Intervista pubblicata nel marzo 1993 all’interno del volume Dialogo col televisore (l’Unità editore).
Nelle due lettere pastorali, di cui riproduciamo alcune parti in questo volume, Lei ha affrontato il tema della comunicazione di massa e, soprattutto, della televisione. La sua riflessione si trovava di fronte a un dilemma, che tale è non solo per la cultura cristiana ma per tutti: la «ambivalenza» di un mezzo che può dare risultati contrastanti. Come si capisce bene da quegli scritti, e dagli stessi loro titoli, Lei ha scelto un atteggiamento di grande apertura, diciamo pure di ottimismo, sulla funzione della Tv. Da quando ha pubblicato le due lettere, non ha cambiato idea sull’equilibrio di quel giudizio?
Certamente sono stato criticato a causa di questo equilibrio. Per esempio, in occasione di un incontro pubblico, Indro Montanelli mi disse che avrei dovuto «scomunicare» la televisione. Anche altri chiedevano che assumessi un atteggiamento totalmente negativo. Ho ricevuto anche qualche lettera, non molte in verità, da alcune persone impegnate dal punto di vista cristiano e sociale che manifestavano lamentele e stimoli a cambiare del tutto il giudizio. Ma io non mi sono deciso in quel senso pur rendendomi conto di tutti i danni che la televisione, se male utilizzata, può fare, proprio perché sono convinto che questi danni li fa solo quando è male utilizzata sia da parte di chi comunica sia da parte di chi riceve. Questo significa che l’uso di questo, che è uno strumento, può essere migliorato e corretto, ma esso in sé è neutro. È un mezzo moltiplicatore, i cui risultati dipendono dalla intenzione, dalla coscienza, dalla competenza di chi lo impiega.
Parliamo un po’ dei vizi della televisione. La Sua riflessione, per quanto fiduciosa, è del tutto consapevole del «potenziale nefasto» che essa contiene. Vi sono pagine de «Il lembo del mantello» dedicate agli effetti negativi dei criteri di «vendibilità» attraverso i quali si selezionano le notizie, alle conseguenze perverse della rincorsa all’audience, alla ricerca a tutti i costi delle emozioni, all’«ingorgo» della comunicazione e così via. Questo aspetto del problema non deve essere secondo Lei, oltre che oggetto della riflessione di un arcivescovo, anche materia per l’azione pubblica?
Sì, certamente, ma andando alle radici del problema. È vero che io sviluppo l’idea del «potenziale nefasto» della televisione, però sempre riferendomi a dei blocchi o a delle difficoltà comunicative che sono già nell’ambito della società, a cominciare dai rapporti interpersonali e famigliari. Non è la televisione che crea queste comunicazioni nefaste, bloccate o conturbanti o capaci di confondere e ingannare. Essa può trarre dalla nostra vita quotidiana comunicazioni sbagliate, nulle, non reciproche o menzognere e le moltiplica. Non genera, ma moltiplica le ferite comunicative che nella nostra società ci sono. Perciò il mio sforzo nella prima lettera, «Effatà», era anzitutto di mettere in luce questi «ingorghi comunicativi», sapendo che poi trattando dei mass-media, ne «Il lembo del mantello», ce li saremmo visti ingigantiti. Non sono i media a produrre violenza, è una società con la violenza nel cuore che si manifesta attraverso i media lasciando spazio libero alla violenza. È questo soprattutto che, in quanto Chiesa, ci preme: andare alla radice dei problemi. È chiaro poi che anche chi ha responsabilità pubbliche dovrà fare la sua parte, ma questo sarà un intervento correttivo, a posteriori, mentre un intervento radicale è quello che va al cuore della persona e all’origine dei rapporti interpersonali.
Ma per restare dalla parte di chi critica la Tv, quali sono, secondo Lei, gli effetti peggiori che produce?
