Il vento cresceva d’intensità ma la temperatura era ancora calda. Era rimasto il tepore di quel sole forte, quello che matura fichi d’india, uva e cachi con un mese d’anticipo rispetto al resto d’Italia. Un pezzo dell’intellighenzia salentina si era data appuntamento per una sorta di commiato all’estate. Tra una focaccia ai pomodorini e una cucchiaiata di taieddha si parlava della notte della Taranta, una di quelle iniziative che paiono fatte apposta per spaccare trasversalmente il popolo della sinistra tra chi la adora, ritenendola una boccata d’ossigeno e chi – invece – la detesta, declassandola a operazione di marketing turistico mascherata da cultura.
Sergio Blasi, attuale segretario pugliese del Pd, inventore della notte della Taranta fin dai tempi in cui era sindaco di Melpignano, l’aveva definita qualche giorno prima “punta scoppiettante di un iceberg”, inserendola nella rinascita della sinistra, perché coniuga gli elementi distintivi di quella famiglia ideologica un po’ sbandata: ambiente (raccolta differenziata ed energia alternative), tributi bassi (niente addizionale irpef), un ruolo per anziani e giovani. Fate la somma degli addendi e – sostiene l’esponente pugliese del Pd – troverete “ricchezza e lavoro per il territorio”.
Prima di andare a Milano bisogna però restare in Puglia. Proprio mentre Sergio Blasi disegnava un fantasmagorico nuovo identikit per la sinistra partendo dal concertone di fine agosto, a un paio d’ore di strada da lì esplodeva la più classica contraddizione ambiente e lavoro con il caso Ilva. Che strano: pizzica e fiumi di birra, giovani e musica a Melpignano e nella vicina Taranto – con un sindaco decisamente inseribile nella categoria di sinistra – lavoro e tumori, operai e cittadini contrapposti (come se l’operaio non fosse anche cittadino?!).
Niente di nuovo, diranno i più “esperti”. E hanno ragione. Salute e occupazione sono in un perenne equilibrio instabile, con i visionari che cercano di coniugarli presi per matti. E’ possibile trovare un saggio equilibrio? Sembra che il compito della sinistra (senza aggettivi) sia principalmente questo: trovare un equilibrio tra esigenze diverse, senza penalizzare eccessivamente gli uni o gli altri. Credo che questa sia la vera e profonda ragione della vittoria di Giuliano Pisapia a Milano. Poco più di un anno fa la premiata ditta Pisapia & Co. ha colto un’esigenza che stava esplodendo: il patto sociale proposto dalla destra berlusconian/leghista non funzionava ma occorreva comunque una sintesi tra interessi contrapposti. Ma Pisapia è andato oltre: ha proposto questa sintesi direttamente ai milanesi, senza dipendere dai partiti. E scusate se è poco.
Sono andato a riprendermi le registrazioni che i redattori della mia radio, Radio Popolare, avevano realizzato nelle periferie e nei quartieri alti di Milano, ai classici mercati rionali e tra le panchine ritrovo dei giovani. E’ interessante notare – ad esempio – che nei giorni precedenti al primo turno non era assolutamente scontata la scelta pro-Pisapia. I nostri registratori avevano “catturato” una città allo stremo, piegata dalla crisi economica e dalla delusione per le promesse (anche quelle spicciole) non rispettate, l’opera pubblica non terminata o quella costruita “alla cazzo” (citazione letterale), cioè senza alcuna razionalità. Eravamo persuasi che gli elettori milanesi non stessero esprimendo nettamente una scelta di cambiamento, anzi spesso mostravano scetticismo sulla capacità del centrosinistra di essere alternativa credibile.
Era una delusione che sfociava in sfiducia nelle capacità dei partiti e dei loro rappresentanti istituzionali. Eppure i numeri delle elezioni dicono che questa sfiducia – almeno nel 2011 – non si è trasformata in astensionismo: al ballottaggio del 29/30 maggio ha partecipato il 67,24%, appena un po’ di meno del primo turno (67,56%), in linea con il voto di cinque anni prima (67,52%). Questi numeri confermano l’impressione che l’elettorato esprime (o esprimeva?) la sua indignazione cambiando sporadicamente voto, ma comunque votando. I milanesi (ma similarmente anche i napoletani o i cagliaritani) hanno “licenziato” i berlusconiani e hanno firmato un “contratto” con questi strani animali del centrosinistra.
Qualche mese dopo l’elettorato di Parma ha traslato verso il Movimento 5 Stelle il proprio investimento politico: destra e sinistra ci hanno deluso – è sembrato dicessero i cittadini di Parma – ora proviamo con voi. Insomma, seppur molto lontani, né quello per Pisapia né quello per Pizzarotti si possono considerare voti antipolitici, al contrario sono dichiarazioni politiche di grande interesse, che i partiti non sembrano essere stati in grado di comprendere.
