Da circa trent’anni vado regolarmente in Israele, e ogni volta mi ritrovo a parlare quasi sempre di politica. Eppure ho difficoltà a capire quel che è successo la scorsa settimana a Gerusalemme e a Washington, a cominciare dal discorso di Barack Obama|.
La novità introdotta dal presidente degli Stati Uniti non è il riferimento ai confini del 1967, bensì la proposta di affrontare subito la questione dei confini e della sicurezza e rimandare quella dei rifugiati palestinesi e dello status di Gerusalemme. Per gli israeliani di sinistra (i miei amici), convinti che Israele abbia tutto da guadagnare da un ritiro dai Territori e che tale strategia risponda a una necessità impellente più per gli ebrei che per gli arabi, è un discorso sensato. Non lo è affatto, invece, per Netanyahu e i suoi alleati, che vedono il ritiro come una concessione troppo importante, per la quale probabilmente non sono ancora pronti (né lo saranno mai, a meno che non serva a chiudere definitivamente il conflitto con i palestinesi). Questi ultimi, in altre parole, dovrebbero rinunciare al diritto al ritorno in cambio del ritiro israeliano dalla Cisgiordania. Ma questa eventualità è altamente improbabile e, purtroppo, Obama ha come interlocutore la destra israeliana, non la sinistra. La reazione alle sue proposte, dunque, era prevedibile.
Eppure, Netanyahu avrebbe potuto rispondere diversamente alle dichiarazioni del presidente Usa. Avrebbe potuto accogliere con favore il rifiuto di una proclamazione unilaterale dello Stato palestinese, la promessa che Israele non resterà isolato nell’ambito delle Nazioni Unite, l’invito ad Hamas affinché accetti Israele e rinunci al terrorismo, l’obiettivo di una Palestina demilitarizzata e la richiesta del riconoscimento di Israele come Stato ebraico. Infine, avrebbe potuto semplicemente riconoscere che vi sono ancora dei punti di disaccordo da chiarire circa i confini, gli insediamenti e l’ordine nel quale affrontare le questioni più spinose.
Perché Netanyahu si è impuntato sul passaggio relativo ai confini del ’67 e ha acceso uno scontro? La risposta è molto semplice: il processo di pace non gli interessa (non crede neppure che esista) e pensa solo alla sua posizione politica in patria. Il discorso al Congresso degli Stati Uniti è stato uno strumento di propaganda elettorale.
Ma non c’è solo questo. Non ho grande stima di Netanyahu, ma un primo ministro israeliano dovrebbe avere un progetto per il futuro del suo paese (e non solo per la propria carriera). Che cosa ne pensa della deriva di Israele verso la condizione di paria della comunità internazionale, della crescita in molti paesi dei movimenti di boicottaggio, dell’eventualità che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite riconosca uno Stato palestinese (come ha fatto molti anni fa con quello israeliano), e della possibilità che i palestinesi organizzino proteste pacifiche su larga scala (qualcosa che Israele non ha mai dovuto affrontare in passato)? Il suo discorso non ha toccato nessuno di questi punti. È stato definito un discorso «immobilista», ma la mia impressione è che Netanyahu stia camminando a occhi chiusi verso la rovina. Dovrebbe sapere che le standing ovation a Washington non servono a proteggere il popolo che egli dice di rappresentare. Non capisco che cosa abbia in mente.
I leader palestinesi accoglierebbero con favore il ritiro di Israele dalla Cisgiordania, ma non sono assolutamente pronti a chiudere il conflitto. Nessuno di loro ha mai manifestato la disponibilità a rinunciare al diritto al ritorno dei profughi. Non sono abbastanza forti da poter compiere una scelta del genere, ma ho il sospetto che non ne abbiano neppure la volontà. Il loro obiettivo strategico è – temo – sempre lo stesso: la creazione di uno Stato palestinese accanto a uno Stato ebraico che non riconoscono e verso il quale nutrono ostilità. Sul piano tattico, tuttavia, sono state introdotte alcune novità. Seguendo un percorso a ritroso, hanno fatto ricorso prima alla violenza e al terrore, poi a proteste pacifiche. Se avessero proceduto nell’ordine inverso, oggi avrebbero già un loro Stato.
In passato ci sono state piccole proteste non violente, che oggi continuano nei villaggi lungo il Muro, ma avevano e hanno tuttora un ruolo marginale nella lotta palestinese e non sono mai state appoggiate da al Fatah o dall’Olp, e tantomeno da Hamas. Oggi Israele deve fare i conti con un fenomeno completamente nuovo. Come può opporre resistenza a gruppi di uomini, donne e bambini che oltrepassano le linee di armistizio?
In realtà, se sono intelligenti – e hanno dimostrato di esserlo –, i palestinesi non varcheranno le linee di confine, perché una mossa del genere evocherebbe lo spettro del ritorno, e il diritto al ritorno non gode (ancora) di sufficiente consenso sul piano internazionale. Il prossimo settembre, tuttavia, quando le Nazioni Unite avranno riconosciuto il loro Stato, marceranno in migliaia oltre i confini del 1967 – da Nablus, per esempio, fino ai vicini insediamenti e basi militari – per affermare la propria sovranità e integrità territoriale. E a quel punto che farà Israele?
Gran parte della destra israeliana preferirebbe quasi sicuramente una nuova campagna terroristica, che farebbe passare i palestinesi ancora una volta dalla parte del torto. È un esito certamente possibile, ma – ecco la novità inattesa – meno probabile di una protesta pacifica.
Obama ha cercato di aiutare Netanyahu a evitare o posticipare il voto alle Nazioni Unite, per dare a Israele la possibilità di convertire la proclamazione dello Stato di Palestina in un progetto congiunto dei due popoli. Quali che siano le possibilità di successo, l’avvio di seri negoziati sui confini israeliani è un’esigenza fondamentale, e l’ostinato rifiuto di Netanyahu mi sembra una scelta folle. Non inaspettata, ma pur sempre folle. La speranza è che qualcuno alla Casa Bianca abbia un’idea sui prossimi passi da compiere.
Pubblicato su Dissent magazine
(Traduzione di Enrico Del Sero)