La televisione, quando moltiplica e ingigantisce realtà negative, rischia di rendere la persona insensibile, scettica. Questa mi sembra la cosa più grave: che il bombardamento di cose contraddittorie, negative, inaccettabili sciolga la serietà dell’esistenza. Non per questo una persona diventa necessariamente più cattiva, ma corre il pericolo di disinteressarsi di tutto, di diventare svagata, svogliata, di perdere il nerbo. La televisione può snervare la coscienza, questo sì, perché ha, in questo senso, un forte potere distruttivo, La coscienza esposta a miriadi di immagini crudeli, scioccanti può diventare superficiale, come se fosse di fronte alla prova che tutto equivale a tutto.
E qual è invece l’effetto migliore? Qual è quel quid di bene che essa può produrre e che non si dava prima dell’arrivo della televisione?
Quel quid di bene non è diverso dal bene della comunicazione umana. È la comunicazione umana, interpersonale e sociale, potenziata. E tutto il bene che c’è in essa – capirsi, riconoscersi, accettarsi, mettersi insieme – può essere rafforzato, attraverso la televisione, nello spazio, nel tempo, nella impressione emotiva, nella incisività della proposta. Quando la televisione viene usata così, allora esalta la comunicazione umana positiva e costruttiva.
Che ricordo ha della televisione italiana delle origini, degli anni Cinquanta, Sessanta? Di quella televisione con un solo canale, un po’ paternalistica, molto democristiana, specchio di un’epoca diversa nel bene e nel male? C’è qualcosa da rimpiangere?
Non sono in grado di dare un giudizio competente su quella televisione. Allora la vedevo molto poco. Era forse più ingenua. L’impressione che quella televisione ci lascia è la stessa che proviamo quando guardiamo i film degli anni Venti. Ci possiamo trovare un gusto della vita più elementare, una capacità di commuoversi per cose semplici, un po’ come quando leggiamo il «Cuore» di De Amicis. Era una televisione meno smaliziata e sofisticata, forse più aderente ai sentimenti comuni della gente. Per contrasto nella televisione dei nostri giorni ci sono una più elevata elaborazione tecnica, una esigenza di artificiosità che ci danno un prodotto molto più smagliante. Però riesce difficile ritrovare la semplicità e l’immediatezza che avevano alcuni programmi di allora. Come nei primi film: certe sequenze, per esempio, della «Corazzata Potemkin», avevano nella loro semplicità una potenza che oggi invece è molto più rara. La gente guarda ora i programmi sapendo che sono prodotti commerciali. Tuttavia c’è una stimolazione a fare meglio anche ora. Mi capita all’estero di vedere ogni tanto i programmi di altri paesi e vi sono buoni esempi di progresso. Per esempio in alcune trasmissioni della televisione francese trovo, da una parte, questa perfezione tecnica e, dall’altra, di nuovo semplicità e immediatezza. Quindi credo che la sfida continui.
Una delle conseguenze della televisione e del villaggio planetario delle immagini è quella di aver stabilito legami di conoscenza e di simpatia con realtà altrimenti lontane e sconosciute. I principi del cosmopolitismo illuministico o kantiano (che poi sono il corrispondente etico-universalistico di quelli della fratellanza cristiana) senza televisione sarebbero rimasti astratti e non operanti. In altre parole, senza Tv non avremmo visto, qui o in America, i bambini somali e non ci sarebbe stato l’intervento di una forza militare internazionale.
Questo vale soprattutto per gli interventi umanitari che sollecitano il buon cuore della gente, perché per il resto non dimentichiamo che la politica si muove con la sua forza militare anche senza televisione, come, del resto, ha sempre fatto. Effettivamente l’impatto sull’opinione pubblica di situazioni di fame e disagio è molto più grande, perché è evidente che una volta queste cose non le sapevamo se non per vie indirette. In questo senso è vero, ma on si tratta di una cosa diversa dal seguire la regola fondamentale cristiana che dice: «Ama il tuo prossimo»; e il prossimo è colui di cui vedo il volto. La televisione ha chiarito che il mio prossimo non ha confini. Anche nel Vangelo il prossimo della parabola del Samaritano supera i confini, però la televisione ce l’ha reso presente, perché ogni volto di bimbo che piange e che soffre in ogni parte del mondo, dalla Cina al’Afghanistan ci commuove come se l’avessimo davanti. Questo vuol dire che ci accordiamo che il nostro prossimo è davvero ogni uomo.
