Il Mediterraneo, i suoi conflitti e la sua centralità. E quella “vocazione” che l’Italia ha vieppiù smarrito. A dieci anni dalla deposizione di Gheddafi e dall’inizio della guerra civile in Libia, Reset torna a discuterne con il generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, e prim’ancora dell’Aeronautica militare, consigliere scientifico dello Iai (Istituto affari internazionali), uno dei più autorevoli analisti militari, nonché tra i fondatori di Azione di cui è responsabile difesa.
Generale Camporini, cosa è oggi il Mediterraneo e perché resta un’area nevralgica dal punto di vista geopolitico?
Tanto per cominciare, il Mediterraneo è un tratto di mare che raccoglie una percentuale assai significativa di tutti i traffici che si muovono sul globo. Esistono quelli che in inglese si chiamano choke point – punti di convergenza – fondamentali per i traffici commerciali. Uno di questi è lo Stretto di Malacca, che è vitale per l’economia dei paesi asiatici, a partire dalla Cina. Il Mediterraneo lo è altrettanto. Può darsi che nel futuro sia meno vitale se effettivamente si aprirà in modo significativo la rotta artica. Ma al momento attuale, il traffico che dai paesi orientali va in Europa e viceversa passa per il Mediterraneo. Da questo punto di vista, l’importanza strategica di questa via di comunicazione, perché tale è il Mediterraneo, è senza ombra di dubbio vitale. Vitale per i paesi rivieraschi ma anche per il resto della comunità internazionale. Il controllo del Mediterraneo costituisce certamente un elemento chiave nella strategia che deve essere perseguita dai paesi rivieraschi e non solo. E questo spiega ciò che stava facendo la Turchia, quello che ha fatto storicamente la Francia, quello che avevano fatto i paesi della penisola fin dai tempi dei romani, e prim’ancora dei fenici. Qui stiamo parlando veramente di una caratteristica economico-strategica che ha delle radici storiche profondissime.
Il passato si lega con il presente se si pensa al ruolo della Turchia del “Sultano” Erdogan…
Anche qui la storia ci aiuta a inquadrare il problema. La Turchia ai tempi dell’impero ottomano godeva di una significativa rendita di posizione, visto che dominava, tramite o i suoi paesi satelliti ovvero le sue articolazioni territoriali nelle varie province, buona parte delle coste del Mediterraneo orientale. Noi glielo abbiamo strappato all’epoca della guerra del 1911. Una guerra certo non etica dal punto di vista dei comportamenti, ma dal punto di vista strategico fu sicuramente una cosa intelligente che ci mise in una posizione di grande potere che non abbiamo poi saputo sfruttare durante la Seconda guerra mondiale. Meglio così, però… Per venire all’oggi, la Turchia si propone di ricreare quella situazione di controllo che gli era stata strappata. Il presidente turco, pur con tutte le riserve per la sua spregiudicata politica, ha degli obiettivi, li persegue con grande determinazione, anche approfittando dell’arrendevolezza degli altri attori sul terreno. Erdogan è un personaggio che considero, per molti versi, pericoloso, ma è uno che sa che cosa vuole e come ottenerlo. Altri paesi hanno delle ambizioni, in particolare la Russia, anche se per altri motivi rispetto alla Turchia…
Quali sono questi motivi?
Mosca vuole aprire un accesso privilegiato alle acque calde, cosa che la Russia sogna dal 1500 in poi, e dubito che nelle ultime settimane i russi abbiano cambiato idea. Ci troviamo adesso ad avere un punto strategico, un choke point che viene conteso o comunque rientra nelle ambizioni strategiche di varie potenze. La Francia si è vista erodere gradualmente la sua posizione nel Mediterraneo. L’Italia se l’è fatta erodere allegramente senza battere ciglio.
Per venire a noi. Si è sempre detto o scritto che un punto qualificante della politica estera dell’Italia sia stato la sua “vocazione mediterranea”. Generale Camporini, cosa è rimasto di quella “vocazione”?
