Che fine ha fatto l’euforia europea pro-Biden? Figlia di un gigantesco sospiro di sollievo per l’uscita di scena di Donald Trump, l’ondata di entusiasmo che aveva investito il continente dopo il 3 novembre scorso sembra essersi ritirata per far spazio ad una più rilassata, ma distaccata attesa di quel che verrà. Né da parte americana, d’altronde, il mood pare molto diverso: certo le nomine – su tutti quella di Antony Blinken – e le prime mosse della nuova Casa Bianca indicano chiaramente la volontà di riaprire le porte al multilateralismo e alle storiche alleanze, ma il “grande abbraccio transatlantico”, con tutta evidenza, ancora non c’è stato.
Parte della ragione sta, naturalmente, nel peso parallelo delle dinamiche interne. Tanto per i governi europei quanto per quello americano, le due priorità imprescindibili e complementari sono da un lato l’accelerazione della campagna vaccinale per vincere la corsa contro il tempo contro il virus (e le sue varianti), dall’altro la “messa a terra” di programmi d’investimento pubblico senza precedenti per tenere in vita le economie: il già approvato Next Generation EU di qua, il maxi-piano di stimolo di dimensioni idonee (poco meno di 1.600 miliardi di euro) che Biden spinge in Congresso di là.
Eppure c’è dell’altro. C’è che come in ogni relazione che si rispetti, dopo la “cotta” iniziale i due (forse) innamorati sembrano studiarsi a vicenda, attenti a non scoprire le carte e un pizzico diffidenti. A raffreddare il clima, a scanso di equivoci, siamo stati in primis noi europei – o i nostri rappresentanti di ultra-vertice, se preferite: non è un mistero che la conclusione in tutta fretta a fine dicembre dell’Accordo quadro sugli investimenti tra Ue e Cina, proprio nel pieno della transizione di potere americana, non sia andata giù al team Biden. Un fatto compiuto che ha gettato più di un dubbio sulla reale disponibilità dell’Ue a far fronte comune con gli Usa contro il “competitore strategico di lungo termine” che pure a parole considera essere Pechino.
D’altra parte, come ricordava nei giorni scorsi sul Corriere Federico Fubini, anche l’Ue ha capito in fretta che su molti nodi concreti transnazionali quella dell’amministrazione Biden è tutt’altro che un’inversione a U rispetto all’era Trump: dei dazi all’importo di centinaia di prodotti europei, non uno è stato per ora abolito – anzi tra i primi ordini della nuova Casa Bianca spicca quel “Buy American” che di tutto sa tranne che di abbandono del protezionismo. E sulla tassazione/regolamentazione dei colossi digitali, priorità sempre più cruciale della fiscalità europea, le due sponde dell’Atlantico parlano due linguaggi diversi.
Siamo alle prime battute, e lo “scongelamento” delle relazioni prima di tutto inter-personali potrà certo riportare vento alle vele della cooperazione. Ma il punto cruciale potrebbe essere proprio questo: come chiunque voglia intrecciare rapporti con l’Unione europea, Biden ha bisogno di un interlocutore privilegiato. Chi sarà? Con la Merkel, guida “naturale” del blocco, la frequentazione è antica e rodata. Ma dopo sedici anni di onorato servizio è una leader al tramonto, un po’ per scelta e un po’ per necessità, dunque senza più energia politica da spendere. Senza contare che il mezzo tradimento di Capodanno con “l’altra” (la Cina) è stato notoriamente frutto in primis delle pressioni tedesche, e degli interessi in Oriente delle sue grandi aziende in particolare.
Venuto meno con la Brexit il “grimaldello” inglese – da sempre un atout americano – l’opzione B naturale sarebbe la Francia di Emmanuel Macron: leader dalla visione globale del tutto compatibile su molti piani con quella Democratica Usa. È il suggerimento che danno a Biden attenti osservatori, come Philip Stephens sul Financial Times. Pesa però, oltre a una certa reciproca differenza “congenita” franco-americana, l’incognita sul futuro della leadership dello stesso Macron: tra poco più di un anno a Parigi si vota, e la sua rielezione è tutt’altro che scontata.
Se la carta non dovesse funzionare, potrebbe spuntare a sorpresa quella italiana. Da capo della Bce il neo-premier Draghi era un interlocutore primario dell’amministrazione Obama di cui Biden fu vice, dunque non c’è di certo bisogno di presentazioni. E il raddrizzamento geopolitico del Belpaese verso l’Atlantico messo subito in chiaro da Draghi, insieme sperabilmente a quello economico, rende l’investimento interessante per la Casa Bianca. Ma in fondo è improbabile, nota un politologo esperto come Fernando Vallespìn, che a prendere la leadership politica dell’Ue possa essere un tecnocrate il cui mandato, con ogni probabilità, non durerà più di un anno.
Dilemmi che cominceranno a diradarsi da questo venerdì, quando Biden inaugurerà “davvero” la sua politica estera partecipando ai primi due summit di peso – benché virtuali: il G7 presieduto dall’amico-nemico Boris Johnson, e la Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, dai cui interventi si attendono segnali concreti sul possibile “disgelo” euro-americano: questo matrimonio s’ha da fare? Con chi, e a che condizioni? A Pechino sono aperti i taccuini per gli appunti.
Foto: L’allora vicepresidente Joe Biden in visita a Bruxelles – Febbraio 2015
(E. Dunand / AFP)