Quindi la televisione è responsabile di qualcosa di importante nella vita della specie umana. Sia che guardiamo agli esseri umani secondo i principi cristiani per cui siamo tutti figli di Dio, sia che li guardiamo attraverso i principi universali del 1789, con la comunicazione globale avviene un cambiamento.
È un cambiamento che porta a riconoscere meglio un principio che poteva rimanere astratto, come quello di essere figli di Dio. Così il principio si esercita concretamente: vediamo che quelle persone lontane hanno le stesse nostre sofferenze, piangono come noi, la loro fame è drammatica anche per noi. Questo cambiamento facilita la mondialità, nella vita e nella coscienza della gente, ed è ormai acquisito.
E questo è un cambiamento che tutti tendono a considerare positivo. Ci sono invece coloro che sostengono che la televisione sta producendo sì cambiamenti profondi ma negativi. Il più radicale nel sostenere questa tesi è Karl Popper, secondo il quale occorrerebbero addirittura misure estreme, come la censura, perché la televisione espone i bambini alla violenza con una intensità sconosciuta in passato. Il filosofo austriaco sostiene che nessun bambino, per quanto sfortunato, avrebbe potuto essere sottoposto a tante immagini di violenza, a tanti incontri con la morte e il crimine come avviene con il video in casa. Questo mutamento antropologico e questa deformazione della coscienza spiegherebbero l’aumento della violenza nella società. Che cosa pensa di queste critiche?
Bisogna dire, come si afferma in uno degli articoli di questo libro, che i bambini hanno un senso vago della realtà, per cui rischiano di non capire neanche bene la natura di certe crudeltà. Quindi è vero che si fa loro un danno attraverso la televisione, ma forse questo danno è peggiore per gli adolescenti, che hanno un rapporto più consapevole con la realtà. Direi che mettendo un bambino di fronte a immagini violente, di cui il piccolo non coglie bene il senso perché non sa esattamente distinguerle da favole con orchi e draghi, si compie un atto sciocco, certo non educativo. Ma più gravi mi sembrano le conseguenze per l’adolescente che comincia a prendere sul serio la vita e che non riesce a distinguere tra ciò che sperimenta nella sua quotidianità e questi fatti, magari inventati, che gli passano davanti in televisione. Nell’età della scuola media i ragazzi cominciano ad assumere le immagini con maggiore dramma interiore, mentre prima ne avevano una percezione più nebulosa. Capisco comunque il senso della critica di Popper e credo che questo problema meriti di essere studiato.
Tra le grandi accuse che si fanno alla televisione c’è quella di far perdere le distanze tra realtà e finzione e di imporre, attraverso la pubblicità, modelli di vita che nascono da una spinta commerciale e che deformano la percezione della realtà.
Questo è uno degli aspetti negativi che possono pesare di più, perché qui interviene l’elemento del potere. Lo dicono anche coloro che lavorano nei mass-media. Indubbiamente la pubblicità è un potere, perché è alimentata dal denaro. E il denaro cerca l’audience, che si può aumentare con trucchi che ci portano al di fuori di un autentico agire comunicativo. Qui effettivamente il comunicatore serio rischia di essere imbrigliato in questa catena pubblicità-potere-denaro-audience, rischia di doversi barcamenare modificando o tagliando programmi proprio per obbedire al potere della pubblicità, che vuole audience e basta, mentre il comunicatore potrebbe produrre un’opera più bella, più fine, più delicata, più artistica, più comunicativa, se non fosse soggetto a questo dominio. È un problema molto serio ed è quello che mi preoccupa di più. Del resto parlando con molti comunicatori, della radio, della televisione, dei giornali, ho visto che è spesso quello che preoccupa di più anche molti di loro, perché sanno bene che queste forze sono pervasive e occulte e che possono risultare molto più determinanti di quanto il recettore ordinario non intuisca. Salvatore Veca, nel saggio contenuto in questo libro, dice cose interessanti su questo tema del potere: la conquista della libertà di stampa che diventa poi un potere che può essere anche oppressivo.