È rimasto abbastanza poco. Nel senso che è rimasta la politica energetica, grazie all’Eni, anche se l’Eni, molto saggiamente, ha di molto diversificato le sue fonti di approvvigionamento, tant’è che oggi buona parte del suo fatturato viene generato in paesi africani, il Mozambico ad esempio. Dal punto di vista della politica estera, diciamo che dopo De Michelis, che è stato l’ultimo grande ministro degli Esteri che abbiamo avuto, c’è stata una carenza di iniziative che da un lato non ci ha permesso di cogliere delle opportunità che esistevano, e dall’altro ci ha fatto perdere di credibilità anche per una questione di scarsa consapevolezza della struttura strategica dell’area.
A cosa si riferisce in particolare?
Alla decisione sciagurata di partecipare alle operazioni in Libia del 2011. Decisione che è maturata perché, a detta del nostro vertice istituzionale, gli altri erano partiti e noi non potevamo non far parte di questo gruppo. Dimenticandosi che grazie alla struttura geografica e geostrategica dell’area, non è che l’operazione contro Gheddafi si sarebbe potuta fare in barba alle decisioni italiane. Si è potuta fare soltanto grazie alla nostra partecipazione e alla messa a disposizione di varie basi aeree che hanno consentito la campagna che poi ha portato alla caduta del regime di Gheddafi. Da un lato c’era una sorta di arrendevolezza politica e dall’altro una scarsa consapevolezza di quelli che sono i parametri fondamentali dell’area dal punto di vista militare. Non possiamo continuare a giocare di rimessa, dobbiamo assumere iniziative.
Restando alla Libia. Dieci anni dopo quella che lei ha definito una “sciagurata guerra”, si può sostenere che il paese nordafricano sia in via di stabilizzazione?
Assolutamente no. In primo luogo, perché la Libia non è un paese. La Libia è un’espressione geografica, come diceva Metternich, ove risiedono una serie di popolazioni – stiamo parlando di un totale di 6 milioni di abitanti – suddivise in una miriade di municipalità, tribù, confraternite che non si sentono affatto di appartenere ad unico paese, ad un unico Stato. Non c’è un sentimento nazionale libico, non esiste. Questo è un punto che deve essere tenuto ben presente da chi opera nell’area, perché soltanto con un approccio molto articolato si potrà pensare di avere, in quel territorio, un’entità istituzionale che, in qualche modo, rappresenti tutte le popolazioni presenti. Ossia una sorta di confederazione o federazione dove tutte le voci presenti sul territorio che noi chiamiamo Libia abbiano modo di esprimersi e di ottenere i benefici di far parte di un’unica entità statuale. Da questo punto di vista, siamo ancora più lontani, come è dimostrato dalla storia degli ultimi dieci anni. Ogni tanto sembra accendersi un barlume di speranza, come nelle ultime settimane con questa ipotesi di elezioni a fine anno; ipotesi che però viene periodicamente rimessa in discussione dai singoli attori che non si sentono adeguatamente valorizzati dal possibile evolvere degli eventi. Adesso sento parlare del figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, che sarebbe sponsorizzato dalla Russia. Non dimentichiamoci che Gheddafi padre è riuscito a tenere insieme questo coacervo di popolazioni, usando metodi che non credo piacciano molto alle nostre “anime belle”. Però lui c’è riuscito. E se un suo erede riuscisse nello stesso intento, io credo che dovremmo chiudere un occhio, magari tutti e due, di fronte ai metodi impiegati. Perché noi abbiamo un interesse vitale ad avere un unico interlocutore al di là del mare. E questo è un interesse fondamentale proprio per la stabilità di tutti i nostri traffici. Non dimentichiamoci che quasi il 90% delle merci che importiamo ed esportiamo passano attraverso i canali del Mediterraneo.