Faccio un auto-esperimento: non ricordo neppure il nome dello sfidante Pd del “grillino” di Parma; non mi vengono in mente iniziative politiche di rilievo del Pd milanese che sembra non aver ancora capito che quasi un elettore su tre li ha votati; Rifondazione, Verdi, Italia dei Valori: non pervenuti. I partiti, insomma, sono stati incapaci di capire cosa chiedevano gli elettori e sembrano ancora sotto choc. Il governo Monti, l’irruzione dei ministri tecnici ha finito per “asfaltare” i partiti tradizionali, che adesso – infatti – boccheggiano. A livello locale come a livello nazionale. Anzi, a dire il vero, anche a livello continentale. Lo ha spiegato bene l’editorialista del Financial Times Martin Wolf a Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera: “[…] il vero problema riguarda le istituzioni nazionali. I governi si sono trovati in mezzo tra il malcontento dei concittadini e le decisioni strategiche prese altrove. I partiti tradizionali sono rimasti spiazzati, incapaci di dare risposte tempestive. In questo vuoto si sono inseriti i populisti, con diverse gradazioni antieuropeiste”.
Forzando un po’ la similitudine sono sempre più convinto che Giuliano Pisapia abbia colto questo segnale, abbia elaborato e portato avanti pervicacemente una risposta convincente: si fosse votato qualche mese dopo, con lo spread alle stelle, forse sarebbe andata diversamente, probabilmente sarebbe stato travolto anche lui dall’ondata anti-casta.
Guido Martinotti, tra primo e secondo turno delle amministrative aveva scritto un articolo per il Manifesto che è stato letteralmente volantinato a Milano in quei giorni. Cosa aveva scritto il sociologo collaboratore di questa rivista? Aveva smontato i luoghi comuni degli intellettuali che volevano piegare la realtà alle loro strampalate analisi. Ma al di là dello scontro intellettuale Martinotti ci aveva fornito un’interpretazione del voto che ha retto alla verifica dei fatti. “Questi von Clausewitz della Grande Politica continuano a pensare che il compito del Centrosinistra sia quello di portare un elettorato di sinistra (giovani, persone istruite e bene informate, classi lavoratrici e sfruttati) a votare un personaggio di destra. È una coazione a ripetere anche se quella destra lì sta scomparendo. L’operazione inversa, che è quella riuscita, alla grande, a Pisapia, di portare un elettorato moderato «decente» su posizioni progressiste, non è neppure presa in considerazione”. Semplice, no? Ogni tanto fa bene rispolverare qualche concetto di Nietzsche come ad esempio “Siamo profondi, ridiventiamo chiari “.
Non dobbiamo dimenticare che la vittoria di Pisapia (ma anche di De Magistris, Zedda, eccetera) è arrivata al culmine di una mobilitazione costante, capillare, interclassista sui grandi temi della contemporaneità: la dignità calpestata delle donne, i diritti sindacali e sociali, i beni comuni. Ricordo che quasi ogni fine settimana Radio Popolare doveva realizzare lunghe dirette da piazze, teatri, palazzetti dello sport. Incontravamo facce note, quelle che non si erano mai perse una protesta antigovernativa, ma c’erano anche persone inattese per quelle mobilitazioni, che ci immaginavamo più a loro agio nelle strade dello struscio invece che in piazza: erano moderati, ma anche indignati. I partiti tradizionali in un primo tempo non volevano vedere e poi hanno snobbato queste persone. Che errore!
Esagerando un po’ si potrebbe dire che sono stati i partiti a fare harakiri. Saranno in grado di rigenerarsi? Per ora sembra di no. A Milano il pallino dell’iniziativa resta nelle mani delle singole personalità politiche, non si percepisce che dietro ci sia la solidarietà dei loro partiti. Anzi, più che in altre stagioni, c’è la sensazione che i partiti siano un coacervo di correnti sgomitanti. E’ un trend non solo milanese: la crisi economica, il governo tecnico, le decisioni sempre più appannaggio solo di elites finanziarie stanno acuendo la crisi dei corpi intermedi della società.
Marina Calloni, che insegna filosofia nell’Università Milano-Bicocca si sta interrogando proprio sul legame tra tecnocrazia e populismo. “Le crisi create dalla globalizzazione sono più difficili da gestire: superano i confini nazionali e richiedono tempi rapidi di reazione, perché la finanza si muove più veloce delle decisioni politiche. Si sta allargando la distanza fra le richieste che vengono dalla società civile e le capacità delle elites politiche di rispondere o di ripensare alla politica, tanto più con le difficoltà vissute dai partiti tradizionali”. E secondo Calloni populismo e tecnocrazia non stanno agli estremi opposti, anzi sostiene che siano “risposte delle elites, un modo per rinegoziare il proprio ruolo con le masse”.
Dunque Milano è stato l’epicentro di un terremoto, causato dal collasso del patto sociale forzaleghista. E quel patto è crollato perché è implosa la finanza, perché i piccoli imprenditori sono stati spazzati via, i grandi patrimoni non sono stati intaccati, il sogno popolare di una facile scalata sociale è evaporato. I partiti del centrosinistra non sono stati capaci di proporre vie d’uscita: perché la recente esperienza del Governo Prodi ha dimostrato che il compromesso fra le due sinistre non funziona e perché le loro ricette non convincono.
L’energia del rinnovamento, la volontà di riconquistare i propri diritti è stata intercettata da persone, più che da organizzazioni. Può non piacere, si può provare nostalgia per il collante ideologico garantito un tempo dai partiti, si può bollare come demagogico il candidato alle primarie Matteo Renzi quando sostiene che “le alleanze si fanno con i cittadini” ma lamentarsene serve a poco. L’esperienza di Pisapia ha dimostrato che una proposta politica seria, il più possibile condivisa, accompagna i partiti, non li esclude. Il contrario, invece, non ha funzionato e non funzionerà. Mai.