Continuando in questo viaggio tra i vizi della televisione – del resto inevitabile proprio perché Lei è l’autore de «Il lembo del mantello», che contiene, per quanto circostanziata e condizionata, anche una «lode» per «fratello televisore» – incontriamo un’altra critica: il potere mediatico (di coloro che vediamo in televisione) consiste nell’apparire quanto più possibile, nel mostrare la propria faccia, indipendentemente dal contenuto della comunicazione. L’accusa è quella di produrre un distacco tra l’apparire e le ragioni dell’apparire. Per un leader politico – dicono alcuni – finisce per contare di più la quantità della presenza in video che quello che dice.
Questo è un fenomeno preoccupante, e talvolta proprio lo si vede che i minuti di presenza sono calcolati, ma ho anche l’impressione che ci si illuda, perché, stando dalla parte della gente, colgo il fastidio diffuso per il fatto che si concedono spazi, per esempio , a un certo politico che dispone di un ceto numero di muniti anche se non ha cose molto interessanti da dire. Mi pare che ci sia anche una autocritica in corso interna al sistema. Del resto basta pensare come nei paesi ex-comunisti una televisione di Stato che propinava dal mattino alla sera ideologia e basta non ha costruito niente producendo soltanto un accumulo di disagio e disgusto da parte della gente. Bisogna studiare con molta attenzione il rapporto tra televisione e potere politico, perché gli effetti di un eccesso di apparire possono essere anche contrari a quelli desiderati. Credo che i grandi uomini politici abbiano il fiuto di quello che serve e degli eccessi che guastano. La televisione è uno strumento delicato e complesso che si ritorce anche contro chi pretende di dominarlo.
Per inciso, Lei quanto la vede la televisione?
Poco, ed essenzialmente al momento del pranzo e della cena, quindi vedo soprattutto i telegiornali. Le altre cose a spezzoni, solo per pochi minuti. Raramente c’è un programma che mi prenda e mi interessi. Riconosco che questa è una lacuna e che sarebbe utile qualche volta vederne di più di televisione, ma non ho tempo (e la mancanza di tempo che affligge non solo me è il tema con cui ho voluto aprire la lettera pastorale di quest’anno, «Sto alla porta») e non posso sacrificare altre cose. La sera sono quasi sempre impegnato fino a tardi con le visite pastorali. Mi capita però di ricevere cassette registrate da paesi stranieri e di vedere programmi scientifici e di dibattiti.
Lei sta anche dall’altra parte del video e appare spesso in televisione davanti a un pubblico ampio. Quindi sarà già in grado di fare un bilancio in quanto comunicatore attraverso il video.
È molto difficile valutarne gli effetti. Per questo non vado volentieri in televisione. Le valutazioni più interessanti sono quelle fatte a tu per tu. Per esempio c’è una persona, non credente, che ha seguito attentamente un mio programma e che mi ha mandato una lettera con sue riflessioni. Questo è un impatto che ritengo utile. Ho fatto riflettere una persona e sono entrato in comunicazione vera con lui. Mentre i giudizi più generali – «va bene», «non va bene» – non dicono molto. La stessa cosa accade con le mie omelie: non mi interessa quando si disquisisce sul fatto che «piace» o «non piace», «c’era gente», «non c’era gente». Mi interessa quando qualcuno pone la sua attenzione su quello che ho detto, se ha fatto pensare e a che cosa. E questo p difficilmente valutabile. Però andando in giro mi accorgo che qualche cosa di positivo c’è, quello che chiamiamo «feedback», un riscontro sul merito. Il resto è «audience», valutazioni commerciali.
Il «fratello», l’«amico» televisore, di cui si parla in questo libro è quello attraverso il quale è arrivata in tutte le case italiane, in questi mesi, la crisi di un sistema politico, tangentopoli, gli arresti prima qui a Milano, poi dappertutto. Come valuta lo sconcerto del villaggio italiano?
