato alla libertà dell’informazione – e non è un caso: “Abbiamo scelto appositamente la giornata di oggi, per cercare di parlare della Carta di Roma e dell’uso corretto delle parole. Io sono nera, italo-congolese e ci tengo a sottolinearlo. Appartengo a due culture e due Paesi che sono dentro di me e non potrei essere solo italiana o solo congolese. Non sono di colore, sono nera: è importante dirlo e lo ribadisco con fierezza. Penso sia giusto anche nei confronti di tante persone che fanno parte di questo Paese.”
La ministra – così si definisce – rivendica con orgoglio anche le sue radici nell’associazionismo e nella politica: “Abbiamo cercato di far capire all’interno dello stesso PD, i temi dell’integrazione e dell’immigrazione”, suggerendo “approcci a queste tematiche, che vadano verso le politiche dell’accoglienza” e non verso la considerazione dell’ “immigrazione in termini di sicurezza”.
Di professione medico oculista, la Kyenge non tralascia i particolari di un passato trascorso a “lottare contro ogni forma di razzismo” e dove niente è stato scontato, con una laurea conseguita nel minimo dei tempi e con il massimo dei voti e che comunque non le ha risparmiato di impiegare due anni alla ricerca di un lavoro.
“Oggi sono ministra all’Integrazione, ma spero di inserire all’interno di questo ministero anche l’ interazione, senza g.”, specifica e utilizza il tragico sisma vissuto dalla sua Emilia come metafora per le sue speranze: “Con il terremoto sono caduti tutti i muri e abbiamo dovuto mescolarci per forza”. Le nuove forme di integrazione e interazione, per il ministro, si hanno conoscendo nuove persone e nuove culture: sarà difficile avviare un percorso nuovo “finché ci saranno delle frontiere”.
Parlando del nuovo governo, sottolinea l’importanza – al suo interno – del lavoro di squadra. Sia tra i dicasteri – “Il mio ministero sarà trasversale, lavorerà anche con gli altri”, con quello del Lavoro e della Scuola, per esempio, perché “per me, l’integrazione comincia dai banchi di scuola” – che tra i vari gruppi politici. La ministra parla infatti della necessità di “imparare a tracciare un terreno condiviso con gli altri partiti”: “Ognuno di noi deve riuscire a capire che facciamo parte di una squadra che funziona se abbiamo punti di condivisione. La mia sfida è creare punti di condivisione.” E, aggiunge poi, “parlare a chi è distante da me, senza offendere”. Mancano i riferimenti espliciti di questa frase, ma è difficile non ripensare a certe reazioni e esternazioni, arrivate anche da eletti alle cariche pubbliche – valga per tutte l’uscita del leghista e Parlamentare europeo Borghezio e le sue parole sul “governo del bonga bonga”.
Tuttavia, la ministra difende il Paese che da pochi giorni rappresenta: “L’Italia non è un Paese razzista”, dice con convinzione e ricorda, come argomentazione alla sua tesi, la tradizione dell’accoglienza e dell’ospitare l’altro, che è insita nel dna italiano. Lo scarto sta piuttosto nel riuscire a far emergere fin sulla pelle questa nostra ospitalità di fondo: “Bisognerebbe cercare di conoscere bene ciò che è nelle nostre tradizioni e applicarlo alla quotidianità”, dice la ministra. “Si parla di razzismo, perché non c’è la conoscenza dell’altro”. Una conoscenza che per la ministra è propedeutica al superamento delle diffidenze e che si traduce in prospettive nuove, smussate o rovesciate – a seconda dei casi: “Vedere l’immigrazione come una ricchezza e la diversità come una risorsa” sono cose che l’Italia “può fare benissimo, grazie alla sua tradizione”.
“Cambiando linguaggio, modalità e approccio, molte cose possono essere fatte. La quotidianità mi dice che abbiamo persone che nascono e crescono in Italia e non hanno un’identità: non si sentono italiani, né si sentono di appartenere al Paese di origine dei genitori”.
Parla della sua nomina come di una “tappa necessaria”: “ho molto apprezzato il premier Letta, perché l’Italia questo passo lo doveva fare”. Un Paese indietro, il nostro? Non proprio, chiarisce la ministra: già il suo essere titolare di un dicastero sarà “un termometro per capire a che livello siamo. Ma è sbagliato parlare di un Paese avanti o indietro: ogni Paese ha il proprio percorso”.
È chiaro però che ciò di cui ha bisogno l’Italia è un “cambiamento culturale” – obiettivo e speranza al tempo stesso della neo ministra per l’Integrazione. “I nostri figli devono crescere con un approccio diverso”, dice riferendosi non solo all’integrazione razziale ma anche a quella di genere. La sfida è dura, Kyenge lo ammette: “Sarà difficile riuscire a fare in poco tempo, ciò che in tanti anni non è stato fatto”. Tuttavia, ciò che conta per la nuova ministra è altro: “L’importante è cambiare e capire che anche nella formazione delle leggi serve una mentalità più aperta. L’integrazione non riguarda solo gli immigrati, ma tutti dobbiamo essere pronti a un nuovo approccio Cambiamento significa comunque iniziare un nuovo cammino”.
E’ fondamentale il confronto con l’altro nel rispetto dei diritti umani, vi invito per solidarietà, se volete, a vedere il video contro il razzismo creato da mio figlio Giuseppe di 13 anni, suo il montaggio, le parole della canzone, mia la voce e l’arrangiamento musicale con la chitarra, You Tube:Il confronto con l’altro…
I nostri figli hanno tanto da insegnarci ed è nostro dovere rispettarli e non deviarli con filtraggi negativi della nostra Società…..
Evviva la speranza….
Sì, certo fieri, come si è fieri della propria identità o di un aspetto della propria identità. La cosa è ovviamente tanto più significativa quanto più una identità è presa di mira e bersaglio di comportamenti aggressivi e razzisti.
Con tutto il rispetto per il ministro Kyenge, ma perché uno (o una) deve essere fiero per il colore della propria pelle? Non c’è nessun merito (né demerito, ovvio) nell’aver la pelle nera, bianca o gialla. Si può essere fieri per i propri successi, per esempio per essere diventati ministri, o anche solo per aver fatto bene il proprio lavoro. Ma fieri per una cosa che hai avuto in dono dalla natura: perché?