Ho paragonato questa situazione a quella degli Ebrei nel deserto, che sono sfuggiti al Faraone, ma si sono trovati smarriti, senza cibo, con la tentazione di tornare indietro. E non riguarda soltanto gli Italiani, ma in generale l’Europa, perché il problema della decrescente fiducia nei politici non è solo italiano, anche se qui si manifesta in modo forse più acuto. Stando a contatto con la gente, con il popolo, ne ho ricavato la convinzione che ci sono moltissime persone oneste, trasparenti, pulite che hanno voglia di riscatto e di onestà. Penso perciò che ne usciremo soprattutto se molte di queste persone si metteranno seriamente nell’azione politica. Riusciremo a ricostruire un tessuto molto logorato, ma quest’opera non ci sarà buttata in grembo già fatta, bisognerà farla. Intravedo ancora un lavoro abbastanza faticoso; il cammino nel deserto prima di raggiungere la Terra Promessa è ancora lungo e difficile.
In questo clima di sfiducia e sconcerto per la politica, dopo gli avvenimenti internazionali che hanno cambiato tante cose, è uscito da poco un suo libro, non una lettera pastorale questa volta, che si intitola: «C’è ancora qualcosa in cui credere». Se si va a scorrere l’elenco delle «cose in cui credere», troviamo il Vangelo, il Battesimo, la Resurrezione, cioè temi di stretta pertinenza della Chiesa. Non ci troviamo, per esempio, una politica nuova, un nuovo senso della collettività e così via. Che cosa vuol dire? È un invito a ritirarsi dalle cose della società?
No, quel testo ha un’altra origine. Non era stato pensato per essere pubblicato in Italia. È stato scritto per la Germania, doveva riflettere su una crisi molto diversa dalla nostra e rispondere a una questione aperta da uno scrittore là molto noto, Eugen Drewermann, il quale riconoscendo una situazione di angoscia generalizzata propone di uscirne lasciando da parte gli strumenti riconosciuti validi dalla tradizione cristiana. Il mio ragionamento parte invece dall’angoscia per dimostrare come questi strumenti sono tuttora validi. Perciò è un discorso altro rispetto alla situazione italiana. Dovendo scriverlo qui, aggiungerei quello che ho detto nelle mie trasmissioni televisive sull’etica: ci sono dei punti d’appoggio condivisi dai quali può nascere un rispetto del bene comune, dell’onestà della trasparenza. Quella sarebbe l’appendice italiana di questo volume: la ricerca di punti etici partendo non da teorie deduttive ideologiche ma dal vocabolario che la gente e che mostra anche l’ethos di un popolo. Si può essere onesti, si può promuovere il bene comune, si può avere fiducia nelle istituzioni, ma a certe condizioni. Quel libro, che per la Germania rappresenta l’aspetto teologico del problema, può essere completato attraverso una riflessione sull’etica pubblica, che là ho tralasciato perché quella situazione è diversa.
Quindi il libro non vuol dire che lei ritiene che non ci sia più niente in cui credere nella sfera pubblica?
No. Sono tornato su questo punto anche recentemente sviluppando un capitolo, della mia lettera pastorale di quest’anno, «Sto alla porta», dedicato alla speranza. Che cosa possiamo sperare di speranza teologica anche per questa vita, cioè per l’oggi visto che la speranza del cristiano è prima di tutto escatologica). E ho ripreso questo tema nell’ultima giornata della solidarietà a fine gennaio rispondendo esattamente alla questione posta dalla sua domanda.
Pensa che una iniziativa come questa, di un libro con suoi scritti distribuito con «l’Unità», Le provocherà qualche nuova critica? Lei infatti riceve critiche da direzioni diverse, il che vuol dire che sta in mezzo ad attenzioni opposte.
Ciascuno spera di stare al posto giusto.
Ci sono critiche che vengono da settori del mondo cattolico, secondo le quali Lei farebbe troppe concessioni al dialogo con la cultura e con l’etica laiche. Dall’altra parte, nella cultura laica, c’è chi critica un eccesso di interventi dei cardinali sui temi della vita pubblica. Adesso ne riceverà delle altre?
È possibile perché tutto è soggetto a critica; nel mercato delle idee la critica è di casa. Ma non mi preoccupa più di tanto. Per me è interessante vedere di una critica che fondamento ha, che cosa posso imparare. Mi servono molto le critiche quando provengono da persone intelligenti e allora mi fanno riflettere. Se invece sono pure espressioni di passionalità, allora vanno e vengono come le onde del mare.